L’ultimo esercizio di valutazione nazionale (VQR) e la prima tornata dell’Abilitazione Nazionale (ASN) hanno provocato vivaci reazioni. Molte riflessioni, anche fortemente critiche, si concentrano sugli effetti di tali procedure su singole aree o settori disciplinari. La Redazione di Roars ha deciso di porre a disposizione dei lettori questo spazio, dove collocare, previa verifica dei requisiti di pubblicabilità, documenti relativi a queste procedure. I documenti qui pubblicati non riflettono l’orientamento della Redazione, che per forza di cose non può che astenersi dal prendere posizione in relazione a casi specifici, ma sono messi a disposizione del pubblico al fine di favorire una discussione informata.
INDICE
63. Breve controreplica di Umberto Melotti a Consuelo Corradi (25.2.2015)
62. Replica della prof.ssa Corradi al “Documento di sintesi” pubblicato il 7.2.2015 (19.2.2015))
61. Documento di sintesi sulle cosiddette Abilitazioni Scientifiche Nazionali in sociologia (7.2.2015)
60. Abilitazione Scientifica Nazionale, settore 10/L1: cronaca di un fallimento annunciato (22.1.2015)
59. Lettera aperta della Commissione ASN 13/B2 (26.12.2014)
58. Documento della Società Italiana di Fisioterapia sull’ASN (4.9.2014)
57. Lettera dei ricorrenti ASN nei settori sociologici (3.7.2014)
56. Lettera inviata dai Professori ordinari di diritto dell’Unione europea (SSN IUS/14) al Ministro Giannini in merito alla composizione della commissione per l’Abilitazione Scientifica Nazionale (1.7.2014)
55. R. Rota, Il buon andamento della PA al “tempo degli ossimori”: “proroga e revisione delle procedure” (28.6.2014)
54. Petizione al MIUR di candidati ASN del settore concorsuale 08/A2 (27.6.2014)
53. M. Formisano, Some thoughts on the Abilitazione Scientifica Nazionale (4.6.2014)
52. Lettera sugli esiti ASN del settore Culture del Vicino Oriente Antico, del Medio Oriente e dell’Africa (13.5.2014)
51. Lettere degli editors di riviste internazionali di Storia Economica alla commissione ASN (11.5.2014)
50. Membri del board della SISE e dell’AISPE a proposito dell’ASN di Storia Economica (10.5.2014)
49. Lettera aperta sugli esiti dell’ASN nel settore di Storia dell’Architettura e Restauro (3.5.2014)
48. Roberto Pasini, Modesta proposta per tutelare la dignità della docenza universitaria (e altro) (2.5.2014)
47. Osservazioni e proposte al Governo da parte della Conferenza per l’Ingegneria (12.4.2014)
46. Commento ai risultati ASN per il s.c. 08/D1 – progettazione architettonica (11.4.2014)
45. Lettera al Ministro della CISL-FU (10.4.2014)
44. Intervento di D. Andreozzi e L. Panariti sulla querelle relativa a Storia Economica (9.4.2014)
43. Lettera al Ministro di ordinari del settore ICAR/18 (Storia dell’architettura) sugli esiti dell’ASN (7.4.2014)
42. Lettera del prof. C. Balduini, Presidente della Società Italiana di Biochimica e Biologia Molecolare, a proposito della mancata pubblicazione degli esiti ASN del s.c. 05/E1 (6.4.2014)
41. Lettera del prof. R. Porta, coordinatore nazionale del collegio degli ordinari per BIO/10 sulla mancata pubblicazione degli esiti ASN del s.c. 05/E1 (3.4.2014)
40. Documento AIP sugli esiti della prima tornata ASN (31.3.2014)
39. Lettera al Ministro sul settore 08/E2 (28.3.2014)
38. Franco Amatori risponde a Douglass North e agli storici economici intervenuti sull’ASN di storia economica (25.3.2014)
37. Un premio Nobel ed undici storici economici intervengono sugli esiti dell’ASN di storia economica (24.3.2014)
36. L’abilitazione scientifica nazionale per il settore del Diritto del Lavoro (22.3.2014)
35. M. Romano, Sull’ASN di Diritto del Lavoro (18.3.2014)
34. G. Vecchio, Richiesta di annullamento dei lavori della commissione di Diritto Privato (14.3.2014)
33. M. Ferretti, L’ASN e il fascino discreto dei numeri. Lettera aperta al Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (13.3.2014)
32. Lettera al ministro Giannini sull’ASN di storia dell’architettura e restauro (8.3.2014)
31. Lettera del Coordinatore della Giunta dei PO dell’SSD BIO/10 sulla mancata pubblicazione degli esiti del settore concorsuale 05/E1 (8.3.2014)
30. Lettera aperta al Ministro Giannini da parte di un gruppo di studiosi di discipline giuridiche con curriculum internazionale (8.3.2014)
29. CE AIP, Esiti dell’abilitazione nazionale per il raggruppamento concorsuale 11/E3: considerazioni e proposte (7.3.2014)
28. J. Papp, A proposito dell’ASN nel s.c. 10/G1 – glottologia e linguistica (3.3.2014)
27. M. Ferretti, Il mestiere di storico secondo la commissione di storia contemporanea: quantità versus qualità (2.3.2014)
26. U. Melotti, Il caso del commissario-ministro (1.3.2014)
25. Retevitruvio, Lettera aperta al Ministro dell’Università e della Ricerca (28.2.2014)
24. L. Bifulco, Abilitazioni e lotterie (27.2.2014)
23. R. Caso, M. Granieri, Vincitori e vinti? Alcune domande sull’ASN (26.2.2014)
22. A. Marradi, Replica agli interventi di P. Barbieri apparsi su Per la Sociologia (24.2.2014)
21. L’Associazione Artem docere a proposito dell’ASN per storia dell’arte (19.2.2014)
20. Nuova interrogazione parlamentare sulle procedure ASN (relativa a diritto comparato) (18.2.2014)
19. A. D’Andrea, Tutto cambi affinché nulla cambi (17.2.2014)
18. Ri.Uni.Ba., Lettera aperta di un ricercatore (16.2.2014)
17. Documento COMPALIT in merito ai risultati ASN (14.2.2014)
16. Gianfrancesco Vecchio, Lettera al Ministro sull’abilitazione scientifica per Diritto Privato (5.2.2014)
15. Francesco Ramella, Paolo Volonté, Smobilitare il risentimento (31.1.2014)
14. Maria Ferretti, Lettera al Ministro Carrozza sui tempi dei risultati ASN (30.1.2014)
13. Nuova interrogazione del sen. P. Corsini sul settore 11/A3 (30.1.2014)
12. Paolo Scarpi, Riflessioni su ANVUR, VQR e ASN (30.1.2014)
11. Luigi Pellizzoni, Una risposta a ‘Dove va la sociologia parte 2, riflessioni e commenti’ (28.1.2014)
10. Loriano Zurli, Commissari marziani, senza pubblicazioni (27.1.2014)
9. Maria Luisa Bianco, Paolo Giovannini, Alberto Marradi, Franco Rositi, Loredana Sciolla, Giovanni Battista Sgritta, Dove va la sociologia parte 2, riflessioni e commenti (26.1.2014)
8. Abilitazioni Scientifiche Nazionali. Primo bilancio e proposte di lavoro dell’Associazione Italiana di Sociologia (24.1.2014)
7. Lettera di protesta inviata al Ministro Carrozza da un gruppo di candidati all’Abilitazione Scientifica Nazionale nel settore concorsuale 11/A4 (23.1.2014)
6. Circolare ai Commissari del DG MIUR del 27.5.2013, nella quale si richiama la necessità di una valutazione analitica di titoli e pubblicazioni dei candidati (23.1.2014)
5. Ancora sugli esiti dell’ASN nei settori di sociologia (16.1.2014)
4. A proposito dell’Abilitazione Nazionale nel settore di storia medioevale (14.1.2014)
3. Interrogazione parlamentare di P. Corsini (Senato) sull’ASN del s.c. 11/A4, Scienze del libro e del documento e Scienze storico-religiose (11.1.2014)
2. L. De Matteo, La Storia economica, l’Anvur e la terza legge fondamentale della stupidità umana (11.1.2014)
1. Dove va la sociologia italiana? (8.1.2014)
63. Breve controreplica di Umberto Melotti a Consuelo Corradi
Consuelo Corradi ha ritenuto di dover precisare (in risposta all’ultimo documento collettivo sull’ASN nelle discipline sociologiche) di non appartenere al gruppo del Mulino. Ma sfonda una porta aperta, perché nessuno lo aveva mai affermato e neanche pensato. Le sue “appartenenze” sono infatti ben note. Da tempo è ai vertici della Libera Università Maria Santissima Assunta, “università non statale di orientamento cattolico” (dal sito Lumsa), ed è un membro di “Sociologia per la Persona” (dal sito Spe), la “componente” cui aderisce la maggior parte dei sociologi di orientamento cattolico. Se le nomine nel «Gruppo di Lavoro ANVUR “Libri e Riviste” – Area 14» non sono state casuali (come tutto indica), si deve pensare che la sua nomina dovesse garantire quell’area.
U. Melotti
62. Replica della prof.ssa Corradi al “Documento di sintesi” pubblicato il 7.2.2015
Intervengo per rispondere
61. Documento di sintesi sulle cosiddette Abilitazioni Scientifiche Nazionali in sociologia
Le cosiddette “Abilitazioni Scientifiche Nazionali”, di cui si è da poco conclusa la seconda tornata, hanno lasciato alle spalle gravissime conseguenze, destinate a produrre per molti anni notevoli danni sia all’Università italiana sia agli studiosi che ne sono stati vittime. Quelle procedure, mal concepite sin dall’inizio, inadeguatamente delineate dalla legge 240 del 2010 e peggiorate dai decreti applicativi, hanno favorito iniquità, scorrettezze e veri e propri abusi di potere. Del resto, un sistema di reclutamento che produce il 12,5% di abilitati in prima fascia in un settore (Pedagogia e storia della pedagogia) e il 90,3% in un altro (Otorinolaringolatria e audiologia) dimostra una sostanziale inaffidabilità. Che le commissioni abbiano potuto gestire i lavori nel modo più incontrollato è stato riconosciuto dalla stessa ministra dell’Università, che ha pubblicamente ammesso che certe commissioni hanno operato come se dovessero “dare una Ferrari e non una patente”. Per contro, il presidente dell’ANVUR (l’Agenzia Nazionale di Valutazione dell’Università e della Ricerca) ha dichiarato alla commissione cultura della Camera che il 66,6% dei candidati avrebbe ricevuto una valutazione “coerente con l’indicazione derivante dai parametri d’impatto scientifico”. Ma questo stesso dato, anche se lo si prende per buono, segnala che almeno un terzo dei candidati non ha ricevuto la valutazione conforme ai parametri cui aveva diritto. Per di più, il farraginoso apparato costruito dall’ANVUR con tanto dispendio di energie e di risorse pubbliche è stato utilizzato da certe commissioni in modo incoerente e arbitrario. Delle due l’una: o le commissioni hanno scientemente disatteso in misura significativa i criteri che avrebbero dovuto rispettare (fra cui il superamento di determinate “mediane”), ritenendoli non idonei a valutare l’operosità e la qualità dei candidati (e quindi la montagna avrebbe partorito il topolino), o hanno effettuato valutazioni non uniformi (per esempio, applicando le norme ai “nemici” e interpretandole per gli “amici”).
Quanto è avvenuto nei settori sociologici costituisce un caso emblematico delle disfunzioni dell’ANS. Non si può quindi accettare l’invito, non disinteressato, a “scordarsi il passato” e occorre invece cercare di capire e di far capire che cosa sia accaduto e perché.
Proprio con questo intento, alcuni membri del gruppo “Tutto quello che vorreste sapere sull’ASN. Il racconto dei sociologi” hanno esaminato a fondo lo svolgimento delle due prime tornate delle abilitazioni nei tre raggruppamenti sociologici (14/C1, 14/C2 e 14/D1). Ecco qui in sintesi i risultati di questo lavoro:
- Le commissioni hanno dedicato un tempo del tutto inadeguato a una seria valutazione nel merito dei curricula, dei titoli e delle pubblicazioni dei candidati, che ne potevano presentare 18 per la prima fascia e 12 per la seconda (nella prima tornata, la più numerosa, i candidati erano 148 per la prima fascia e 424 per la seconda in 14/C1, 84 per la prima fascia e 283 per la seconda in 14/C2, 69 per la prima fascia e 221 per la seconda in 14/D1). I giudizi, di poche righe, con cui sono stati liquidati anni e anni di sacrifici, di studio, di ricerca, attestati da testi spesso apprezzati anche all’estero, risultano non soltanto ingiusti, ma anche offensivi.
- Inoltre, nonostante la loro estrema sinteticità, in quei giudizi emerge una pletora di errori e di contraddizioni che dimostrano la scarsa attenzione con cui hanno lavorato alcune commissioni. Questi svarioni sono presenti non solo nei “giudizi individuali” stesi dai singoli commissari, ma anche nei “giudizi collettivi”, che in molti casi risultano pressoché testualmente ripresi da alcuni giudizi individuali, come se i commissari, invece di operare come un collegio, si fossero spartiti i candidati da valutare. Vale la pena di citare il caso di una candidata, non abilitata (in 14/C2) per l’asserita impertinenza disciplinare, dopo che, sia nel giudizio individuale di una commissaria sia nel giudizio collettivo, era stato confuso l’argomento di un suo lavoro con il titolo della rivista che lo aveva pubblicato. Altra prova di disattenzione, in questo caso anche umana, la bocciatura (in 14/D1) di un candidato deceduto quattro mesi prima della conclusione dei lavori, benché la sua morte, di cui aveva dato notizia anche la stampa, fosse stata subito segnalata a tutti i suoi soci dall’AIS (Associazione Italiana di Sociologia). Va segnalato anche il caso del segretario di una commissione (14/C2) che ha avallato la validità per le mediane e per l’abilitazione di un volume che una candidata e lui stesso avevano pubblicato insieme nel dicembre 2012, dopo la scadenza del bando della prima tornata (20 novembre 2012). Non risultano essere stati effettuati dei seri controlli anche sulle autopresentazioni dei candidati, il che ha premiato la soggettiva esuberanza.
- La scarsa percentuale di abilitati (fra le più basse di tutti i raggruppamenti) dipende anche da uno stravolgimento delle norme di legge. Per di più, in molti casi, vi è stato un uso di due pesi e di due misure (come, per esempio, quando la stessa rivista è stata considerata “nazionale” per alcuni, non abilitati, e “internazionale” per altri, abilitati proprio anche per questo). Le norme sono state visibilmente forzate, con un’interpretazione sin troppo generosa per alcuni e indebitamente punitiva per altri. Alcuni candidati non sono stati abilitati nemmeno in seconda fascia anche se superavano più mediane non solo di certi candidati abilitati in prima fascia, ma anche di certi commissari. Particolarmente bassa, rispetto ad altri raggruppamenti disciplinari, è risultata la percentuale degli abilitati fra i non “strutturati”(professori a contratto e ricercatori a tempo determinato), come se per i commissari, a parità di attività svolta, il dato burocratico prevalesse sul dato scientifico.
- Neanche il compito affidato alle commissioni è stato sempre rispettato. Una commissione (14/D1) è giunta a scrivere più volte nel verbale conclusivo della prima tornata di aver operato “valutazioni comparative”, mentre era tenuta a effettuare “valutazioni di idoneità” candidato per candidato, senza comparazioni che la legge espressamente riserva a commissioni ben diverse, cioè a quelle dei successivi concorsi, che devono attribuire dei posti, ovviamente limitati, e non riconoscere delle idoneità, in via di principio non limitate. Nel verbale conclusivo della seconda tornata la stessa commissione ha evitato di esprimersi nello stesso modo, essendosi probabilmente resa conto (dopo i ricorsi) che nel verbale della prima tornata aveva indirettamente ammesso lo “straripamento di potere” (una delle più gravi cause di illegittimità) che aveva compiuto con quell’invasione di campo, peraltro utile a eliminare dai successivi concorsi (riservati ai soli abilitati) dei potenziali concorrenti dei candidati graditi ai suoi membri. Si aggiunga che del verbale della prima seduta della prima tornata di quella commissione esistono due versioni e che il suo componente Ocse, Federico Varese, docente di Criminologia in Inghilterra, non era inquadrato, come richiesto dalla legge, in una delle discipline comprese nel raggruppamento.
- Una considerevole percentuale di abilitati, che non può ritenersi effetto del caso, risulta costituita da membri dell’Associazione Il Mulino e/o delle sue controllate (Istituto Cattaneo e Itanes) e/o dei comitati delle sue riviste o da candidati che collaboravano strettamente con loro. Ciò chiama in causa la stessa composizione delle commissioni.
- Balza agli occhi che le commissioni comprendevano numerosi commissari appartenenti all’Associazione Il Mulino (che è un’associazione politico-culturale e non un’associazione scientifica) o membri dei comitati delle sue citate controllate e delle sue riviste o variamente vicini a quel gruppo. Il segretario della commissione 14/C1, Maurizio Pisati, è il direttore di una rivista del Mulino, “Polis”, e membro dell’Istituto Cattaneo e di Itanes ed è stato condirettore di “Sociologica”, un’altra rivista del Mulino. Giancarlo Gasperoni, altro membro della stessa commissione, è membro dell’Associazione Il Mulino e di Itanes ed è stato vice-direttore dell’Istituto Cattaneo e redattore capo di “Polis”. Il presidente della commissione 14/C2, Franco Garelli (che ha pubblicato ben 11 libri con il Mulino e collabora regolarmente alla rivista “Il Mulino”) ha convocato una riunione della commissione non nella sede designata ma all’Istituto Cattaneo, che fa parte organica del gruppo del Mulino. Un altro membro di quella commissione, Ota De Leonardis, è la direttrice della principale rivista sociologica del Mulino, la “Rassegna italiana di sociologia”. Il presidente della commissione 14/D1, Antonio Mutti, è un ex direttore di quella stessa rivista ed è tuttora membro del suo comitato direttivo. Un altro componente di quella commissione, Carlo Trigilia, è membro dell’Associazione Il Mulino, dei comitati direttivi della “Rassegna italiana di sociologia” e di “Stato e Mercato” e del comitato internazionale di “Sociologica”, tutte riviste del Mulino. Trigilia non si è dimesso da quella commissione (probabilmente per non compromettere il risultato di un sorteggio così irripetibilmente favorevole al gruppo del Mulino) anche se per tutto il periodo in cui avrebbe dovuto dedicarsi pressoché a tempo pieno alla valutazione dei 221 candidati di seconda fascia della prima tornata ha dovuto occuparsi delle documentate incombenze politiche, amministrative e di governo di un ministro in carica (Trigilia ha dovuto rispondere in Parlamento a un’interrogazione su quel duplice ruolo e la sua risposta è apparsa insoddisfacente non al solo interrogante).
- Risulta evidente che, mentre si andava parzialmente allentando la morsa sulla sociologia delle tre vecchie “componenti” accademiche (MiTo, Sociologia della Persona e AIS3), si è andata affermando, sotterraneamente, quella di un nuovo gruppo di potere, in parte trasversale alle componenti, venuto alla luce proprio con le Abilitazioni Scientifiche Nazionali. Paradossalmente quel gruppo si era formato contestando le “perverse pratiche correntizie” delle vecchie componenti, orientate dal principio “dentro i nostri, fuori gli altri”, anche se poi sembra essersi comportato allo stesso modo.
- La classificazione delle riviste in classe A (utile per l’abilitazione) è stata uno strumento che ha notevolmente rafforzato il gruppo di potere emergente, rendendo possibile prima la candidatura a commissari di certi suoi membri altrimenti senza le mediane necessarie e poi l’abilitazione di certi candidati, vicini a chi controlla determinate riviste. Vi è stato infatti il tempestivo inserimento in classe A, da parte del Gruppo di Lavoro dell’ANVUR che ha classificato le riviste sociologiche, non solo di quelle facenti capo alle vecchie componenti, ma di tutte quelle del Mulino, compresa “Sociologica”, la più recente e solo telematica, beneficiata da una norma, formulata dal gruppo di lavoro, che prevedeva per l’inserimento un periodo minimo di esistenza di sette anni, proprio quello di tale rivista. Contemporaneamente (controprova significativa) veniva relegata in classe B “La Critica Sociologica”, una rivista autonoma da tutte le “componenti” e dal “Mulino”, fondata nel 1967 da Franco Ferrarotti, vincitore del primo concorso a una cattedra di sociologia. Quel gruppo di lavoro era composto da Consuelo Corradi, della Lumsa, e da Alessandro Cavalli, già presidente dell’Associazione Il Mulino (2003-2009) e tuttora membro del suo comitato direttivo e già direttore di due sue riviste, la “Rassegna italiana di sociologia” e il “Mulino”. L’Associazione Il Mulino, secondo il suo statuto, controlla e promuove l’omonima casa editrice e le sue riviste, il che segnala un plateale conflitto d’interessi che non sarebbe dovuto sfuggire a chi ha nominato quel gruppo di lavoro. Forse per questo Cavalli, membro del Comitato dei Saggi dell’AIS, pur invitato da più parti a pronunciarsi sulle Abilitazioni Scientifiche Nazionali, ha evitato di farlo, adducendo nel sito dell’AIS, in modo curioso, la sua simpatia per Ponzio Pilato.
- I firmatari dei documenti a sostegno dei commissari apparsi nel 2014 nel sito dell’AIS, in ROARS (Return on Academic Research) e nel blog “Per la sociologia” (dodici professori in pensione, pochi professori in ruolo e alcuni gongolanti neo-abilitati) sono tutti o quasi membri dell’Associazione Il Mulino o delle sue controllate (Istituto Cattaneo e Itanes) o delle sue riviste. Alcuni di quei documenti ai danni hanno aggiunto le beffe, presentando come se fossero dovute solo a un “risentimento da smobilitare” le reazioni suscitate dall’operato delle commissioni. Vale la pena di sottolineare, a prova che non di solo risentimento si trattasse, che alcuni dei molti ricorsi contro l’esito delle ASN in sociologia hanno già ricevuto il riconoscimento del fumus boni iuris da parte del TAR o del Consiglio di Stato.
- La legge aveva stabilito che i lavori delle commissioni si svolgessero in sedi designate con criteri oggettivi, per prevenire le indebite interferenze ambientali. Nondimeno, nella prima tornata la commissione 14/C2 ha tenuto la sua seconda seduta (invece che nella sede designata, l’Università della Tuscia) a Bologna, nella sede di un ente privato, l’Istituto Cattaneo (controllato dal Mulino), di cui erano membri alcuni candidati poi abilitati, e poi tutte le successive sedute a Torino (sede del presidente) o in via telematica. Peggio ancora, la commissione 14/D1 ha tenuto la seduta conclusiva (invece che nella sede legittima, l’Università di Macerata) in una sede politica, quella del Ministero del commissario Trigilia, influente membro del gruppo del Mulino. Nella seconda tornata la commissione 14/C2 ha tenuto tutte le sue sedute nell’Università di Torino, e per via telematica o mista (invece che nella sede designata, che era ancora l’Università della Tuscia), e la commissione 14/D1 ha tenuto tutte le sue poche e brevi sedute solo per via telematica, certamente comoda per i commissari ma poco idonea a garantire i lavori di un “collegio perfetto”, quale dovrebbe essere una commissione. In entrambe le tornate vi è stato un ricorso quantitativamente del tutto anomalo alle riunioni fuori sede e alle “riunioni telematiche”, che vere e proprie riunioni non sono.
- Sul gruppo del Mulino è opportuno vedere il recente articolo di Ernesto Galli Della Loggia (membro di quell’Associazione e quindi non sospettabile di prevenzioni), Il Mulino, la crisi di un’élite che si è trasformata in oligarchia (“Corriere della Sera”, 22 dicembre 2014, p. 37). Vi si legge fra l’altro: “Nato come un luogo d’incontro di culture politiche diverse, un laboratorio di discussioni, si è pietrificato in un’arcigna fortezza ideologica del centrosinistra, in un custode di tutti i suoi fragili miti: mentre ormai non si contano i suoi soci che a vario titolo ne infoltiscono i quadri istituzionali come sindaci, ministri, presidenti del Consiglio, presidenti di tutto. Così il Mulino si trova a rappresentare per un verso l’opposizione più chiusa, per l’altro il potere più consolidato: una schizofrenia micidiale che ne segna la progressiva paralisi intellettuale. Lo testimonia la cooptazione autoreferenziale dei soci: i nuovi, salvo qualche autorevole membro dell’establishment, sono pressoché esclusivamente membri delle cordate accademiche o similari che fanno capo a quelli anziani. In complesso l’Università di Bologna ne conta suppergiù un terzo; l’età media è oltre i sessanta; pochissime le donne; nessun socio da Roma in giù. Il Mulino, insomma, è diventato la perfetta fotografia di un Paese vecchio, diviso, corporativizzato, immobile”.
- “Tirare l’acqua al proprio mulino” significa “fare i propri interessi, in genere senza tener conto degli altri oppure anche a loro danno” (Dizionario dei modi di dire, Hoepli, Milano, 2011). Nondimeno i laboriosi “mugnai”, costituiti in gran parte da elementi di provenienza MiTo (o TreMiTo, se a Milano e Torino si aggiunge Trento, o GeMiTo, se si aggiunge Genova), ritengono di essere i migliori, non solo scientificamente, ma anche eticamente (secondo il “mito” fondante di quel gruppo, che alcune delle sue stesse figure più rappresentative hanno peraltro smentito, riconoscendo a distanza di anni di non aver sempre operato nei concorsi con la dovuta imparzialità). Vanno quindi ricordate le parole con cui ha commentato l’involuzione del Mulino il suo ultimo grande vecchio, l’ottantasettenne Luigi Pedrazzi, garante morale di quel mondo che produsse prima la rivista, poi la casa editrice e infine l’associazione: “Alcuni vogliono andare molto in alto, scalare l’Everest, l’Europa o l’Unesco. Altri sono presi da interessi culturali specifici. Mi sembra che manchi l’etica di cui parlava Weber” (“Repubblica.it”, 19 dicembre 2014). Si spera, naturalmente, che ciò non valga per tutti. Ma per il momento non vi sono state dissociazioni.
FRANCO FERRAROTTI, MARIA IMMACOLATA MACIOTI, ALBERTO MARRADI, UMBERTO MELOTTI, EVERARDO MINARDI, EIDE SPEDICATO, ALFREDO AGUSTONI, LEONARDO ALLODI, AURELIO ANGELINI, FRANCESCO ANTONELLI, CHARLIE BARNAO, IGNAZIA BARTHOLINI, AMERICO BAZZOFFIA, BARBARA BECHELLONI, DANILA BERTASIO, CARLO BORDONI, DAVIDE BORRELLI, STEFANIA CAPOGNA, MARCO CENTORRINO, MAURO CERBINO, GIULIA CERIANI, ALIDA CLEMENTE, LAURA CORRADI, IDA CORTONI, NICOLÒ COSTA, VALENTINA CREMONESINI, PAOLO CUTTITTA, FABIO D’ANDREA, LELIO DEMICHELIS, PAOLA DONADI, PINO DONGHI, MAURO FERRARESI, MIHAELA GAVRILA, MAURO GIARDIELLO, CARLO GRASSI, LUCA GUZZETTI, TINA LODEDO, MARXIANO MELOTTI, ALESSANDRA MICALIZZI, LAURA MINESTRONI, ROBERTO MONGARDINI, MARIAEUGENIA PARITO, MARCO PELLITTERI, EDITH PICHLER, MARCO A. PIRRONE, DANIELE PITTERI, PAOLO ROBERTI DI SARSINA, MARIAGRAZIA SANTAGATI, LELLO SAVONARDO, FAUSTA SCARDIGNO, MARIA ANTONELLA SELVAGGIO, RAFFAELLA SETTE, SARAH SICILIANO, GABRIELLA TADDEO, FRANCESCA VANNUCCHI
60. P. Donadio, Abilitazione Scientifica Nazionale, settore 10/L1: cronaca di un fallimento annunciato
Per avere un’idea concreta del caos che ha permeato di sé l’Abilitazione Scientifica Nazionale, caos innescato dalla famigerata legge Gelmini, sarà forse utile leggere la storia di una delle ultime (se non l’ultima) commissioni ad aver consegnato le ‘carte’ della tornata 2012, la commissione del settore concorsuale 10/L1 (Lingue, letterature e culture inglese e angloamericana). I risultati sono apparsi dopo 21 mesi di ‘lavoro’, l’8 agosto del 2014. Non pare una storia qualsiasi, ma la storia, tanto è simbolica la sua valenza di cartina tornasole di un sistema concepito male. Sistema che, dopo, incarnato da attori e personaggi e messo in scena, non vede alla fine né colpevoli né innocenti, né buoni né cattivi. Nella cronistoria che segue, tutti sono responsabili e nessuno è responsabile, poiché il groviglio di contrasti, disattenzioni, posizioni si infrange costantemente contro il tempo concesso perché la storia stessa avesse fine. Superficialità, non competenza, noncuranza: è impossibile, dopo, stabilire perché e di chi.
La conclusione della storia è però lontana dal vero, almeno in termini di strage dei diritti delle persone.
Chi scrive, vittima di un errore di calcolo, paga sulla propria pelle (come buona parte di altri 127 colleghi) le conseguenze di questa storia. E la giustizia amministrativa italiana, oramai oberata dai ricorsi ASN, ha rapidamente, molto rapidamente, provveduto a scrivere l’ultimo capitolo, tombale, aggiungendo al danno la beffa. Alla richiesta di una ricognizione del calcolo delle pubblicazioni all’interno della produzione complessiva e del raffronto con i limiti minimi richiesti dalla Commissione (quella di 10/L1 è l’unica commissione nei settori non bibliometrici ad aver imposto un elevato numero minimo di pubblicazioni per fascia, sulla cui arbitrarietà è intervenuto su Roars il prof. Del Vecchio, secondo il quale “Sarebbe utile evitare di fissare livelli del valore d’impatto talmente alti da precludere l’attribuzione dell’abilitazione a candidati che potrebbero, all’esame analitico, conseguire valutazioni di eccellenza, pur restando esclusi per la misura insufficiente del valore d’impatto arbitrariamente fissato” http://www.roars.it/online/asn-i-problemi-normativi-insiti-nella-valutazione-e-nei-giudizi-della-commissioni-nazionali), è stato replicato che “non sono state sufficientemente esplicitate le ragioni che avrebbero dovuto indurre la commissione ad acquisire un parere pro veritate”.
Che è come chiedere l’ora e sentirsi rispondere che Napoleone è morto in esilio a Sant’Elena.
19 novembre 2012, l’inizio
La PRIMA Commissione del settore concorsuale 10/L1 per la tornata ASN 2012 è nominata con DD il 19-11 2012. La Commissione non può iniziare i lavori a causa delle dimissioni continue e immediate dei suoi componenti, che incominciano a defilarsi pochi giorni dopo la nomina, già a dicembre 2012.
Le dimissioni dei componenti costringono il Ministero a integrare la Commissione con nuovi componenti per tre volte (DD 164 del 29/1/13, DD 668 del 12/4/13, e DD 813 dell’8/5/13).
Le operazioni di sorteggio suppletivo per il settore 10/L1 sono effettuate rispettivamente nei giorni 16 e 17 gennaio 2013, 9-10 aprile 2013, 2-6 maggio 2013, come da comunicazione MIUR (sezione news ancora online).
Primi 4 mesi del 2013
Nei primi 4 mesi del 2013, data la lentezza dei lavori di buona parte delle Commissioni, il Ministero provvede a 3 proroghe di termine dei lavori delle Commissioni, emanando i seguenti DD:
- 47 del 9 gennaio 2013 che sposta il termine dei lavori delle Commissioni al 30 aprile 2013;
- 343 del 25 febbraio 2013 che sposta il termine dei lavori delle Commissioni al 30 maggio 2013;
- 732 del 22 aprile 2013 che sposta il termine dei lavori delle Commissioni al 30 giugno 2013.
28 maggio 2013
Finalmente, dopo l’ultima sostituzione dei Commissari di inizio maggio, la PRIMA Commissione 10/L1 può insediarsi il 28 maggio 2013 nelle persone dei professori Ambrosini, Fodde, Gregori, Rizzardi e Thibault (membro OCSE). Quando la Commissione si insedia, i termini ministeriali per la conclusione dei lavori erano stati già prorogati al 30 giugno 2013, come da DD 732 sopracitato.
Al momento dell’insediamento, quindi, la PRIMA Commissione 10/L1 sapeva di avere poco più di un mese di tempo per terminare i lavori. Al momento dell’insediamento, la PRIMA Commissione stabilisce i “Criteri di valutazione” per la prima e seconda fascia e, data la scadenza ravvicinata, stabilisce un fitto calendario di incontri: 10 giugno (in seduta telematica), 17 giugno, 18 giugno.
Giugno –settembre 2013
A giugno 2013 tutto sembra avviato per il verso giusto, ma invece le dimissioni dei componenti della PRIMA Commissione 10/L1 continuano a ripetersi come in precedenza, causando un rallentamento dei lavori e mettendo in evidenza probabili contrasti interni alla Commissione stessa. Difficile pensare ancora che si tratti sempre di coincidenze e raffreddori.
Il Ministero è costretto ad altri 3 sorteggi suppletivi, corrispondenti ad altrettante istanze di dimissione ricevute. I sorteggi per la sostituzione dei componenti dimissionari si tengono nei giorni 11 luglio, 24 luglio e 11 settembre 2013.
Pertanto, a partire dalla prima nomina di novembre 2012 fino a settembre 2013, nell’arco di 10 mesi, sono già 6 i commissari dimessisi e sostituiti: 3 nella prima metà del 2013 e altri 3 nella seconda metà del 2013.
30 settembre 2013
Nel frattempo, la lentezza dei lavori delle commissioni obbliga il Ministero ad emanare un quarto DD di proroga, il n. 1767 del 30 settembre 2013, con cui si estendono i termini dei lavori al 30 novembre 2013.
30 novembre 2013
Il 30 novembre 2013, buona parte delle Commissioni termina i lavori, come da comunicazione del MIUR (ancora online). Ovviamente, come avviene per altre 39 Commissioni, la PRIMA Commissione 10/L1 non ha ancora terminato i lavori e beneficia di un’ulteriore proroga al 29 gennaio 2014, grazie al DD 2742 del 13 dicembre 2013.
gennaio – febbraio 2014
Il 29 gennaio 2014 la PRIMA Commissione di 10/L1 non riesce a terminare i lavori in tempo e quindi viene sostituita dal MIUR con il DD 678 del 28 febbraio 2014, “CONSIDERATO che la commissione non ha concluso i lavori entro il termine del 29 gennaio 2014; e RITENUTO pertanto necessario procedere alla sostituzione della Commissione in applicazione dell’articolo 8, comma 6, terzo periodo, del DPR 222 del 2011, secondo le modalità di cui all’articolo 7 del citato DPR 222 del 2011”.
marzo 2014
Il sorteggio della nuova Commissione avviene il 3 marzo del 2014 e la SECONDA Commissione di 10/L1 è nominata il 12 marzo 2014, con il DD 860, composta dai professori Bondi (Presidente), Miller, Ciocca, Mariani, Dawson (Membro OCSE). La SECONDA Commissione deve portare i lavori a termine il 12 giugno 2014, quindi il tempo a disposizione è di 3 mesi.
8 aprile 2014 (verbale n.1, riunione in videoconferenza ore 16-18,30)
La SECONDA Commissione, nominata il 12 marzo 2014, si riunisce per la prima volta in videoconferenza il giorno 8 aprile 2014 (verbale n. 1), vale a dire tre (3) giorni prima che sia terminato il periodo di 30 giorni stabilito per la ricusazione dei Commissari da parte dei candidati, come da DD 860 di nomina (il DD 860 recita: “Dalla data del 12 marzo 2014 e fino all’11 aprile 2014 i candidati all’abilitazione scientifica nazionale per il settore concorsuale 10/L1-Lingue, letterature e culture inglese e anglo-americana della tornata 2012 e della tornata 2013 possono presentare eventuali istanze di ricusazione nei confronti dei commissari di cui al comma 1”).
I criteri di valutazione stabiliti dalla PRIMA commissione sono accolti all’unanimità da questa SECONDA commissione.
Essendo una riunione in videoconferenza, tutti i commissari inviano la propria adesione al verbale di riunione, dichiarando di allegare copia della carta di identità in corso di validità. Purtroppo, delle carte d’identità non c’è traccia e non ci sarà mai traccia nei verbali prodotti dalla Commissione allorquando riunita in videoconferenza (5 riunioni in videoconferenza contro 4 riunioni in presenza).
Il presidente sigla tutte le pagine del verbale.
28 aprile 2014 (verbale n. 2 – riunione all’Univ. di Milano, ore 14-19)
La SECONDA Commissione di 10/L1 si riunisce in presenza ad eccezione del membro OCSE, che viene dichiarato come partecipante in videoconferenza. La Commissione concorda l’inserimento di giudizi individuali sulla piattaforma Cineca e stabilisce un calendario dei lavori (che però non è esplicitato nel verbale).
Contrariamente alla procedura del verbale n. 1:
- la presidente e gli altri commissari non siglano la dichiarazione di adesione allegata al verbale del membro OCSE;
- Il membro OCSE invia la propria dichiarazione di adesione al verbale, dichiarando di allegare copia della carta d’identità. Come detto sopra, la copia della carta d’identità del membro OCSE non è presente.
12 maggio 2014 (Verbale n. 3 – riunione all’Univ. di Roma, ore 12-19)
La Commissione si riunisce in presenza, ad eccezione del membro OCSE, che viene dichiarato come partecipante in videoconferenza.
Secondo il verbale, la Commissione “si confronta sullo stato di espletamento individuale dei giudizi, discute casi e procedure di applicazione dei criteri stabiliti e decide in merito alle modalità operative con cui proseguire le attività individuali e collegiali”; inoltre decide la data del prossimo incontro, però non esplicitata nel verbale.
Anche qui, contrariamente alla procedura del verbale n. 1:
- la presidente e gli altri commissari non siglano la dichiarazione di adesione allegata al verbale del membro OCSE;
- Il membro OCSE, contrariamente ai verbali nn. 1 e 2, non solo omette di allegare copia della carta di identità in corso di validità alla sua Dichiarazione di adesione, ma omette anche di dichiarare che il documento di identità è allegato.
19 maggio 2014 (verbale n. 4, riunione in videoconferenza ore 14-19)
La Commissione si riunisce in videoconferenza. Dal verbale si legge che “la Commissione si confronta sullo stato di espletamento individuale dei giudizi, discute casi e procedure di applicazione dei criteri stabiliti e decide in merito alle modalità operative con cui proseguire le attività individuali e collegiali”, copiando esattamente la medesima formulazione usata nel verbale precedente (verbale n. 3).
Viene stabilita una data successiva di riunione in presenza al 26-27 maggio 2014.
Contrariamente alla procedura del verbale n. 1:
- la presidente omette di siglare le dichiarazioni di adesione dei membri della Commissione allegate al verbale;
- per la seconda volta, il membro OCSE non solo omette di allegare copia della carta di identità in corso di validità alla sua Dichiarazione di adesione, ma omette anche di dichiarare che il documento di identità è allegato.
26/27 maggio 2014 (verbale n. 5 – riunione all’Univ. di Reggio Emilia, ore 14-? / ore 12-15)
La Commissione si riunisce in presenza, con il membro OCSE dichiarato come partecipante in videoconferenza.
La Commissione, con un ‘copia e incolla’ ripete per la terza volta la stessa formulazione dei verbali nn. 3 e 4 per descrivere lo stato dei lavori, vale a dire che la Commissione “si confronta sullo stato di espletamento individuale dei giudizi, discute casi e procedure di applicazione dei criteri stabiliti e decide in merito alle modalità operative con cui proseguire le attività individuali e collegiali.”
La Commissione esprime la necessità di richiesta a Ministero di proroga dei lavori, vale a dire solo a sedici (16) giorni dalla chiusura dei lavori (12 giugno 2014). La richiesta è rivolta all’unanimità e il tempo di proroga richiesto, ritenuto dalla Commissione “il minimo indispensabile”, è quantificato in “non meno di tre mesi”. Tale lasso di tempo, se concesso, secondo la Commissione farà “procedere alla conclusione dei lavori nel modo più corretto” (il verbale n. 5 recita: “La Commissione decide all’unanimità di avanzare ufficialmente una richiesta di proroga di non meno di tre mesi, giudicando tale lasso di tempo il minimo indispensabile per procedere alla conclusione dei lavori nel modo più corretto)”.
Se 90 – 16 è uguale a 74, si evince che la Commissione, all’unanimità, ritiene necessari almeno altri due mesi e mezzo per concludere i lavori “nel modo più corretto”. In mancanza di tale proroga, evidentemente, i lavori si concluderanno diversamente.
Anche in questo verbale, la fretta probabilmente induce a commettere diverse e più imprecisioni:
- dal verbale non è dato sapere a che ora sono stati sospesi i lavori della Commissione il giorno 26 maggio 2014, primo giorno di riunione;
- contrariamente alla procedura del verbale n. 1, la presidente e gli altri commissari omettono di siglare la dichiarazione di adesione allegata al verbale del membro OCSE;
- il membro OCSE continua a omettere di allegare la carta d’identità per la terza volta (v. verbali nn. 3 e 4) e non dichiara neppure di allegarla (come aveva fatto nei verbali nn. 1 e 2);
- inoltre, nella sua dichiarazione di adesione, il membro OCSE dichiara erroneamente di aderire ai contenuti del verbale n. 4 e non del verbale in oggetto, che è il n. 5;
- infine, stranamente, consultando le Proprietà del verbale in PDF (disponibile online), la creazione e modifica del verbale risultano risalire al 5 agosto 2014 (ore 17.52), vale a dire oltre i termini di scadenza dei lavori della Commissione (12 giugno 2014) e anche oltre i termini di scadenza del periodo di autotutela (31 luglio 2014), ad appena tre giorni dalla pubblicazione dei risultati ufficiali (8 agosto 2014). Anche le proprietà dei Metadati aggiuntivi del verbale in PDF confermano la creazione e la modifica del verbale il 5 agosto 2014 alle 17.52. Se la riunione era in presenza e i commissari hanno firmato contestualmente il verbale, il 27 maggio 2014, come è possibile il verbale sia stato creato/modificato il 5 agosto 2014?
4 giugno 2014 (verbale n. 6, riunione in videoconferenza ore 14-19)
Nella riunione del 4 giugno 2014 (verbale n. 6), vale a dire a 8 giorni dalla conclusione definitiva dei lavori, la Commissione di 10/L1 dichiara di NON essere ancora a conoscenza della risposta del Ministero in riferimento alla richiesta di proroga dei lavori formulata il 27 maggio (cit. dal verbale n. 6: “La Presidente informa i membri della commissione di non aver ricevuto risposta alla richiesta di proroga dei lavori presentata dalla Commissione in occasione della riunione precedente”).
Compiendo l’ennesimo ‘copia e incolla’ operato nei verbali nn. 3, 4, 5, per la quarta volta la Commissione “si confronta sullo stato di espletamento individuale dei giudizi, discute casi e procedure di applicazione dei criteri stabiliti” … “Dopo ampio confronto i commissari decidono in merito alle modalità operative con cui proseguire le attività individuali e collegiali”.
Anche qui la fretta, probabilmente, non consente di rivedere il verbale poiché:
- contrariamente alla procedura del verbale n. 1, la presidente non sigla le dichiarazioni di adesione al verbale inviate dai membri della Commissione (sempre senza carta di identità allegata);
- la dichiarazione di adesione del membro OCSE non è allegata in forma di fax o copia scannerizzata, poiché la firma del commissario è palesemente realizzata con un programma di grafica e con il mouse, e successivamente incollata in calce alla dichiarazione stessa;
- nella dichiarazione di adesione al verbale, il membro OCSE dichiara di nuovo erroneamente (come nel verbale n. 5) di aderire ai contenuti del verbale n. 4 e non del verbale in oggetto, che è il n. 6;
- Il membro OCSE omette di nuovo (è la quarta volta) di dichiarare di allegare alla sua Dichiarazione di adesione la copia della carta di identità (che comunque non c’è).
11 – 12 giugno 2014 (verbale n. 7, riunione all’Univ. di Bologna, ore 13 – ??? / in videoconferenza ore 13 – ???)
Solo nella riunione dell’11 giugno (verbale n. 7), la Commissione prende atto del rifiuto da parte del Ministero della richiesta di proroga dei lavori formulata il 27 maggio (verbale n.5).
Tutto ciò viene dichiarato come appreso 1 giorno prima della chiusura definitiva dei lavori, fissata per il 12 giugno 2014.
La Commissione è costretta a chiudere le operazioni in poco tempo, dichiarando che “Per facilitare la stesura dei giudizi finali, delibera che tutti i giudizi collegiali siano da intendersi come espressi all’unanimità, fatti salvi i casi debitamente segnalati di deliberazione a maggioranza”.
Ovviamente c’erano poche ore disponibili e l’unanimità viene ‘imposta’ a tutti i giudizi definiti ‘collegiali’.
Il giorno 12 giugno alle ore 13.00 la Commissione prosegue la riunione in videoconferenza e dichiara di “procedere al completamento del caricamento dei giudizi sulla piattaforma ASN”.
Tale compito è in parte facilitato dal membro OCSE, che per 432 candidati di 1 e 2 fascia produce 425 giudizi uguali, lunghi due (2) righe e in inglese, distinti solo da un NOT che tocca ai non abilitati, contravvenendo al DM 76/2012 (art. 3 c. 3) e soprattutto al dettato della L. 240 art. 16 (Abilitazione scientifica nazionale), c. 3, che risparmiamo qui di citare.
Un (1) solo candidato di 2 fascia (non abilitato a maggioranza) e sei (6) candidati di 1 fascia ricevono un giudizio articolato da parte del membro OCSE.
Al verbale è allegata una “Relazione riassuntiva dei lavori della Commissione” (sette riunioni per sette verbali, di cui due su due giorni), dall’8 aprile al 12 giugno 2014.
La fretta di concludere, in mancanza della proroga, avvera la profetica dichiarazione circa la possibilità di conclusione dei lavori “nel modo più corretto”. Infatti, le imprecisioni si moltiplicano:
- non è specificato l’orario di chiusura della riunione in presenza del 11 giugno 2014;
- soprattutto, non è specificato l’orario di chiusura della riunione in videoconferenza del 12 giugno 2014, proprio quando la Commissione dichiara di caricare i giudizi definitivi dei candidati sulla piattaforma ASN. Per quel giorno fatidico, 12 giugno 2014, si sa che la riunione in videoconferenza è iniziata alle ore 13 ma non sappiamo a che ora è finita;
- non sono presenti le firme dei Commissari alla fine della riunione in presenza dell’11 giugno 2014: la presenza dei commissari a Bologna, in via Delle Cartolerie 5 il giorno 11 giugno 2014, è solo affermata nel verbale e nelle successive dichiarazioni di adesione dei commissari, ma non c’è nulla che lo comprovi;
- quanto alla “Relazione riassuntiva dei lavori della Commissione”, essa è errata in riferimento al verbale n. 2 (la Commissione non si riunisce il 28 aprile alle 12, come riportato, ma alle 14).
- contrariamente a quanto fatto nel verbale n. 1, la presidente sigla la “Relazione riassuntiva” allegata, ma non sigla le dichiarazioni di adesione al verbale dei membri della Commissione;
- di nuovo, stranamente, dalle Proprietà del verbale in PDF (menu: File>Proprietà), la realizzazione del verbale risulta risalire al 26 giugno 2014 e non al 12 giugno 2014, vale a dire ben oltre i termini di scadenza dei lavori della Commissione (appunto, 12 giugno 2014). Ciò è in contrasto con quanto affermato nel verbale stesso, in cui si dice che la Commissione procede contestualmente, il 12 giugno 2014, “alla stampa in pdf dei due allegati, uno per la I e uno per la II fascia docente, generati automaticamente dal sistema informativo della piattaforma ASN, contenenti l’esito finale della procedura di valutazione”. Per quale motivo anche questo verbale, come il verbale n.5, è stato creato/modificato a posteriori, vale a dire dopo la chiusura definitiva dei lavori della Commissione? Cosa hanno firmato i membri della Commissione il 12 giugno 2014?
- la dichiarazione di adesione del membro OCSE è allegata non in forma di fax o copia scannerizzata, poiché la firma è del tutto identica a quella apposta nel verbale n. 6 (vedi sopra), realizzata con un programma di grafica, salvata come immagine e poi incollata in calce alla dichiarazione stessa;
- il membro OCSE omette di dichiarare per la quinta volta (vedi verbali nn. 3, 4, 5 e 6 ) di allegare copia della carta di identità (che non c’è) alla sua Dichiarazione di adesione;
- tutte le Dichiarazioni di adesione ai contenuti del verbale in oggetto inviate dai commissari sono datate 13 giugno 2014: ma i lavori non si dovevano concludere improrogabilmente il 12 giugno 2014? Se è scritto nel verbale che “I commissari, dopo aver letto, approvato e sottoscritto il verbale, danno mandato al Presidente di trasmetterlo al dott. Ferdinando Lacanna [responsabile amministrativo]” come è possibile che datino al giorno dopo le rispettive dichiarazioni di adesione al verbale?
18 luglio 2014
Dopo oltre un mese, con DD 2382 del 18 luglio 2014, il Ministero concede alla Commissione un periodo di autotutela. Il DD 2382 stabilisce al 31 luglio 2014 la conclusione definitiva dei lavori. In pratica, si concedono alla Commissione di 10/L1 dodici (12) giorni per il riesame delle valutazioni – gran parte delle valutazioni individuali risulta, alla fine, rubricata sotto il logo di intervento in “autotutela”.
21 – 29 luglio 2014 (verbale n. 8, riunione in videoconferenza dalle ore 17 del 21 luglio alle ore 14 del 29 luglio 2014)
La Commissione si riunisce il 21 luglio 2014 per 9 giorni in videoconferenza (21-29 luglio) e termina i lavori nel periodo concesso in autotutela.
La Commissione prende atto del periodo (fino al 31 luglio 2014) concesso dal Ministero con DD 2382 del 18 luglio 2014 e procede a “effettuare modifiche ai giudizi già inseriti nel sito MIUR, per correggere incongruenze, imperfezioni formali ed errori materiali riscontrati alla rilettura”.
Anche in questo caso
- contrariamente alla procedura del verbale n. 1, la presidente non sigla le dichiarazioni di adesione allegate al verbale dei membri della Commissione;
- dalle Proprietà del documento in PDF, la realizzazione del verbale risulta stranamente risalire al 5 AGOSTO 2014 (ore 17,49) vale a dire oltre i termini di scadenza dell’autotutela (31 luglio 2014), e ad appena tre giorni dalla pubblicazione online dei risultati ufficiali (8 agosto 2014). Anche i Metadati aggiuntivi del documento fanno risalire la creazione e modifica del verbale al 5 agosto 2014, proprio come risulta per il verbale n. 5. Ciò significa che il 5 agosto 2014 sono stati create/modificate le versioni in PDF dei verbali n. 8 (creato/modificato alle ore 17,49) e n. 5 (creato/modificato alle ore 17,52);
- In una delle dichiarazioni di adesione, un componente della Commissione (prof.ssa Miller) omette di citare le date della riunione cui dichiara di aver partecipato, citando soltanto la data di redazione del verbale;
- la dichiarazione di adesione del membro OCSE non è allegata in forma di fax o copia scannerizzata, poiché la firma risulta del tutto identica a quella apposta nei verbali nn. 6 e 7 (vedi sopra);
- la dichiarazione di adesione ai contenuti del verbale del membro OCSE è datata 3 agosto 2014, vale a dire 3 giorni dopo il termine concesso per la conclusione dei lavori in autotutela (31 luglio 2014) – in pratica la Commissione esegue le varie modifiche, chiude i lavori il 29 luglio e il membro OCSE dichiara di aderire ai contenuti del verbale quando non era più possibile modificarlo;
- come per ogni riunione, non c’è traccia delle copie dei documenti di identità dei Commissari, che infatti non dichiarano neppure di allegarle.
8 agosto 2014
I risultati, dopo 21 mesi di attesa (novembre 2012 – agosto 2014) sono pubblicati sul sito del MIUR.
59. Lettera aperta della Commissione ASN 13/B2
Segnaliamo ai lettori la lettera inviata dalla Commissione ASN 13/B2 alla Società Italiana di Management
Commissione ASN – Comunicazione finale 15 dic 2014
58. Documento della Società Italiana di Fisioterapia sull’ASN
Il paradosso dell’Abilitazione scientifica Nazionale per fisioterapisti.
Società Italiana di Fisioterapia
Nel 2010 il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR) ha introdotto una nuova modalità per la nomina dei professori universitari (1). Il primo passo di questa nuova modalità è una certificazione (abilitazione) nazionale, assegnata da apposite commissioni sulla base del curriculum scientifico del candidato. Al fine di fornire ai membri della commissione dei criteri di valutazione oggettivi, sono stati adottati tre indici bibliometrici: il numero di pubblicazioni indicizzate nei database Scopus e ISI normalizzate per l’età accademica, il numero di citazioni normalizzato per l’anno di pubblicazione, l’H-index contemporaneo. La soglia di sbarramento è stata fissata in corrispondenza dei valori mediani dei professori già nominati nei rispettivi settori scientifici dei candidati (2). Il superamento di queste soglie, tuttavia, non è considerato obbligatorio: secondo le direttive del MIUR essi dovrebbero costituire uno strumento per guidare i giudizi delle commissioni. Il secondo passo per diventare un professore universitario sarà un concorso promosso dalle università, al quale solo i ricercatori abilitati potranno partecipare.
È finalmente arrivato il momento in cui – anche in Italia – gli aspiranti professori sono giudicati secondo criteri di merito uguali per tutti? Apparentemente si, ma ancora una volta la difesa dei poteri corporativi è riuscita a prevalere sul buon senso e ad aggirare la legge.
Stato dell’arte
Secondo una prassi tutta italiana, negli ultimi 10 anni il settore delle Professioni Sanitarie è diventato una terra di conquista per i ricercatori di altre discipline, anche quando le loro competenze e qualifiche erano (e sono tutt’ora) completamente diverse dai requisiti scientifici indicati per il settore.
Infatti, tra i professori attualmente abilitati nel settore delle Scienze della Riabilitazione (Fisioterapia, Terapia Occupazionale, Logopedia, ecc.) figurano solo un fisioterapista e un terapista dell’età evolutiva, mentre gli altri sono neurologi e cardiologi.
Tuttavia, vi sono in Italia 85 corsi universitari di primo livello in Fisioterapia (attivati in 39 differenti università) all’interno dei quali – secondo la legislazione in vigore – almeno 15 crediti (cioè 375 ore, ma il numero reale è spesso notevolmente superiore, anche doppio) devono essere destinati all’insegnamento professionale. Queste ore di lezione sono in gran parte assegnate a fisioterapisti non ufficialmente inseriti del mondo universitario. Alcuni di loro hanno fondato nel 2010 la Società Scientifica Italiana di Fisioterapia (S.I.F.), che promuove attività scientifiche nel campo della Fisioterapia e pubblica una rivista scientifica indipendente (3), e un numero crescente di colleghi è coinvolto in prima persona in attività scientifiche e pubblica su riviste indicizzate (4).
Il 70% circa dei fisioterapisti italiani che hanno pubblicato lavori su riviste indicizzate lavora in istituti clinici (strutture del Servizio Sanitario Nazionale, ospedali privati) o come libero professionista. Il restante 30% è costituito da dipendenti di istituti scientifici (Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico, IRCCS), impiegati quasi esclusivamente con mansioni cliniche senza la possibilità di dedicare in modo esclusivo una parte del tempo all’attività di ricerca. Ad oggi quindi, nonostante le difficoltà incontrate quotidianamente e senza un inquadramento da ricercatore, un consistente numero di fisioterapisti ha raggiunto un notevole curriculum scientifico con mediane spesso superiori a quelle richieste in altri settori.
Il paradosso delle mediane e l’assalto al settore
In questa nuova procedura di abilitazione il MIUR ha riunito tutte le Professioni Sanitarie, ad eccezione degli infermieri, in un unico settore concorsuale (06/N1), che comprende i seguenti settori scientifico-disciplinari: MED/46 (Scienze tecniche di medicina di laboratorio), MED/47 (Scienze infermieristiche ostetrico-ginecologiche), MED/48 (Scienze infermieristiche e tecniche neuro-psichiatiche e riabilitative), MED/49 (Scienze tecniche dietetiche applicate) e MED/50 (Scienze tecniche mediche applicate). Ai settori scientifico-disciplinari MED/46 e MED/50 afferiscono un elevato numero di autori e ricercatori (spesso medici o biologi) impiegati esclusivamente con mansioni di ricerca e che ben poco hanno da condividere con la riabilitazione. Il risultato di questa fusione, unito al fatto che anche nel settore della riabilitazione gli attuali professori associati sono in maggioranza medici specialisti in altre discipline, è che i tre indici bibliometrici risultano troppo alti per la (pur considerevole) produzione scientifica dei fisioterapisti. Questo è ben evidenziato da un confronto con altre due professioni che condividono con i fisioterapisti un simile percorso formativo (infermieri) o un simile settore di ricerca (medici specialisti in Medicina Fisica e Riabilitazione). La mediana dell’H-index contemporaneo richiesta per i fisioterapisti è infatti 2.6 e 2.0 volte maggiore di quello previsto rispettivamente per gli infermieri e per i fisiatri ; il numero normalizzato di citazioni è di 1.5 e 5.6 volte maggiore; il numero di lavori pubblicati è simile al numero richiesto per gli infermieri, ma 1.5 volte superiore a quello per i fisiatri (Tabella 1).
E’ dimostrato che i lavori pubblicati su riviste di riabilitazione sono meno citati di quelli di altre riviste mediche (5): l’impact factor (IF) del 2013 del Journal of Head Trauma Rehabilitation – che si colloca al primo posto tra le 63 riviste riabilitative – è 4,443 e la maggior parte delle riviste impattate in questo campo ha un IF inferiore a 2. Per fare un esempio, la rivista più prestigiosa nel campo della Fisioterapia, Physical Therapy (rivista ufficiale dell’American Physical Therapy Association e della Royal Dutch Society for Physical Therapy), ha un IF di 2.778 e si colloca nella parte alta del primo quartile del settore riabilitativo. In altri settori, come nella ricerca medica sperimentale o nella biologia molecolare (ampiamente “battuti” dagli autori afferenti al MED/46 e MED/50), riviste di pari IF si collocano rispettivamente a metà del secondo e in fondo al terzo quartile. Che il termine di paragone dell’IF “nudo e crudo” non sia un meccanismo idoneo ed equo è ben noto anche al MIUR, che quando deve distribuire i fondi destinati alla ricerca utilizza il sistema di classificazione delle riviste secondo il quartile di appartenenza.
Questo fatto, unito alla complicità delle commissioni giudicatrici che hanno spesso interpretato in maniera discutibile la congruenza della produzione scientifica dei candidati con il settore concorsuale, ha permesso in passato ai ricercatori di altre discipline mediche di “assaltare” facilmente i settori delle Professioni Sanitarie, come testimoniano i curriculum formativi dei docenti attuali. Questo assalto viene perpetrato ora con l’Abilitazione Scientifica Nazionale: un numero incredibilmente alto (799!) di domande sono pervenute per il settore dedicato alle Professioni Sanitarie, ma solo poche tra loro provenivano da fisioterapisti o altri professionisti sanitari. In generale, i settori realmente congruenti al curriculum di molti candidati hanno indicatori bibliometrici più alti rispetto a quello delle Professioni Sanitarie, ed è possibile che molti di loro non avrebbero ottenuto l’abilitazione nel proprio settore. Questo spiega perché fra i candidati vi fossero numerosi cardiologi, neurologi e internisti ma nessun fisiatra, nel cui settore le mediane sono invece nettamente inferiori.
Occorre notare che un assalto in direzione opposta non è consentito: un fisioterapista non può ottenere l’abilitazione nel settore di Medicina Fisica e Riabilitativa (MED/34), dal momento che la commissione ha deciso di rendere il titolo di studio specifico in questo settore (Laurea in Medicina e Chirurgia e specializzazione) un pre-requisito. Un esempio eclatante è il giudizio espresso su una fisioterapista che ha superato le mediane richieste per il settore di Medicina Fisica e Riabilitativa e Ortopedia (06/F4), ma non è stata abilitata per questo settore a causa della mancanza del titolo di studio richiesto.
Risultati dell’Abilitazione Scientifica Nazionale per il settore 06/N1
I risultati della procedura di abilitazione 2012 per il settore 06/N1 sono stati comunicati pochi giorni fa: 172 candidati sono stati abilitati come professori associati. Come previsto, quasi tutti sono medici (tutti con specializzazione diversa da quella in Medicina Fisica e Riabilitazione) o biologi, con l’eccezione di alcuni chimici o ingegneri, e solo tre sono professionisti sanitari: un logopedista, un tecnico di laboratorio ed una fisioterapista. Quest’ultima è una fisioterapista straniera che ha ricevuto la sua formazione nei Paesi Bassi e ha svolto la maggior parte della sua attività clinica e di ricerca nei Paesi Bassi e in Germania. Nessuno dei fisioterapisti italiani che hanno fatto domanda ha ottenuto l’abilitazione.
Il paradosso – chiamiamolo così – si è completato quando la commissione ha giudicato l’attività scientifica di un fisioterapista “…focalizzata sulla riabilitazione, quali la riabilitazione della spalla, la riabilitazione del paziente ortopedico, oppure trattamento di patologie dell’articolazione temporo-mandibolare o di rapporti tra l’apparato stomatognatico ed il rachide (Med/33 e Med/34) non congruente con SC 06/N1”. In buona sostanza, la riabilitazione non è stata considerata come appartenente al settore concorsuale nel quale è stata inserita dal MIUR! In numerosi altri casi, articoli pubblicati in settori molto diversi sono stati invece considerati congruenti, usando l’espediente del loro valore traslazionale e innovativo. Vi sono addirittura casi di candidati che hanno ottenuto l’abilitazione per il settore 06/N1 benché tutti i membri della commissione avessero giudicato la produzione scientifica in tutto o in gran parte “…non congruente con il settore 06/N1”.
Come se non bastasse, i membri della commissione hanno giudicato di scarso profilo scientifico/editoriale le riviste di Fisioterapia e di Medicina Fisica e Riabilitativa, dove ovviamente pubblicano i fisioterapisti. Tra queste “riviste di scarsa qualità” rientrano, solo per citarne alcune, Physical Therapy, Journal of Orthopaedic & Sports Physical Therapy, Manual Therapy, Archives of Physical Medicine and Rehabilitation, che a buon diritto costituiscono un punto di riferimento per tutto il settore riabilitativo. Una possibile spiegazione di queste incredibili decisioni è che i membri della Commissione erano tutti i medici, con formazione e specializzazioni diverse dal campo nel quale sono stati chiamati come esaminatori (Tabella 2). E’ ragionevole quindi supporre che essi non fossero adatti per valutare le prestazioni dei professionisti sanitari, e i risultati dell’Abilitazione Scientifica Nazionale sembrano confermarlo.
Se i fisioterapisti non possono entrare nel MED/34 (e qui un consistente numero di colleghi avrebbe superato lo sbarramento delle mediane…) e la loro produzione scientifica non è congruente con il settore stabilito dal MIUR (06/N1), qualcuno dovrebbe spiegare loro dove fare domanda nel prossimo bando.
L’obiettivo dell’Abilitazione Scientifica Nazionale è quello di individuare in ogni disciplina gli esperti con un curriculum adeguato per l’insegnamento e la ricerca. Di conseguenza, il buon senso avrebbe dovuto portare a considerare, come in altri settori (vedi la Medicina Fisica e Riabilitativa, ma anche, fra le Professioni Sanitarie, il settore delle Scienze Infermieristiche), gli indici bibliometrici tra i ricercatori con pari competenze. In tutto il resto del mondo i professori nelle scienze della salute sono esperti con un background scientifico specifico. L’università italiana, però, ha saputo anche questa volta distinguersi, dando l’opportunità di entrare nel mondo accademico a buoni ricercatori che non hanno tuttavia alcuna competenza sui contenuti specifici delle Professioni Sanitarie e senza tener conto degli effetti che questo meccanismo potrà avere sulla formazione degli studenti.
Conclusioni
Anche se in Italia la formazione degli studenti durante la laurea triennale in Fisioterapia è affidata a professionisti con adeguata esperienza clinica e didattica, attualmente ci sono solo due professionisti sanitari della riabilitazione con un ruolo universitario ufficiale. Questa evidente contraddizione, carica di tutte le ripercussioni negative sulla qualità dell’offerta formativa per gli studenti, proseguirà (e addirittura peggiorerà) in futuro, supportata dalla falsa motivazione che il livello scientifico dei fisioterapisti non è sufficientemente adeguato. Questo perché il loro valore viene confrontato con quello di ricercatori provenienti da altre discipline mediche, abilitati per diventare professori nelle scienze delle Professioni Sanitarie benché le loro qualifiche e la loro esperienza siano assolutamente diverse.
Bibliografia
- Legge 240/2010. Sezione III, Art. 16, (Istituzione dell’abilitazione scientifica nazionale) .
- Decreto Ministeriale del 7 Giugno 2012, n. 76.
- Baccini M, Paci M, Gatti R. The Italian Journal of Physiotherapy: what’s up now? It J Physiother 2014;4:31-38.
- Paci M, Plebani G. Scientific publication productivity of Italian physiotherapists. It J Physiother 2013;3:170-173.
- Lankhorst GL, Franchignoni F. The ‘impact factor’ – an explanation and its application to rehabilitation journals. Clin Rehabil 2001;15:115-118.
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57. Lettera dei ricorrenti ASN nei settori sociologici
Tutto quello che avreste voluto sapere sull’ASN (ma non avete mai osato chiedere)
Questa lettera dà voce a un gruppo di oltre 120 candidati non abilitati che hanno presentato quattro ricorsi collettivi e un certo numero di ricorsi individuali avverso la prima tornata dell’Abilitazione Scientifica Nazionale nei settori di “Sociologia generale, giuridica e politica” (14/C1), di “Sociologia dei processi culturali e comunicativi” (14/C2) e di “Sociologia dei processi economici, del lavoro e dell’ambiente” (14/D1).
A prescindere dall’esito dei ricorsi, crediamo che la questione sia di interesse per l’intera comunità dei sociologi che lavorano nelle Università. Tutti hanno il diritto di conoscere i motivi delle nostre iniziative legali e noi sentiamo il dovere di renderli noti ritenendo che a ciascuno debba essere fornita la più ampia e dettagliata informazione su come si è svolta la procedura di abilitazione sulla cui base gli Atenei hanno già cominciato a reclutare nuovi docenti.
Abbiamo letto e analizzato i verbali elaborati dalle commissioni esaminatrici, abbiamo confrontato i giudizi e le valutazioni che sono state attribuite agli abilitati e ai non abilitati, abbiamo verificato attentamente il modus operandi dei commissari nel valutare le pubblicazioni e i titoli dei candidati. Ebbene, ci sembra di aver riscontrato in tutte le procedure oggetto di ricorso numerose e gravi anomalie, sulle quali ci sentiamo di esprimere un profondo senso di disagio, oltre che la più netta censura in quanto ricercatori/trici e, ancor prima, cittadini/e.
Come risultato del nostro lavoro siamo ora in grado di documentare un’incredibile serie di errori, inadempienze, cadute di stile e vere e proprie scorrettezze: valutazioni a volte manifestamente irragionevoli, ingiustificabili disparità di trattamento, errori di percezione circa le pubblicazioni e i titoli presentati dai candidati, giudizi spesso apodittici e superficiali, contraddizioni relative per esempio alla natura di una stessa rivista giudicata “nazionale” o “internazionale” a seconda dei candidati, incoerenze tra giudizi individuali e giudizi collegiali, disallineamenti fra giudizi espressi e voti attribuiti, mancanza di trasparenza dei verbali, tempi di lettura strettissimi in relazione alla mole delle pubblicazioni da valutare, gravi inadempienze rispetto all’obbligo di ponderare i criteri e i parametri usati nelle valutazioni.
Ci siamo trovati dinanzi anche a casi di commissari che scrivono monografie insieme con candidati, monografie pubblicate dopo la scadenza del bando ma sorprendentemente considerate valide ai fini del superamento della prima mediana del candidato, che è risultato poi abilitato.
Non mancano provvedimenti di proroga a tempo scaduto, accordati con modalità irrituali e richiesti per motivi di dubbia plausibilità senza peraltro riscontro nel verbale successivo. C’è anche il caso di una commissione che si è riunita presso la sede di un Ministero. E un’altra addirittura presso una fondazione privata, i membri del cui consiglio scientifico sono stati poi abilitati dalla stessa commissione: quasi si trattasse di una questione da regolare privatamente.
Quanto, infine, al ruolo di garanzia che avrebbero dovuto assicurare i professori stranieri nella commissione, la loro presenza sembra sia servita in molti casi come diversivo e copertura di facciata rispetto a manovre tutte interne all’accademia italiana.
Mentre attendiamo l’esito dei procedimenti amministrativi cui competono il vaglio di tali irregolarità e la tutela dei nostri interessi legittimi, intendiamo prendere la parola pubblicamente per manifestare le ragioni della nostra critica nei confronti di questa procedura di abilitazione, nonché dell’operato delle commissioni.
Speriamo così di contribuire con cognizione di causa alla discussione che si è sviluppata anche sul sito AIS sullo stato presente e futuro dell’Università nel nostro Paese. Soprattutto auspichiamo che, anche grazie alla nostra denuncia, nelle prossime occasioni concorsuali possano prevalere pratiche corrette e comportamenti più responsabili.
Come è noto, la prima tornata dell’ASN si è conclusa lasciandosi dietro un’infinita scia di polemiche, di contestazioni e di contenziosi giudiziari. È ormai chiaro a tutti, perfino a chi l’ha progettata, che la procedura di abilitazione è stata concepita male ed è stata gestita ancora peggio dalle commissioni che hanno avuto in sorte il compito di applicarla.
Doveva essere, appunto, un’abilitazione idoneativa e invece è stata arbitrariamente gestita come se si trattasse di un concorso. Come ha dichiarato la stessa ministra Giannini, l’ASN “doveva rilasciare una patente di guida, invece è stata interpretata come se rilasciasse una Ferrari”. Doveva poi essere il trionfo dell’accountability e si è rivelata il festival della superficialità, degli abusi e delle trame più inconfessabili. Doveva segnare l’avvento della meritocrazia e si è trasformata in un regolamento di conti personali e “geopolitici”. Doveva riscattare l’immagine pubblica dell’Università e ha finito per inquinarla ancora di più.
La cosa più grave, per quanto ci riguarda, è che i settori sociologici non si sono sottratti neanche a uno di questi fallimenti, anzi sembra siano stati capaci di determinarne addirittura altri per proprio conto. Ad esempio, le commissioni di sociologia hanno prodotto alcune fra le più basse percentuali di abilitati nei 181 settori concorsuali di cui sono stati pubblicati gli esiti (e già il fatto che a due anni dal bando, quando ormai dovrebbe essere conclusa anche la seconda tornata di abilitazioni, manchino ancora all’appello tre settori la dice lunga sui problemi di questo sistema di reclutamento). Prendendo in considerazione la sola area 14 delle “Scienze politiche e sociali”, la disparità di trattamento appare incomprensibilmente troppo marcata e fortemente penalizzante per i sociologi: la percentuale di abilitati in prima e seconda fascia nei tre settori sociologici è stata complessivamente del 22,62%, mentre nei restanti quattro settori dell’area 14 ha raggiunto il 42,22%. Il che produce effetti tanto più preoccupanti se si considera che gli studiosi di “Scienze politiche e sociali” per lo più afferiscono ai medesimi dipartimenti e concorrono sugli stessi budget e punti di organico.
Non bisogna dimenticare che i commissari di 14/C1, 14/C2 e 14/D1 sono essi stessi parte ed espressione di quella medesima comunità di ricercatori da loro giudicati in modo così negativo. Sono stati selezionati nel ruolo di commissari solo perché sorteggiati da una lista di docenti che negli ultimi anni risultavano accreditati di un certo coefficiente quantitativo di pubblicazioni, a volte lo stesso coefficiente di non pochi fra quei candidati a cui hanno negato l’abilitazione. Del resto, si sa, “non solo la fortuna è cieca, ma per lo più rende ciechi anche coloro che abbraccia”.
Qualcuno ha provato a legittimare la performance negativa delle discipline sociologiche all’ASN (particolarmente in certe aree territoriali) ricordando i risultati negativi che esse avrebbero conseguito nell’ultimo esercizio di Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR). Non è il caso di riaprire questo altro controverso capitolo della storia recente dell’accademia italiana. Basti qui osservare un curioso paradosso: il numero dei referee utilizzati per la VQR nei settori sociologici è sensibilmente superiore al numero totale di studiosi giudicati “eccellenti”. Ciò significa che tanti fra quei referee sono risultati essi stessi non eccellenti, il che suscita più di qualche dubbio sull’attendibilità dell’intera procedura.
La situazione che denunciamo non rappresenta che uno fra i tanti effetti perversi prodotti dalle riforme che negli ultimi anni si sono ripetutamente “abbattute” sull’università pubblica. Le politiche universitarie nel nostro paese si sono spesso mostrate insensibili, se non ostili, verso le istanze della ricerca e della formazione terziaria. Quello che più ci amareggia è dover constatare oggi che tali politiche sono riuscite a trovare all’interno della nostra stessa comunità alcuni fra i più zelanti esecutori di ciò che appare quasi un progetto di demolizione del sistema universitario. Ci chiediamo come questo sia potuto accadere e perché.
Ci teniamo a sottolineare che le irregolarità che secondo noi hanno condizionato, a vari livelli, la VQR e l’ASN recano gravi danni non soltanto alla nostra reputazione e alle nostre carriere personali, ma anche alla credibilità del sistema di reclutamento accademico e alla comunità sociologica nel suo complesso (abilitati compresi, molti dei quali ci hanno confidato di condividere le nostre ragioni). Riteniamo che siano stati ignorati e calpestati quei principi deontologici elementari che dovrebbero informare l’ethos di ogni comunità scientifica: universalismo, imparzialità, non condizionabilità da parte di pressioni esterne, equilibrio, lealtà, spirito di servizio, disinteresse.
Molti di noi sono o sono stati iscritti all’Associazione Italiana di Sociologia. Sarebbe stato sufficiente che i componenti delle commissioni dei settori sociologici avessero rispettato nell’esercizio delle loro funzioni le regole del codice deontologico dell’AIS, se non proprio il buon senso e la dignità professionale, per evitare di commettere le scorrettezze che abbiamo segnalato.
Da parte nostra, ci dichiariamo disponibili a rendere note e a spiegare con dovizia di particolari le ragioni della nostra presa di parola. Lo facciamo con spirito costruttivo e di servizio verso la comunità, fiduciosi che la nostra testimonianza possa servire a stimolare un dibattito pubblico e un processo di deliberazione collettiva tesi a ricostruire un clima di fiducia, lealtà e cooperazione all’interno della nostra comunità scientifica.
Sottoscrizioni al 23 giugno 2014
Felice Addeo, Alfredo Agustoni, Leonardo Allodi, Giuseppe Anzera, Charlie Barnao, Ignazia Maria Bartholini, Maria Rita Bartolomei, Americo Bazzoffia, Barbara Bechelloni, Danila Bertasio, Marco Binotto, Carlo Bordoni, Davide Borrelli, Sergio Brancato, Ilaria Buccioni, Carmelo Buscema, Giorgio Calabrese, Stefania Capogna, Luigi Caramiello, Nicola Cavalli, Marco Centorrino, Cristopher Cepernich, Mauro Cerbino, Giulia Ceriani, Laura Corradi, Ida Cortoni, Stefano Cristante, Paolo Cuttitta, Lucia D’Ambrosi, Fabio D’Andrea, Lelio Demichelis, Fabrizio Denunzio, Patrizio Di Nicola, Paolo Diana, Paola Donadi, Pino Donghi, Gea Ducci, Adolfo Fattori, Anna Rosa Favretto, Mauro Guglielmo Ferraresi, Mihaela Gavrila, Mauro Giardiello, Guido Giarelli, Valeria Giordano, Davide Girardelli, Carlo Grassi, Roberto Gritti, Angela Guarino, Luca Guzzetti, Stefania Leone, Pierfranco Malizia, Giorgio Manfré, Claudia Mantovan, Alessandro Martelli, Valentina Martino, Marxiano Melotti, Alessandra Micalizzi, Laura Minestroni, Roberto Mongardini, Alessandro Mongili, Federico Montanari, Paolo Naso, Marco Orioles, Fabrizio Pappalardo, Mariaeugenia Parito, Giuseppina Pellegrino, Marco Pellitteri, Edith Pichler, Francesco Pira, Andrea Pitasi, Daniele Pitteri, Stefano Poli, Andrea Pozzali, Francesca Rizzuto, Paolo Roberti di Sarsina, Pietro Saitta, Mario Salomone, Mariagrazia Santagati, Lello Savonardo, Alvise Sbraccia, Anna Fausta Scardigno, Chiara Scivoletto, Rossella Selmini, Maria Antonietta Selvaggio, Raffaella Sette, Sarah Siciliano, Maria Ausilia Simonelli, Luisa Stagi, Irene Strazzeri, Gabriella Taddeo, Maria Teresa Tagliaventi, Simona Tirocchi, Giovanni Torrente, Maria Antonietta Trasforini, Giovanna Truda, Beatrice Ugolini, Francesca Vannucchi, Laura Verdi, Susanna Vezzadini, Francesca Vianello, Giovanna Vingelli, Guido Vitiello, Elena Zapponi
56. Lettera inviata dai Professori ordinari di diritto dell’Unione europea (SSN IUS/14) al Ministro Giannini in merito alla composizione della commissione per l’Abilitazione Scientifica Nazionale
Lett. a Ministro Giannini 21.5.14
55. R. Rota, Il buon andamento della PA al “tempo degli ossimori”: “proroga e revisione delle procedure”
[Nota apparsa su Astrid Rassegna del 27.6.2014 e su Amministrazioneincammino.it del 21.6.2014]
1. Che il “buon andamento” costituisca un “principio generale” dell’attività amministrativa, volto ad orientare l’esercizio dei pubblici poteri, ed anche “regola prescrittiva”, da quando i criteri dell’efficacia e dell’economicità dell’azione sono stati assunti dal legislatore (art. 1 legge 241/90) come canoni di condotta per la P.A., è un dato incontrovertibile. Tali criteri, in quanto predisposti ex lege in termini precettivi, reggono, infatti, obbligatoriamente l’azione amministrativa nella cura dei fini pubblici, determinati dalla legge [1].
Perdipiù, la loro collocazione nella norma base (art.1) della legge 241, rubricata (ex art.21 della legge n.15/2005) “Principi generali dell’attività amministrativa” , ne accresce la valenza giuridica, rimarcando la connotazione “valoristica” dell’obiettivo del buon andamento, costituzionalmente garantito. Connotazione intesa in senso sostanziale, come raggiungimento del risultato efficace [2].
In sintesi, quindi, non v’è dubbio che il buon andamento sia: valore, principio e norma.
Del resto, altrettanto indubbio è che l’intero processo di riforme della PA, dal 1990 a tutt’oggi, sia stato contrassegnato dalla graduale e, via via, sempre più accentuata tendenza alla “logica di risultato”; logica che ha incrinato la rilevanza della “forma” a vantaggio della “sostanza”, plasmando anche gli istituti del generale “strumentario” della PA e determinando quella che in dottrina è stata da tempo definita “crisi del principio di legalità”.[3]
Nell’attuale assetto normativo, l’azione della PA è, quindi, vincolata, oltre che nel perseguimento dei fini, anche nel risultato.[4] E tale “risultato” è consegnato all’area della legittimità, in ragione dei canoni giuridici dell’adeguatezza e della proporzionalità dell’azione – principi giuridici dell’ordinamento comunitario e interno, in virtù del richiamato art. 1 della legge 241, novellato nel 2005 – sottesi al generale principio di ragionevolezza, che può considerarsi “matrice” di quella “logica”.[5]
Quale principio generale che funge da “misura di valore” della scelta, il “buon andamento”, inquadrato nella logica di risultato, “conferma quella profetica tesi di Guicciardi che assumeva l’opportunità quale requisito fondamentale di tutti i provvedimenti amministrativi, i quali sono validi in quanto opportuni, perché conformi all’interesse pubblico”.[6]
2. Se, dunque, non residuano dubbi sul contenuto e sulla valenza di tale “chiave di volta” per la “buona amministrazione”, non appare in linea con tale assetto la determinazione che emerge dal Comunicato MIUR del 30 maggio scorso, relativamente alla “proroga” della procedura di Abilitazione Scientifica Nazionale, relativa alla seconda tornata, contestualmente alla “revisione” della medesima procedura, o meglio alla dichiarata volontà di “cambiare le regole” che ne presiedono l’applicazione.
Ed infatti, la “proroga dei lavori delle 184 Commissioni” è disposta, secondo quanto assunto nel Comunicato, a “garanzia della conclusione dei lavori”, in particolare: “per evitare la sostituzione delle Commissioni, con conseguenti ulteriori ritardi … e il rischio di perdere quanto finora fatto…..” .
Se ben si guarda, tale determinazione della PA, pur ragionevole ove considerata – in applicazione del principio di conservazione degli atti giuridici – in modo, per così dire, “asettico” e, cioè, disgiunta dalle sue cause, finisce, viceversa, per rappresentare un “ossimoro” ove si considerino, per l’appunto, proprio le sue cause, le quali sono quelle stesse – precisate nel Comunicato – che giustificano la “revisione” della procedura. E la revisione della procedura, sul piano sostanziale e formale, è misura di segno esattamente opposto alla sua conservazione.
Si legge, infatti, in tale Comunicato ministeriale, che “Le prime due tornate hanno evidenziato i limiti dell’Abilitazione: tempi contingentati e regole complicate che hanno richiesto diverse proroghe e prodotto, alla fine, un numero particolarmente rilevante di ricorsi. I lavori si sono prolungati a scapito di quei meritevoli che aspettavano da tempo di poter fare il loro ingresso nella docenza universitaria. Per questo si cambia ……. attraverso procedure meno complesse e più rapide”.
In altri termini, il MIUR, rappresenta, “al contempo”, la necessità di “conservare quanto fatto finora” attraverso la proroga della procedura, e di “aprire la fase di cambiamento”, attraverso la revisione di quella stessa procedura, prorogata ancorchè ritenuta inefficace.
In effetti, la decisione ministeriale, limitatamente alla revisione delle regole, sostanziali e procedurali, a disciplina della procedura di Abilitazione scientifica nazionale, sembra far propria la posizione assunta dal CUN nella sua Proposta di revisione resa nota il 9/4/2014, nella quale appaiono ben rappresentati, anche in dettaglio, i “rischi di tenuta e la complessità delle procedure”. La Proposta, infatti, sottolinea con preoccupazione le “criticità evidenziate a conclusione della prima tornata”: 1)“notevoli difficoltà applicative; 2) significative carenze anche sul piano dell’efficacia della valutazione sia dei commissari sia dei candidati, forse anche per mancanza di chiarezza sulle finalità del processo”. Nondimeno, va rilevato che tale Proposta contiene lo stesso ossimoro, laddove precisa: “per ovviare ai problemi.. e nell’intento di rafforzare il modello dell’ASN, …. si ritiene urgente l’intervento di revisione normativa”, senza peraltro interrompere allo scadere del primo biennio la procedura, della quale deve essere comunque assicurata la continuità”.
Ora, il dichiarato riconoscimento – nel Comunicato della PA ma anche nella Proposta CUN – dell’inefficacia della procedura di ASN, rilevata con riguardo ai risultati delle prime due tornate, non può non assumere un significato giuridicamente rilevante, in virtù dell’indubbia rilevanza giuridica del principio di efficacia dell’azione della PA[7]; e cioè quale giudizio – esternato – di non conformità, inidoneità, inopportunità e, dunque, anche invalidità, delle regole[8] e della procedura in applicazione delle medesime.
Non sembra inutile, poi, osservare al riguardo che il principio generale della conservazione degli atti giuridici riposa su un (ancora) più generale principio della ragionevolezza[9], a sua volta plastica rappresentazione della “natura delle cose”, che perciò ne costituisce limite.[10]
Quale, allora, il senso di tale soluzione?
3. Viviamo, dunque, ancora “il tempo degli ossimori”, secondo una riflessione sociologica che ci piace riportare: “l’ultimo trentennio è stato il tempo degli ossimori… e forse da qui dovremmo ripartire…. perché oggi quella nebbia, quel continuo accostamento di parole di significato opposto che imbriglia la comprensione e vela la verità è un po’ovunque: nei grandi eventi di cultura spettacolo, nell’informazione, nei luoghi sordi al canto di cigno neoliberale … per il timore forse che si possano immaginare altre realtà e possibilità. Siamo qui, dunque, oggi, all’ingresso di un nuovo medioevo nel terzo millennio, e se una strada qui c’è, è fuori. Fuori …. dove vive ancora qualche lucida voce di intellettuale sensibile che fa ciò che più è prezioso, si affranca dal sadismo dei vincitori. Fuori, dove il sapere prolifera insieme alle relazioni, fuori dai vecchi privilegi, fuori dal vuoto e dentro la vita. Laddove tempo vuol dire tempo, acqua vuol dire acqua, scuola vuol dire scuola, diritto vuol dire diritto, amore vuol dire amore, vita vuol dire vita, e verità vuol dire onestà.”[11]
Ma viviamo anche il tempo della “rivoluzione della dignità”.
“Se “la rivoluzione dell’eguaglianza” era stato il connotato della modernità, la “rivoluzione della dignità” segna un tempo nuovo” (S. Rodotà). Dignità che presenta un nuovo quadro dei doveri costituzionali, rendendo “indispensabile non solo una sua riaffermazione d’ordine generale, ma la sua considerazione come un vincolo per la politica e le istituzioni: dal rispetto alla tutela, dal monito proveniente dal passato all’indicazione per il futuro, dalla statica alla dinamica. Una dignità non più solo oppositiva, ma fondativa”. “Virtù sovrana”.[12]
E viviamo perciò – dobbiamo vivere – il tempo della “ripartenza”.
Ripartenza dalla sconfitta dell’umanesimo. Ripartenza, dunque, della cultura da un nuovo umanesimo, perché – come osservava Gadamer, in un suo Dialogo con il filosofo giurista Gerardo Marotta, sul “compito dell’intellettuale” – “la cultura ha un grande vantaggio rispetto a tutti gli altri beni che hanno un ruolo nella vita politica; questi ultimi sono fatti in modo tale da diminuire se vengono ripartiti; se ne riceve solo una parte. La cultura, invece, è l’unico bene dell’umanità che diventa più grande se molti partecipano ad essa. Questo è per così dire l’impegno, il compito del futuro”.[13]
[1] In tema, per una ricostruzione dottrinale anche storica, cfr. A. Police, Principi e azione amministrativa, in F.G. Scoca (a cura di) Diritto Amministrativo, Giappichelli, 2008, p. 208 e ss.
[2] In tali termini, l’efficacia e l’efficienza, l’effetto utile, l’effettività di tutela, costituiscono valori giuridici, diversamente dall’ “efficientismo” .
[3] F.G. Scoca, Attività amministrativa, in Enc. Dir., Vol. VI, Aggiornam., Giuffrè, 2002, p.87.
[4] Sia consentito il rinvio a R. Rota, Il nuovo ruolo degli amministratori pubblici tra efficienza e garantismo del sistema amministrativo, in Diritto e Formazione, 3/2003. Cfr. inoltre, F.G.Scoca–M. D’Orsogna, L’invalidità del provvedimento amministrativo, inF. G. Scoca (a cura di) Diritto Amministrativo, cit., p.326-328; M. R. Spasiano, Il principio di buon andamento: dal metagiuridico alla logica del risultato in senso giuridico, in Ius Publicum (www. Ius-publicum.com) 2011.
[5] Cfr.Cons.Stato VI, 27/2/2012 n.1081.
[6] Così B. Cavallo, Provvedimenti e atti amministrativi, Vol. III del Trattato di Diritto amministrativo diretto da G. Santaniello, Cedam, 1993, p.327 e 328.
[7] Cfr. F.G. Scoca-M. D’Orsogna, cit., p. 327.
[8] Per una diversa prospettazione della questione, non in termini di “revisione delle regole”, ma di “adeguata (allo scopo della legge) interpretazione” delle medesime, sia consentito rinviare a R. Rota, La procedura di abilitazione scientifica nazionale “presa sul serio”, in Rassegna Astrid, n.10/2014.
[9] Cfr. Cons. Stato, VI, 27/2/2012 e Cons Stato, IV, 26/7/2012, n.4257.
[10] Sulla discussione dottrinale circa “la natura delle cose”, per le diverse posizioni assunte cfr. la dottrina riportata da A. Police, cit., p. 195-198, in particolare le note n.27 e 28.
[11] Cfr. F. Coin, Il Tempo degli ossimori, ovvero la responsabilità degli intellettuali, in Orwell, supplemento culturale di Pubblico, 24 Novembre 2012, e in www.roars.it, 27 Novembre 2012, verso la quale si è debitrici per la parafrasi del testo.
[12]S. Rodotà, La rivoluzione della dignità, La scuola di Pitagora, 2013, p.18: “sovrana, dunque, la dignità, secondo l’intuizione di Carlo Esposito (La Costituzione italiana. Saggi, Cedam, 1954, p.9), come appunto “virtù sovrana” apparirà più tardi l’eguaglianza a R. Dworkin, (Virtù sovrana. Teoria dell’eguaglianza, tr. It. Di G. Bettini, Feltrinelli, 2002)”.
[13] H.G. Gadamer, Il compito dell’intellettuale, Dialogo tra Gerardo Marotta e Hans-Georg Gadamer, 13/1/1999, Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, Rai educational.
54. Petizione al MIUR di candidati ASN del settore concorsuale 08/A2
Petizione MIUR 8-Giugno-2014
53. M. Formisano, Some thoughts on the ASN
ASN-SomeThoughts-MF
52. Lettera sugli esiti ASN del settore Culture del Vicino Oriente Antico, del Medio Oriente e dell’Africa
Lettera lunga_Con_Firme_15_Maggio
51. Lettere degli editors di riviste internazionali di Storia Economica alla commissione ASN
Economic History Letter_to_Italian_ASN_14_April_2014
Letter_to_Italian_ASN_7_April_2014
50. Membri del board della SISE e dell’AISPE a proposito dell’ASN di Storia Economica
Letter Economic History Italy
49. Lettera aperta sugli esiti dell’ASN nel settore di Storia dell’Architettura e Restauro.
Gentile Direttore,
nelle ultime settimane sugli organi di stampa si sono moltiplicati gli articoli che hanno sollevato dubbi e perplessità sui risultati dell’ultima procedura di abilitazione nazionale universitaria, denunciando la scorrettezza dell’operato di alcune commissioni. Lo stesso Ministro della Pubblica Istruzione, nel suo primo intervento pubblico a Padova, ha dichiarato che «la complessa vicenda delle Abilitazioni Scientifiche Nazionali (ASN) reclama chiarezza».
È proprio in nome di questa condivisa esigenza di chiarezza che vogliamo portare all’attenzione dei suoi lettori l’incredibile numero di errori materiali, irregolarità e palesi violazioni di legge che hanno caratterizzato l’operato della commissione giudicatrice del settore 08/E2 (Storia dell’architettura e Restauro). Sulla questione sono già uscite tre lettere sul sito www.roars.it – l’ultima firmata da oltre la metà degli ordinari del settore ICAR/18 (Storia dell’Architettura) − che mettono apertamente in discussione la condotta dei commissari, chiedendo al Ministro di procedere alla nomina di una nuova commissione e di riaprire contestualmente la seconda tornata, cercando così di sanare almeno in parte i guasti della situazione. Dal canto nostro, ci sembra importante circostanziare queste richieste con qualche dato concreto, per attestare come in questo caso la questione non si riduca davvero a una polemica fra opposti schieramenti accademici, o alle recriminazioni di qualche escluso, ma chiami in causa un problema di carattere ben più generale: la tutela della dignità di una comunità scientifica, e una professione, oggi incrinata da un malcostume che sarebbe interesse di tutti emarginare e combattere.
Verbali lacunosi e scorretti
I verbali redatti dalla commissione risultano infarciti di contraddizioni ed errori materiali: se alcuni possono forse essere imputati a sviste formali, altri sembrano invece tradire gravi scorrettezze sostanziali. Dagli atti, per esempio, manca senz’alcuna motivazione il verbale di una seduta (quella del 15 luglio 2013, annunciata nel verbale n. 7 del 19 giugno e poi apparentemente annullata); nella Relazione finale i commissari dichiarano di aver «preso in considerazione, per la stesura dei giudizi, gli indici aggiornati secondo quanto comunicato da nota ministeriale dell’8 novembre 2013», quando altrove sostengono di aver provveduto a «formulare i giudizi complessivi per ogni candidato» quattro giorni prima di quella data, il 4 novembre. E ancora: nella prima seduta del 25 febbraio 2013 la commissione dichiara che «i giudizi individuali e collegiali espressi su ciascun candidato […] costituiranno parte integrante dei verbali», ma poi si guarda bene dal rispettare questa elementare norma di trasparenza, facendo passare oltre quattro mesi (dal 6 giugno al 18 ottobre) fra la stesura dei giudizi dei candidati di II fascia e la loro inserzione nel sistema informatico del ministero. Semplice trascuratezza, o un modo per lasciare libero corso alle contrattazioni, in base a logiche ed equilibri del tutto estranei al merito dei curricula presentati dai candidati?
La questione dei tempi
Nella seduta preliminare del 25 febbraio 2013 sono i commissari stessi a dichiarare di volersi attenere al principio di «prevedere, per ogni blocco di domande esaminate, un incontro collegiale per la verbalizzazione dei giudizi individuali e la formulazione di quelli collegiali». In realtà, quel che i verbali certificano al di là di qualsiasi ragionevole dubbio è che sia avvenuto proprio il contrario, e cioè che la gran parte dei giudizi collettivi non siano stati scritti insieme dai commissari durante le riunioni, bensì preparati in separata sede senza alcun vaglio collegiale. Ripercorriamo il lavoro della commissione, così come emerge dalle sue stesse dichiarazioni:
– i commissari dedicano quattro sedute alla discussione dei titoli presentati dai candidati per la II fascia: il 26 marzo (dalle 14 alle 19.30) la commissione si riunisce in via telematica e confronta i giudizi individuali su 190 candidati, dedicando quindi a ciascuno di essi (se pensiamo a un tempo omogeneamente distribuito) circa 1 minuto e 40 secondi. Il 6 maggio (dalle 14 alle 19.30) la commissione confronta, sempre in via telematica, i giudizi individuali su altri 203 candidati, discutendo anche su un certo numero di candidati i cui giudizi erano rimasti in sospeso dalla volta precedente. Non considerando questo dato e limitandoci ai 203 candidati esaminati in 330 minuti, il tempo dedicato a ciascuno di essi è di circa 1 minuto e 37 secondi. Il 6 giugno (dalle 9 alle 13.30 e poi dalle 14.30 alle 19.45) la commissione si riunisce in via telematica, completa il lavoro svolto e contestualmente avvia la stesura dei giudizi sulla piattaforma del Cineca: nel giro di 615 minuti vengono esaminati tutti e 394 candidati, a ognuno dei quali viene dedicato 1 minuto e 34 secondi. Arriviamo al 18 ottobre 2013: per la prima volta (dal 24 gennaio!) la commissione si riunisce fisicamente presso l’Università Politecnica delle Marche e procede alle decisioni finali, con l’eccezione di due candidati per i quali vengono chiesti i pareri pro veritate. La riunione dura dalle 9.30 alle 14.00: altri 41 secondi a ciascun candidato, al termine dei quali si allega al verbale la valutazione finale dei candidati.
Riassumendo, la commissione dichiara di fatto di avere impiegato complessivamente circa 5 minuti e 32 secondi a testa (di cui solo 41 secondi in seduta plenaria, non mediata da vie telematiche) per discutere e confrontare i giudizi individuali, nonché estendere i giudizi collegiali. L’impresa risulta materialmente impossibile per chiunque, e se ne deduce che la dichiarazione è falsa.
– Per i candidati alla I fascia i tempi sono ancora più stretti: le prime due riunioni (7 e 19 giugno, otto ore complessive)sono state dedicate alla discussione del profilo dei 134 candidati (dunque: tre minuti e mezzo a candidato). È chiaro come in queste prime due sedute (telematiche entrambe) non ci sia stato materialmente il tempo per leggere i giudizi eventualmente formulati dai singoli docenti, né per confrontarsi seriamente in merito al profilo dei candidati, dati anche i giudizi spesso discordanti fra i membri della commissione. La terza riunione, telematica (1 novembre, 90 minuti) è stata interamente dedicata alla discussione sulla richiesta di pareri pro veritate su due candidati. Nel corso della quarta e ultima riunione (4 novembre, dalle 9.30 alle 19.00), la commissione dichiara di aver proceduto al «riscontro dei giudizi individuali espressi dai diversi membri» e a «formulare i giudizi complessivi» per ognuno dei 134 candidati.
I commissari sostengono dunque di aver impiegato poco più di quattro minuti a candidato per redigere dei giudizi collegiali di più o meno una pagina a testa: in realtà, pare assai difficile che abbiano avuto il tempo anche solo di leggerli collettivamente.
La sommarietà dei giudizi
La normativa vigente stabilisce che la concessione o meno dell’abilitazione sia accompagnata da un «motivato giudizio fondato sulla valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche» (L 240/10, art. 16, c. 3): un principio ripetutamente ribadito anche in seguito, da ultimo nella CM del 27.05.2013 («il giudizio collegiale deve necessariamente contenere […] la valutazione analitica dei titoli posseduti e delle pubblicazioni scientifiche prodotte dal candidato»).
È sufficiente un rapido esame dei giudizi allegati ai verbali per rendersi conto che in innumerevoli casi questi sono ben lungi dal potersi definire «analitici»: spesso le considerazioni dei commissari si riducono a sbrigative bocciature (o promozioni) di un paio di righe, tanto opache quanto superficiali. Un solo esempio per tutti: una candidata, già borsista della Scuola Archeologica di Atene, ricercatrice dal 2004 presso la Facoltà di Architettura di Bari, presenta dal 1990 ad oggi 62 pubblicazioni, fra cui quattro articoli usciti su riviste di fascia A. Ecco il giudizio di uno dei commissari: «La candidata, che vanta un discreta familiarità con il mondo accademico, ha dedicato le sue attenzioni di studiosa prevalentemente a temi di natura archeologica. I risultati da lei conseguiti non sono ancora tali da meritarle l’ottenimento dell’abilitazione all’insegnamento universitario della Storia dell’Architettura o del Restauro nel ruolo di seconda fascia».
La sommarietà di cui dà prova il commissario – che in questo caso ritiene di poter fare tranquillamente a meno di entrare nel merito delle ricerche specifiche che dovrebbero essere oggetto del suo giudizio – risalta ancor più se la confrontiamo con la meticolosità di cui il medesimo commissario dà prova in altri casi. Come per esempio quando si tratta di giudicare una giovane candidata, che presenta solo sei articoli e tre brevi note di poche pagine ciascuna, per la quale − evidentemente ritenendo insufficiente l’ulteriore parere pro veritate allegato agli atti – arriva a scrivere un giudizio di oltre 24 cartelle (sì: 24 cartelle di 2000 battute!), producendo, non richiesto dalla procedura, diverse lettere di presentazione di colleghi stranieri. Perché mai solo in questo caso? Puro amor di verità? O non abbiamo qui piuttosto una plateale forma di discriminazione, contraria alle disposizioni legislative, che non prevedono questo tipo di ‘titoli’ che certo un gran numero di candidati avrebbe potuto sin troppo agevolmente produrre?
La questione delle mediane
La normativa relativa all’ASN è chiarissima nell’individuare un articolato sistema di indicatori, parametri, mediane tali da costituire per i commissari una griglia di riferimento quanto più possibile trasparente e verificabile (L 240/2010, art. 16, c. 3, lettere a, b, c, h; DPR 222 del 14-09-2011, art. 6, c. 4-5; DM 07-06-2012, art. 1 e 6, c. 3-5). Certo, le commissioni potevano prescindere da questi indicatori, fermo restando tuttavia il principio che dovevano coscienziosamente motivare qualsiasi deroga in proposito: «le commissioni possono non attribuire l’abilitazione a candidati che superano le mediane prescritte […], ovvero possono attribuire l’abilitazione a candidati che, pur non avendo superato le mediane prescritte, siano valutati dalla commissione con un giudizio di merito estremamente positivo. Resta fermo che ogni decisione della commissione, relativamente a quanto precede, dovrà essere rigorosamente motivata secondo quanto previsto dall’art. 6, c. 5 del citato decreto […], sia in sede di predeterminazione dei criteri che di giudizio finale» (CM 754 dell’11.01.2013).
Peraltro, nell’incontro preliminare la commissione dichiarava di recepire fra i parametri di giudizio proprio il «numero e tipo delle pubblicazioni presentate e loro distribuzione sotto il profilo temporale», nonché l’«impatto della produzione scientifica complessiva misurato mediante indicatori di cui all’art. 6 e all’allegato B del DM 76 del 07.06.2012». Si tratta di dichiarazioni puramente di circostanza: in palese contrasto con la normativa, nei giudizi individuali dei singoli commissari, come in quelli finali, non compare MAI il minimo riferimento ai predetti indicatori. Questo silenzio è presto spiegato: se avessero esplicitato i loro criteri di giudizio, i commissari si sarebbero trovati nell’imbarazzante situazione di dover ammettere (e giustificare…) il fatto di aver tranquillamente ignorato gli indicatori e le mediane predeterminate dalle norme di legge. Per rendersene conto, è sufficiente fare riferimento alle dettagliatissime tabelle pubblicate da M. Marzolla nella sua analisi dei risultati dell’ASN (http://www.moreno.marzolla.name/software/asn/): nel settore 08/E2, circa il 24% dei candidati abilitati dalla commissione alle funzioni di professore di I e di II fascia non supera nessuna mediana o ne possiede solo una. Viceversa, circa il 20% dei non abilitati alla II fascia e circa il 24% dei non abilitati alla I fascia supera tutte e tre le mediane.
Ora, è ben vero che le mediane di per sé non costituiscono un indice qualitativo, bensì solo quantitativo, e che la commissione doveva senz’altro ponderare questi dati entrando nel merito delle ricerche dei candidati; ma non poteva ignorare arbitrariamente gli indicatori senza giustificazione alcuna! Sia perché lo richiedeva la legge, sia per non incorrere nel sospetto che dietro incongruenze e disomogeneità così manifeste non si nasconda altro che faziosità e clientelismo.
La commissione si autotutela…
Gli atti di cui sopra sono stati pubblicati il 17 febbraio 2014, con l’eccezione dei giudizi relativi a cinque candidati (De Cesaris e Pace per la I fascia; Pierconti, Rago e Sampò per la II), in base alla procedura di Autotutela garantita dalla L 241/1990, art. 21-quater, c. 2, «allo scopo di evitare gravi incertezze sull’esito delle valutazioni in questione, nelle more dell’intervento in autotutela». Evidentemente, tuttavia, tali e tante erano la resipiscenze della commissione che quest’ultima è intervenuta a modificare i giudizi – talvolta molti giorni dopo la pubblicazione degli stessi! – in moltissimi altri casi: alla fine del mese di marzo i giudizi rivisti dalla commissione in base alla procedura di Autotutela risultano complessivamente 64 (11%). Perché in questi casi non si è sospesa da subito la pubblicazione degli atti? Che garanzie di regolarità dà una procedura in cui oltre un giudizio su dieci è stato modificato dalla Commissione dopo la pubblicazione degli atti?
L’incoerenza dei criteri di giudizio
Gli avvocati che alcuni di noi hanno consultato sostengono che ci sia di che invalidare tutta la procedura. Se ne occuperanno i tribunali competenti. Per noi, però, la questione fondamentale non è tanto d’ordine giuridico, quanto culturale: non è certo solo per i tanti vizi di legge che vogliamo portare all’attenzione pubblica le deplorevoli procedure seguite dalla commissione del settore 08/E2. Già Tomaso Montanari qualche settimana fa si è soffermato in un suo intervento su «Minima Moralia» sul linguaggio equivoco, ambiguo, sostanzialmente disonesto e fazioso usato da altre commissioni (http://www.minimaetmoralia.it/wp/abilitazioni-universitarie-storia-dellarte/). Non meno opaco sembra il linguaggio usato dai nostri commissari. Faremo solo qualche esempio fra i molti possibili: uno degli argomenti usati più spesso per eliminare i candidati invisi, ma ‘purtroppo’ provvisti di un solido curriculum, è la scarsa attinenza disciplinare delle loro pubblicazioni (un argomento usato molto spesso, forse non a caso, nei confronti dei candidati che si sono occupati di storia urbana).
Così, a un candidato che nel suo curriculum presenta fra l’altro una monografia (premiata con il «Sir Nikolaus Pevsner International Book Award for Architecture» del RIBA) e 8 articoli in riviste di fascia A viene contestato il fatto che «il metodo investigativo è orientato a mettere in evidenza […] non solo il clima socio-economico dell’epoca ma anche la facies culturale dei luoghi, sottolineando il ruolo esercitato da illustri mecenati e umanisti. L’attenzione del candidato è pertanto incentrata sugli aspetti estrinseci della progettazione architettonica e urbana, mentre modesto sembra l’interesse per le componenti figurali e costruttive delle architetture indagate». Il giudizio pare dunque manifestamente ignorare le indicazioni della declaratoria del settore 08/E2, che recita testualmente: «Nel campo della storia dell’architettura i contenuti scientifico-disciplinari riguardano la storia della cultura e delle attività attinenti alla formazione e trasformazione dell’ambiente, in rapporto al quadro politico, economico, sociale e culturale delle varie epoche. In particolare, i contenuti scientifico-disciplinari riguardano: gli argomenti storici concernenti gli aspetti specifici di tali attività, dalla rappresentazione dello spazio architettonico alle tecniche edilizie; la storia del pensiero e delle teorie sull’architettura; lo studio critico dell’opera architettonica, esaminata nel suo contesto con riferimento alle cause, ai programmi ed all’uso, nelle sue modalità linguistiche e tecniche, nella sua realtà costruita e nei suoi significati». Del resto, è lo stesso Regolamento della procedura di abilitazione (DM 07.06.2012, art. 4, c. 2) che ribadisce il principio secondo cui «nella valutazione delle pubblicazioni scientifiche presentate dai candidati […] la commissione si attiene ai seguenti criteri: a) coerenza con le tematiche del settore concorsuale o con tematiche interdisciplinari ad esso pertinenti».
Ma se la commissione voleva davvero farsi portavoce di un’interpretazione restrittiva dell’identità disciplinare, come mai fra gli idonei troviamo studiosi caratterizzati da un profilo ancor meno coerente con le buone vecchie tradizioni d’antan, come storici della fotografia o della rappresentazione prospettica?
Un altro argomento ad excludendum usato spesso è il «localismo» degli studi di un candidato; sull’ambiguità di questo criterio si è già espresso Marco Rosario Nobile in un intervento pubblicato sul blog http://storiedellarte.com. Peraltro, va rilevato che l’argomento viene usato dalla commissione in modo totalmente disomogeneo e contraddittorio, e spesso non sembra altro che un pretesto per eliminare i candidati invisi ora all’uno, ora all’altro commissario. Per esempio una candidata di II fascia, autrice di 79 pubblicazioni (fra cui due monografie, sei volumi in curatela, innumerevoli interventi a convegni internazionali dedicati a svariati argomenti di storia dell’architettura veneta dal Cinquecento all’Ottocento, nonché sull’architettura civile europea e sulla storia urbana di Carpi e di altri piccoli centri italiani nel Rinascimento), viene sbrigativamente liquidata dalla commissione in quanto i suoi studi sarebbero «rimasti prevalentemente confinati nell’ambito locale». Viceversa, nel caso di un’altra candidata che presenta solo nove pubblicazioni dedicate quasi esclusivamente a un singolo edificio (Palazzo Farnese a Caprarola), le ricerche svolte − pur «edite con discreta discontinuità» (?) recita il giudizio collegiale – avrebbero «offerto apporti storiografici originali» tali da renderla idonea all’abilitazione.
In conclusione
Potremmo continuare a lungo a citare giudizi contraddittori, capziosi, che occultano l’uso sistematico di diversi pesi e misure, sottraendosi all’obbligo di rispettare i parametri previsti dalla procedura per poter valutare i candidati in base a criteri sostanzialmente svincolati dalla rispettiva produzione scientifica, e legati piuttosto alla loro appartenenza o meno a determinate ‘scuole’ o cordate di potere accademico. E qui arriviamo al punto.
Senza dubbio, la procedura era viziata dai difetti e dai limiti oggettivi dei sistemi di valutazione introdotti dalle ultime riforme universitarie, e il lavoro dei commissari è stato reso ancor più difficile dal numero abnorme dei candidati. Ma il fatto è che nei vari settori concorsuali le commissioni si sono contraddistinte per comportamenti molto diversificati, e non tutte si sono sentite libere di allontanarsi così scopertamente dalla lettera e dallo spirito della legge. È vero, le regole del gioco non erano le migliori possibili, e forse il gioco stesso non poteva che dare esiti discutibili. Però giocare con carte truccate, come ha fatto questa commissione, è un’altra cosa: che non ha nulla a che vedere con le questioni di politica universitaria, ma solo con le responsabilità individuali. Con ciò non vogliamo affatto contestare la legittimità dei giudizi positivi ottenuti dai molti colleghi meritevoli che hanno giustamente avuto l’idoneità (e a cui esprimiamo tutta la nostra stima). Semplicemente, crediamo nella forza della verità: questa vicenda ha messo a nudo la degenerazione dei nostri sistemi di reclutamento. Nulla di nuovo, in questo, salvo le proporzioni sistemiche ormai assunte dal fenomeno, avallate anzi incentivate dalla nuova procedura.
Però forse non tutto è stato detto, ancora. Evidentemente i commissari credevano di poter contare su connivenze diffuse e generalizzate: ma andrà veramente così? Nei prossimi mesi saranno reclutate le persone che reggeranno (e satureranno) le nostre università per molti anni a venire, e gli organi accademici saranno chiamati a scelte che incideranno profondamente sul futuro della nostra disciplina. Starà a loro, e alle commissioni che saranno nominate per procedere alle chiamate, recepire passivamente i giudizi formulati in questa prima tornata di abilitazioni, o correggerne almeno in parte gli orientamenti. Una cosa è certa: la fisionomia e l’identità stessa di ogni sede universitaria verranno da queste scelte durevolmente ridisegnate.
Marco Folin (Università di Genova); Massimiliano Savorra (Università del Molise); Elena Svalduz (Università di Padova); Giorgio Ortolani (Università di Roma III); Monica Livadiotti (Politecnico di Bari); Maria Beatrice Bettazzi (Università di Bologna); Gerardo Doti (Università di Camerino); Maria Rosaria Vitale (Università di Catania); Milva Giacomelli (Università di Firenze); Filippo De Pieri (Politecnico di Torino); Maria Vittoria Capitanucci (Politecnico di Milano); Carmelo Malacrino (Università di Reggio Calabria); Antonello Alici (Università Politecnica delle Marche); Christian Campanella (Politecnico di Milano); Paola Barbera (Università di Catania); Giuseppina Pugliano (Università di Napoli “Parthenope”); Giovanna D’Amia (Politecnico di Milano); Maria Cristina Loi (Politecnico di Milano); Roberto Dulio (Politecnico di Milano); Michela Rosso (Politecnico di Torino); Guglielmo Villa (Università di Roma “La Sapienza”); Michela Comba (Politecnico di Torino); Andrea Maglio (Università di Napoli “Federico II”); Simona Benedetti (Università di Roma “La Sapienza”); Simona Salvo (Università di Roma “La Sapienza”); Gemma Belli (Università di Napoli “Federico II”); Sebastiano Roberto (Università di Siena); Mauro Volpiano (Politecnico di Torino); Chiara Baglione (Università “Kore” di Enna); Ornella Cirillo (Seconda Università di Napoli); Alessandra Maniaci (Università Mediterranea di Reggio Calabria); Sandro Ranellucci (Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara); Marco Cadinu (Università di Cagliari); Laura Zanini (Università di Cagliari); Teresa Colletta (Università di Napoli “Federico II”); Paola Raggi (Senigallia); Fausto Testa (Politecnico di Milano); Emanuela Garofalo (Università di Palermo); Anna Anzani (Politecnico di Milano); Maria Margarita Segarra Lagunes (Università di Roma III); Paolo Vitti (Università di Roma “La Sapienza”); Gianluigi Lerza (Università di Roma “La Sapienza); Alessandro Castagnaro (Università di Napoli “Federico II); Fulvia Scaduto (Università di Palermo); Chiara Occelli (Politecnico di Torino); Annalisa Dameri (Politecnico di Torino); Stefania Tuzi Portoghesi (Università di Roma “La Sapienza”); Valeria Farinati (ricercatrice italiana all’estero).
48. Roberto Pasini, Modesta proposta per tutelare la dignità della docenza universitaria (e altro)
Questo intervento ha lo scopo, nell’ordine, di: 1) commentare l’operato della commissione del SC 10 B/1, Storia dell’arte; 2) focalizzare una discriminazione legalizzata dalla legge 240/2010; 3) avanzare una modesta proposta per tutelare la dignità della docenza.
1) Premesso che altri colleghi ci hanno, con molta attenzione e cognizione di causa, preceduto su queste pagine denunciando i difetti macroscopici della ASN come concezione, progetto e realizzazione, gli errori materiali che sarebbero stati compiuti nei verbali, la presunta mancanza di titolarità dei commissari, l’assurdità del concorsone nazionale che demanda a cinque esaminatori l’obbligo di decidere il destino di centinaia di aspiranti – con lungaggini, ritardi, impossibilità a chiudere i lavori nei tempi stabiliti dalla legge e continui ritocchi dell’asticella -, arrivando anche a calcolare i tempi dedicati ad ogni candidato (che si potrebbero definire fumettistici), e fornendo addirittura dati su una ipotesi di illegalità riguardante la procedura di sorteggio (il che, se confermato, dovrebbe invalidare in toto la ASN), e chiedendo subito venia se magari ripeteremo concetti già espressi, ci sia consentito iniziare con un dato: la commissione ha bocciato candidati con più di dieci libri (noi ne abbiamo presentati tredici, nessuno dei commissari ne ha pubblicati altrettanti, se le informazioni in nostro possesso sono corrette ) e ha promosso candidati senza nessun libro, di cui ben 5 nell’abilitazione a Prima Fascia. Fra i bocciati in prima fila ci sono i contemporaneisti. Del resto, i commissari – tutti di altri SSD, nei quali sono sicuramente figure-chiave – hanno “valutato” candidati di una materia che non insegnano. Chi sono infatti i membri di questa commissione? Simonetta La Barbera, Università di Palermo, L-Art/04, Donata Levi, Università di Udine, L-Art/04, Giuseppe Pavanello, Università di Trieste, L-Art/02, Serena Romano, Università di Losanna, L-Art/01, Alessandro Tomei, Università di Chieti, L-Art-01: nessuno quindi, come si vede, di L-Art/03. Chi scrive ha avuto l’onore di un “giudizio” in cui si riscontrano espressioni come “assonanze soggettive”, il cui fascino misterioso aleggerà a lungo sui destini della storia dell’arte, o “disinvolta superficialità”, che offende uno studioso noto e stimato in campo internazionale da più di trent’anni, ma tant’è. Del resto, i cosiddetti “giudizi” hanno ripetuto in generale la formula in base alla quale il candidato non ha una produzione organica se ha lavorato su molti settori di ricerca o ha una produzione limitata se ha lavorato solo su alcuni temi, oppure ha una produzione localistica se si è occupato principalmente di artisti conterranei: incrociando i “giudizi” si ha però la netta sensazione che cambino di segno a seconda dei casi. Così come per alcuni candidati (non abilitati) si dice che libri recenti sono riedizioni di testi già editi, e per altri (abilitati) lo si tace; oppure per alcuni (non abilitati) si riporta l’età accademica (come a dire: per forza ha prodotto tanto!) e per altri (abilitati) non lo si fa. Al tempo stesso saggi brevi per loro natura come le presentazioni dei cataloghi vengono bollati come “di corto respiro”. E il fatto di dirigere collane editoriali serve a sminuire i libri che in esse il candidato ha pubblicato. Ora, siamo consapevoli del fatto che i “giudizi” hanno il carattere dell’insindacabilità (per cui i ricorsi avviati contro la commissione del settore 10 B/1 fanno leva principalmente su errori materiali e aspetti “legali”) ma è anche vero che i commissari, essendo di altri SSD, non avevano effettivo titolo a giudicare i candidati di L-Art/03, Storia dell’arte contemporanea (alcuni colleghi hanno anche fornito l’informazione – ovviamente da verificare – secondo cui una commissaria di fatto non avrebbe superato la mediana, e dunque non aveva titolo nemmeno a sedere in commissione).
2) Qui veniamo al secondo punto. La legge ha consentito che vi fosse una sperequazione fra i candidati: la maggior parte ha potuto godere del giudizio di commissari dello stesso SSD, ma una minoranza è stata privata di questo diritto. Perché non si è ricusata la composizione della commissione all’indomani del sorteggio? Perché ci si attendeva almeno la correttezza deontologica di una consultazione esterna di competenza specifica (il parere pro veritate) che invece la commissione ha sdegnosamente rifiutato. Per fortuna i giudizi sono pubblici e siccome parlano molto più dei commissari che dei candidati, qualora non bastasse la stima e il riconoscimento che alcuni candidati bocciati godono nel mondo accademico e al di fuori di esso, ognuno ha la possibilità di confrontarli con le opere degli studiosi bocciati o promossi e trarne le debite conclusioni. Ma il problema è a monte: l’art.16 della legge 240/2010 dice infatti che ogni candidato il cui SSD abbia trenta ordinari ha la garanzia che in commissione ci sia almeno un referente del suo SSD: va bene, e gli altri? Ora, L-Art/03 ha 11 ordinari: da qui all’eternità i contemporaneisti saranno discriminati? Del resto, nessuno degli altri SSD del SC 10/B1 ha trenta Ordinari e addirittura L-Art/04 ne ha ancora meno di L-Art/03, ossia 10, eppure in commissione sedevano ben due membri. Se hai impegnato la dote mentale per focalizzare la O di Giotto o la figura di Canova o gli scritti di Cavalcaselle o la scultura palermitana o Arnolfo di Cambio, poi messo davanti a ricerche con orizzonti più ampi e insoliti come il concetto di informe o di sacro o di vuoto nell’arte contemporanea, o a una teoria generale dell’immagine, dici: boh, che diavolerie sono queste? E bolli il candidato come “compilativo” e “superficiale”, bontà tua. Se lo annusi e non senti che fa il tuo odore, lo rifiuti. Però attenzione: l’ “opinione”, che per le magie della legge diventa un giudizio, è ugualmente infondata sia nel caso che risulti negativa, sia nel caso opposto. Probabilmente per evitare l’accusa di avere escluso totalmente i candidati di L-Art/03 la commissione ha abilitato qualche sparuto contemporaneista. Ma se uno fa il calciatore e viene esaminato da due giocatori di cricket, due di pallamano e uno di basket il loro parere è nullo sia che dicano che deve restare in panchina, sia che dicano che è Cristiano Ronaldo. E’ la legge a essere sbagliata, e andrebbe rivista. Ogni SSD ha diritto, come è avvenuto in passato, ad un SC di riferimento e ogni candidato ad avere un referente in commissione, o altrimenti a vedersi almeno riconosciuto come obbligatorio il parere di uno studioso competente in materia (ma non nella formula fin troppo comoda dell’anonimia che ha illuminato brillantemente la VQR, altro gioiello di questa Università sempre più griffata dalle sigle).
3) Ed eccoci alla proposta. Premettiamo che si tratta di un’idea paradossale, e chi scrive è il primo a rendersi conto della sua difficoltà realizzativa, quand’anche fosse condivisa (il che è già abbastanza difficile). Muoviamo comunque dalla presa di coscienza generale, con cui abbiamo iniziato questo intervento, avanzata da illustri colleghi, che il sistema della ASN più chiamata dei Dipartimenti non va bene. Tentando maldestramente di evitare favoritismi in realtà li raddoppia. Il sorteggio non fa altro che dare a cinque commissari la possibilità di svolgere le loro strategie dopo anziché prima (e anche questo è da vedere) e le chiamate dei Dipartimenti (in cui a decidere sono gli stessi membri del Dipartimento) fanno presagire una spietata caccia al voto di scambio fra colleghi. La legge 382/1980 che riordinò la docenza universitaria ha ormai bisogno di essere rivista: la distinzione tra due fasce è infatti del tutto anacronistica e non rispondente alla realtà dei fatti: che cosa significa oggi Professore Associato? Già il termine in sé è superato (personalmente ormai chi scrive, dopo averne viste così tante, si considera Dissociato) anche perché nel frattempo è stata proclamata la figura del Professore Aggregato, ossia del Ricercatore con incarichi d’insegnamento. E questo come termine ha più senso, in quanto effettivamente chi riveste quel ruolo afferisce a una cattedra e lavora con un docente, sia egli Ordinario o Associato. In breve, gli Associati – che a oggi hanno subìto tutte le angherie di leggi fatte a loro dismisura e dissomiglianza – dovrebbero avere la forza di disertare compatti le prossime tornate, non partecipando più all’indegno spettacolo della ASN, e di mettere in questo modo di fatto a esaurimento il ruolo di Ordinario. Potrebbero di conseguenza cambiare il nome (nelle forme che il contesto suggerirà a chi di dovere) in Professori Titolari, e avere a fianco i Professori Aggregati, in attesa che anch’essi possano diventare Titolari. Si dirà: ma come, la “piena maturità scientifica” dove la mettiamo? Obbiezione respinta: solo un ingenuo può ancora pensare che un sistema come quello attuale la garantisca – ammesso e non consesso che abbia un senso -, in quanto la suddetta la raggiungi (sorteggio o no) se hai una commissione che ti garantisca almeno la competenza, altrimenti resterai per sempre immaturo, anche se hai pubblicato più libri di tutti i commissari messi insieme. La maturità scientifica è una sola, e c’è o non c’è: il tagliando lo si è già staccato quando s’è vinto il concorso da professore universitario. Le lezioni di un Associato sono forse meno “mature” di quelle di un Ordinario? Oppure si vuole dare così tanto risalto alle capacità manageriali, facendo sì che siano esse a costituire il vero metro qualitativo, invece della produzione scientifica? Ma in ogni caso questa sembra essere la tendenza: con la penuria di punti organico (concetto vagamente umiliante, tipo “capitale umano”) e la ristrettezza di possibilità per le chiamate di Ordinari, l’Università va verso una naturale eliminazione della Prima Fascia, come si evince già dal tanto declamato Piano Straordinario per Associati. Si tragga allora la logica conseguenza da questa situazione di fatto e si istituisca la docenza unica.
E’ una proposta folle, insensata, irrealizzabile? Forse. Verrebbe a inficiare la piramide gerarchica? Certamente. Ma quale l’alternativa? La marea di ricorsi piombata sulla ASN è infatti un segnale chiaro che ci attende un futuro ancora più incerto di quello che abbiamo vissuto in questi anni di immobilismo.
47. Osservazioni e proposte al Governo da parte della Conferenza per l’Ingegneria
Osservazioni e Proposte CopI al nuovo Ministro_finale
46. Commento ai risultati ASN per il s.c. 08/D1 – progettazione architettonica
Lettera al Ministro – ASN settore concorsuale 08D1-1
45. Lettera al Ministro della CISL-FU
LETTERA AL MINISTRO GIANNINI 3 APRILE 2014
44. Intervento di D. Andreozzi e L. Panariti sulla querelle relativa a Storia Economica.
Il 28 ottobre 2008 compariva sul Corriere della Sera un lungo articolo di Paul Samuelson, premio nobel e fondatore della facoltà di economia al Massachusetts Institute of Technology. Nell’articolo, intitolato “Ecco i sette errori del liberismo”, Samuelson sembra dare corpo quasi a uno sfogo di fronte al “tracollo del capitalismo di Wall Street”, tracollo di cui sembra, assieme al suo sapere, farsi carico in modo assai sofferto. Questo lo porta a ripercorrere a ritroso la sua storia, narrando di quando “brillante studente dell’Università di Chicago” con “insegnanti di economia già di fama mondiale”. Ripensando a quel periodo – si era nel 1932-25 -, l’amara considerazione che quanto scritto “nei libri di testo comandati” non riusciva a dar conto di quanto stava accadendo nell’economia reale attorno a lui, un quanto che poteva cogliere semplicemente allungando “lo sguardo fuori delle aule universitarie”, lo conduce, nel filo del discorso, alla non semplice affermazione che la scienza può anche andare “a ritroso” e addirittura a ipotizzare, per sé e per altri suoi colleghi del MIT e di altre università, “un assai rude trattamento” quando avrebbero incontrato “San Pietro alle porte del Paradiso”. Ovviamente si tratta di un’ipotesi che confiniamo nel campo della retorica, ma che senz’altro da’ conto delle profonde riflessioni che quello studioso, in età oramai avanzata – morirà di li a poco nel dicembre 2009 – si trova a fare nel confrontarsi con la propria storia e il proprio sapere nel contesto della crisi globale. Una assunzione di responsabilità così forte e carica di dignità che non può non sollevare un profondo rispetto e ammirazione. E anche che da conto delle difficoltà vissute in quegli istanti dalle scienze economiche.
Passati i primi momenti di sconcerto, però, e superati gli affanni delle audizioni del Congresso americano e, in Italia, i più deboli e garbati imbarazzi del Festival dell’Economia di Trento nel 2009, quelle hanno ripreso sicurezza. L’incapacità di prevedere e comprendere – se non ex post – la più grande crisi economica globale non sembra, infatti, avere avviato una profonda riflessione sugli eventuali limiti degli strumenti analitici a disposizione dei saperi economici. Ovviamente la realtà è più mossa e variegata di come si possa dar conto in poche righe – come dimostra l’acceso dibattito esistente attorno ai modi di uscita dalla crisi -, tuttavia, abbiamo l’impressione che vi sia la prevalente tendenza a considerare quella mancata previsione, anche quantitativa, come un qualcosa di inevitabile o al più un incidente di percorso.
Non vogliamo con tale affermazioni sostenere qui in nessun modo una ‘inutilità’ delle Scienze economiche, ma solo sottolineare l’importanza di non dare mai per scontati i propri strumenti analitici e la necessità dell’esistenza di una pluralità di punti di vista. Se molti economisti avevano previsto lo scoppio della bolla immobiliare, generalmente erano stati imprecisi nel valutarne ampiezza e conseguenze, arrivando addirittura ha invocarne le implosioni per calmierare il prezzo delle materie prime quali petrolio e cereali, la competizione per i quali rischiava di avviare distruttive “guerre frumentarie”. Invece Immanuel Wallerstain, sociologo molto uso alla pratica della storia, aveva fornito una previsione delle possibili dinamiche dell’economia globale molto più aderenti a quanto effettivamente avvenuto in un libro del 1996 curato con Terence K. Hopkins (The Age of Transiction: Trajectory of the World System, 1945 – 2025), mentre un economista molto prossimo alla Storia economica John K. Galbraith, in un libriccino molto garbato del 2004 (The Economics of the Innocent Fraud) aveva descritto i meccanismi che stavano portando all’esplodere della crisi. Se alla scoppio di questa tutti i giornali hanno richiamato il magistrale libro di Galbraith sulla crisi del ’29 (The Great Crash, 1929, 1954) purtroppo meno eco ha avuto il primo molto più utile a comprendere i fatti più contemporanei.
Facciamo tali osservazioni, ripeto, non per stilare una graduatoria di buoni e cattivi, ma per indicare l’importanza dei punti di vista altri e dell’essere plurale dei saperi. Una indicazione che mi pare assumere rilevanza nelle discussioni che oggi concernono la Storia economica.
Non sappiamo molto della Storia economica. È troppo più grande di noi; così, riecheggiando una cosa detta della microstoria (C Ginzburg, Microstoria. Due o tre cose che so di lei, in “Quaderni storici”, n. 86, pp. 511-539) possiamo limitarci a scrivere quelle due e tre cose che sappiamo di lei. Suoi aspetti centrali sono l’interdisciplinarietà, la capacità di essere crocevia di sapere, la pluralità di temi, strumenti e punti di vista; la sua possibilità di avere sguardi lunghissimi ma pure micro; la sua fluidità che tanto si adatta agli scenari del mondo globale. Così può affrontare le tematiche connesse al territorio, ai sistemi demografici, ai movimenti di uomini e merci, alla produzione vista come processo diffuso nella società, ma anche al sistema di fabbrica, ai commerci e ai sistemi finanziari; non fuggire di fronte allo studio del potere e dei rapporti sociali; immaginare sistemi produttivi regolati da leggi diverse; vedere il mercato come manufatto umano e seguire i mutamenti di moneta e debito; analizzare il lavoro, il contratto, il sistema giuridico ecc. ecc. Potremmo andare avanti ma pensiamo di avere dato un’idea: pluralità di temi, pluralità di strumenti, pluralità di punti di vista. Tutto questo consente, a mio parere, di essere importante per lo studio della complessità che ci circonda e per interpretare i modi della globalizzazione; dà la possibilità di comparazioni sincroniche e diacroniche; allontana il pericolo di interpretazioni uniche e ‘imperialistiche’. E non ci pare che provochi il rischio di mostrarsi indefinita nel momento in centra il suo focus sui modi di appropriazione, produzione e distribuzione delle risorse materiali e immateriali o, ricordando forse impropriamente Carlo Maria Cipolla, gli infiniti modi della trasformazione dell’energia. In questo, avendo come obiettivo l’analisi della qualità che non disdegna mai quella della quantità, può essere quello sguardo gettato fuori dalla finestra ricordato da Paul Samuelson; sguardo che non si oppone, ma dialoga e interagisce con i “libri di testo comandati”.
Ovviamente se questa è per noi la Storia economia, altro è quello che riescono a produrre i suoi interpreti, gli storici in carne ed ossa. E in un momento di estrema difficoltà delle storia e delle storie è quanto mai benvenuto un dibattito sulla sue essenza. Tuttavia non si può non rilevare il fatto che lo scatenarsi di un simile dibattito solo e, soprattutto, in relazione alle vicende concorsuali rende tutto più opaco e vischioso. Anche perché il dibattito sembra addensarsi attorno ai modi della valutazione e alcuni di quelli proposti non mi appaiono plurali e rispettosi della complessità della disciplina, bensì imperialisti e quasi monopolistici.
L’elemento più pericoloso dell’adozione di sistemi di valutazione esterni e formali è il fatto che a essi viene affidato il compito di determinare il futuro culturale della Storia economica, scegliendo cosa è la buona Storia economica e cosa è la cattiva Storia economica e indicandone e modellandone il futuro. Credo che questo sia l’aspetto più importante e più negativo e il segno di maggiore debolezza della comunità degli studiosi. Tale comunità, infatti, deve essere l’unica depositaria di tale potere di giudizio e di indicazione prospettica. La certificazione della qualità della scienza attraverso il controllo costante e reciproco è da sempre compito centrale della comunità degli studiosi. Questo crea una sorta di ‘opinione comune’, di ‘fama’ che fanno sì che l’eventuale azione di referees, esaminatori ecc. in qualche modo debba fare con il sentire diffuso della comunità; altrimenti, per quanto i valutatori siano ‘corretti’, il valutare sarà sempre un atto individuale, soggettivo e in qualche misura arbitrario. Abdicare a tale responsabilità è segno di debolezza, non di forza. Il ricorrere a qualche demiurgo esterno, al di là delle apparenze, non fa che aumentare tale debolezza, sottraendo alla comunità il diritto/dovere di determinare i propri confini e il proprio futuro. Non vi è alcuno ragione che spieghi quali siano i motivi che fanno sì che uno storico indossando un altro cappello (sia quello dell’ANVUR o quello da referee di rivista) diventi capace di fare quello che da storico non sa o non può fare, se non la constatazione che tale capacità derivi dal cappello indossato e non dalla disciplina. Per di più privilegiare gli aspetti formali, invocando il presunto manto dell’oggettività e della scientificità del ‘numero’, la facoltà di giudizio ancora più lontana dalla comunità scientifica consegnandolo ad altri poteri e altre forze. Infatti, come l’economia non è un dato ‘naturale’ le cui leggi possono essere espresse attraverso ‘fisiche’ formule matematiche, bensì un manufatto umano di contesto, così tali valutazioni ‘oggettive’ non possono esprimere la valutazione quale dato ‘naturale’ e, in prospettiva, rischiano di dare la facoltà di controllare i saperi a volontà ad esse esterni (siano poteri politici o economici o gruppi capaci di controllare tali meccanismi) e uniformare il pensiero. Per questo è necessario giudicare le procedure di valutazione in base ai loro aspetti strutturale e agli effetti sistemici.
Tutto questo è frutto delle debolezze accumulate dal mondo accademico italiano negli ultimi decenni, distorsioni di cui nessuno si può sentire non responsabile. Tuttavia la soluzione si trova solamente nel ricostruire un comune senso di appartenenza etica e disciplinare capace di correggere quelle distorsioni e riconoscere le differenze e le pluralità, non nella ricerca di scorciatoie che, anche se lastricate di buone intenzioni, sfruttano le nostre debolezze per portare all’Inferno, conducendo all’indebolimento del sistema universitario e dei saperi. La domanda posta da David S. Landes, se un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto è tanto o poco è sempre ineludibile (La favola del cavallo morto ovvero la rivoluzione industriale rivisitata, 1994).
A volte sapere significa saper prendere posizione
Daniele Andreozzi
Loredana Panariti
43. Lettera al Ministro di ordinari del settore ICAR/18 (Storia dell’architettura) sugli esiti dell’ASN
Al Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca
Onorevole Prof. Stefania Giannini
Piazzale Kennedy 20 – 00144 Roma
e p.c. al Magnifico Rettore Prof. Stefano Paleari
Presidente CRUI
Piazza Rondanini 48 – 00186 Roma
Onorevole Ministro,
I risultati dell’Abilitazione Scientifica Nazionale per il macrosettore concorsuale 08/E2, che accomuna i settori scientifico-disciplinari ICAR 18 (Storia dell’architettura) e ICAR 19 (Restauro), pubblicati in data 17 febbraio 2014, confermano dubbi e perplessità già sollevati in diversi sedi e da altri settori disciplinari; se è vero che tra gli abilitati si trovano numerosi colleghi il cui valore scientifico è indiscutibile, è vero anche che lo stesso può dirsi di molti tra i non abilitati. Certamente i lavori della commissione hanno risentito, oltre che della oggettiva difficoltà del
compito (oltre 500 candidati e circa 6.500 pubblicazioni per 5 commissari), anche dell’unione di due settori profondamente diversi, ICAR 18 e ICAR 19, caratterizzati da competenze specialistiche differenti e non intercambiabili, ma non tutto appare riconducibile a questa specifica contingenza.
Desideriamo sottoporLe alcune riflessioni:
1) Percentuali di abilitati e difformità tra i criteri utilizzati nei diversi settori
Il primo dato quantitativo che emerge dall’esame degli abilitati alla seconda fascia (che prenderemo ad esempio) è la differenza in termini percentuali tra gli abilitati nei vari settori concorsuali 08 affini al 08/E2 (non bibliometrici).
È evidente che le commissioni hanno usato parametri di giudizio non omogenei: maglie larghe, medie, strette e strettissime si sono alternate a dispetto dei tentativi ministeriali di uniformare criteri mediane e parametri. Se poi si restringe il campo e si osservano le percentuali di ricercatori strutturati idonei alla seconda fascia il dato diventa abnorme:
08/F1 (pianificazione e progettazione urbanistica e territoriale) idoneo l’86% dei ricercatori strutturati che hanno presentato domanda
08/C1 (design e progettazione tecnologica dell’architettura) idoneo il 76% dei ricercatori strutturati che hanno presentato domanda
08/E1 (disegno) idoneo il 68% dei ricercatori strutturati che hanno presentato domanda
08/D1 (progettazione architettonica) idoneo il 46% dei ricercatori strutturati che hanno presentato domanda
08/E2 (restauro e storia dell’architettura) idoneo il 44% dei ricercatori strutturati che hanno presentato domanda;se poi scindiamo i settori è idoneo il 42% dei ricercatori strutturati ICAR 18 che hanno presentato domanda e il 47% dei ricercatori strutturati ICAR 19 che hanno presentato domanda.
La differenza percentuale di idonei tra gli strutturati ha un’ampiezza tale (da 42% a 86%) da non poter essere giustificata se non con disomogeneità dei parametri e con il sovvertimento di criteri (come le mediane) indicati dal Ministero.
Lei stessa, Signora Ministro, ha rilevato con efficacia come alcune Commissioni abbiano scambiato il rilascio di una patente con la consegna di una Ferrari. Gli esiti della ASN 08/E2 rientrano pienamente nella seconda ipotesi, come attesta il ricorrente lapsus in cui incorrono i commissari
usando il termine “concorso” o “prova concorsuale”. La Commissione ha valutato sulla base (presunta) del numero di assunzioni disponibili a livello nazionale. Riteniamo questa eventualità di una certa gravità poiché configurerebbe un ruolo profondamente differente per la commissione della ASN che è stata chiamata a individuare gli idonei e non i potenziali vincitori di concorsi che spetta esclusivamente alle singole Università bandire e gestire.
2. Concorso o procedura di abilitazione?
La lettura dei verbali è illuminante. La stesura dei giudizi, secondo quanto attestato dai verbali, è stata quanto meno precipitosa: i calcoli (computati in eccesso) indicano 3 minuti e 55 secondi a candidato e solo 41 secondi tra questi sono stati impegnati nel confronto personale non mediato telematicamente, e al giudizio collettivo. Il dato non richiede commenti. Nelle valutazioni interi campi di studio sono penalizzati: in particolare gli studi sull’architettura contemporanea, sulla storia della città e sul mondo antico. Anche alcune aree geografiche sono state
falcidiate: gli atenei dell’Italia Meridionale e delle Isole, a dispetto di riconoscimenti europei quali ERC ottenuti dai detti atenei e dalle lusinghiere valutazioni VQR, sono stati azzerati. E’ difficile non chiedersi quanto la provenienza geo-accademica dei commissari (3 del Nord, 1 di Roma e un
italiano trasferito in Svizzera da alcuni anni) abbia giocato.
Trasparenza, oggettività, verificabilità erano gli obiettivi del legislatore, che ha predisposto indicatori, parametri, mediane. Pur ritenendo che nessun indicatore numerico possa essere totalmente sostituito dall’intelligenza critica dello studioso tuttavia soglie e griglie di riferimento
possono e devono coadiuvare una corretta interpretazione della procedura abilitativa.
È pertanto molto sconcertante che mai la Commissione 08/E2 abbia fatto riferimento ai parametri forniti dal Ministero, anche per verificarli o contestarli (le famose mediane sono state praticamente ignorate), e non si palesa mai, sottolineiamo mai, una «valutazione analitica».
L’omissione di giudizi oggettivi che valutino i singoli titoli, come richiesto dalla legge, agli occhi della comunità scientifica, oltre che a quelli del candidato, trasforma il giudizio – idoneo non idoneo – in una cieca e iniqua casualità. Il giudizio argomentato su anni (talvolta decenni) di lavoro
è una dovuta assunzione di responsabilità della commissione chiamata a giudicare; un giudizio sommario e superficiale è una rinuncia alla dimensione etica di chi valuta e una poco decorosa mancanza di rispetto per chi è valutato.
Esiti diretti e indiretti della valutazione
Questo infelice esperimento di valutazione ‘globale’ segnerà il destino di numerosissimi corsi di architettura e di ingegneria edile. E’ infatti stata negata l’abilitazione a moltissimi ricercatori che da anni, svolgendo corsi, seguendo tesi di laurea e di dottorato, conducendo studi di rilevanza
nazionale e internazionale, gestendo e coordinando ricerche, partecipando a convegni in Italia e all’estero, hanno consentito all’asmatica macchina accademica di continuare a funzionare con esiti scientifici e didattici apprezzati in tutta Europa. Questa scelta, che spessissimo contraddice i risultati VQR, delegittima, di fatto, almeno un decennio di attività didattica pregressa, fondata su scelte promosse e approvate da Presidi e da Rettori nelle facoltà di architettura e di ingegneriaarchitettura.
Di conseguenza mette a rischio tesi ed esami degli anni passati ed esclude, per decenza!, che i ricercatori giudicati non idonei possano essere incaricati di tenere corsi, esami e quant’altro, mettendo letteralmente in ginocchio i corsi di laurea di cui sopra.
Pertanto l’ipotesi di dare immediatamente seguito a una seconda tornata di procedure pare un perseverare autolesionistico, che la conferma della medesima Commissione non può certo migliorare, a meno di non apportare correttivi coerenti con lo spirito e la lettera della legge
istitutiva.
In conclusione, Onorevole Ministro, Le chiediamo di
– Valutare le criticità evidenziate e di porvi rapidamente rimedio
– Riaprire le iscrizioni alla seconda tornata anche per i non abilitati
– Rinnovare la Commissione con membri sorteggiati ex-novo
– Porre fine con la seconda tornata anche all’ASN come essa è ora.
Cordiali saluti e auguri sinceri
I Professori Ordinari del settore ICAR 18 – Storia dell’Architettura
Marco Rosario Nobile PO Università degli Studi di Palermo; Fulvio Irace PO Politecnico Milano; Claudia Conforti PO Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”; Adriano Ghisetti PO Università degli Studi di Pescara; Aurora Scotti PO Politecnico Milano; Antonella Greco PO Sapienza Università di Roma; Aldo Castellano PO Politecnico di Milano; Fabio Mangone PO Università degli Studi di Napoli Federico II; Concetta Lenza PO Seconda Università degli Studi di Napoli; Guido Zucconi PO Università IUAV di Venezia; Paolo Carpeggiani PO Politecnico Milano
Donata Battilotti PO Università degli Studi di Udine; Giorgio Rocco PO Politecnico di Bari; Rosa Tamborrino PO Politecnico di Torino; Federico Bellini PO Università degli Studi di Camerino; Alessandro de Magistris PO Politecnico di Milano; Giovanni Leoni PO Università degli Studi di
Bologna; Ezio Godoli PO Università degli Studi di Firenze; Giorgio Muratore PO Sapienza Università di Roma; Alessandro Viscogliosi PO Sapienza Università di Roma; Piergiacomo Bucciarelli PO Università degli Studi di Pescara; Vilma Fasoli PO Politecnico di Torino; Maria Antonietta Crippa PO Politecnico di Milano; Marco De Michelis PO Università IUAV di Venezia; Maria Grazia Sandri PO Politecnico di Milano
*Ifirmatari sono 25 dei 49 Professori Ordinari del settore ICAR 18 (51%)
Professori ordinari emeriti o a riposo:
Donatella Calabi Università IUAV di Venezia; Augusto Rossari Politecnico di Milano; Renato De Fusco PE Università degli Studi di Napoli
Federico II; Maria Luisa Scalvini Università degli Studi di Napoli Federico II; Giuliana Ricci Politecnico di Milano; Maria Luisa Neri Università degli Studi di Camerino; Maria Giuffrè Università degli Studi di Palermo; Sandro Bendetti PE Sapienza Università di Roma; Aldo Casamento Università degli Studi di Palermo; Luciano Patetta PE Politecnico di Milano.
Dopo l’invio della lettera al Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, Onorevole Prof. Stefania Giannini, e al Magnifico Rettore Prof. Stefano Paleari, Presidente CRUI sono giunte le seguenti adesioni;
Richard Schofield PO Università IUAV di Venezia; Vincenzo Cazzato PO Università del Salento.
I firmatari della lettera sono adesso 27 dei 49 Professori Ordinari in servizio del settore ICAR 18 (55 %)
Professori ordinari emeriti o a riposo:
Marcello Fagiolo Sapienza Università di Roma; Maria Luisa Madonna Università degli Studi di Siena; Tommaso Scalesse Università degli Studi G. D’Annunzio, Chieti Pescara.
42. Lettera del prof. C. Balduini, Presidente della Società Italiana di Biochimica e Biologia Molecolare, a proposito della mancata pubblicazione degli esiti ASN del s.c. 05/E1.
Pavia 3 Aprile 2014
Chiar.mo Prof. Stefania Giannini
Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
Oggetto: Ritardo nella pubblicazione dei risultati della Abilitazione Scientifica Nazionale nel settore concorsuale 05/E1
Ill.mo Signor Ministro,
Le scrivo in qualità di Presidente della Società Italiana di Biochimica e Biologia Molecolare (SIB), Società scientifica che rappresenta circa 1400 soci prevalentemente di estrazione universitaria e in larga parte giovani ricercatori dei settori scientifico disciplinari BIO/10 e BIO/12.
Avendo preso visione della lettera inviataLe il giorno 31 marzo 2014 dal prof. Raffaele Porta, Coordinatore Nazionale del Collegio dei professori ordinari BIO/10, a proposito del ritardo nella pubblicazione dei risultati dell’abilitazione scientifica nazionale nel settore 05/E1, Le segnalo che, nella stessa giornata, anche l’Assemblea della Società Italiana di Biochimica e Biologia Molecolare (SIB) ha discusso il tema di cui all’oggetto ed ha condiviso le preoccupazioni relative alla ingiusta penalizzazione che colpirebbe i candidati al concorso 05/E1 se il ritardo nella pubblicazione degli atti si protraesse ulteriormente. In tale ottica la SIB, anche alla luce della notizia ufficiale apparsa nel sito ASN che informa del fatto che per il concorso 05/E1 è stato richiesto dal Ministero il parere della Avvocatura di Stato, ritiene essenziale che il Ministro proroghi i termini per l’utilizzo delle risorse per il reclutamento di personale docente. In tal modo verrebbe rimossa per i Rettori una scadenza ormai molto imminente e si consentirebbe anche ai candidati BIO/10 e BIO/12 di partecipare alle procedure di selezione al pari dei loro colleghi universitari di altri settori.
L’assemblea SIB, richiamandosi alla propria specifica natura di Società scientifica, sottolinea la grave penalizzazione che la ricerca scientifica in campo biochimico e biochimico clinico subirebbe se venisse a mancare l’immissione di giovani meritevoli nei ruoli universitari di competenza biochimica Verrebbe colpito un settore senza dubbio competitivo a livello internazionale e inserito in molte linee di ricerca di avanguardia.
La SIB infine con forza evidenzia che sarebbe un grave errore se i candidati a questo concorso di abilitazione scientifica venissero penalizzati per motivi di cui non hanno alcuna responsabilità.
Nella certezza dell’attenzione che Lei vorrà dare ai problemi segnalati invio i miei più cordiali saluti.
Prof. Cesare Balduini
Presidente della Società Italiana di Biochimica e Biologia Molecolare
41. Lettera del prof. R. Porta, coordinatore nazionale del collegio degli ordinari per BIO/10 sulla mancata pubblicazione degli esiti ASN del s.c. 05/E1.
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Al Ministro del’Istruzione, Università e Ricerca
e p.c.
al Presidente della CRUI
ai Rettori delle Università
al Presidente del CUN
al Presidente della Commissione ASN del settore 05/E1
Oggetto: mancata pubblicizzazione risultati dell’Abilitazione Scientifica Nazionale del settore concorsuale 05/E1. Richiesta di un urgente intervento.
Napoli, 31.3.2014
Ill.mo Sig. Ministro,
Le scrivo su mandato del Collegio dei proff. ordinari del SSD Bio/10, riunitisi a Parma in una partecipata assemblea il giorno 28 marzo u.s. per analizzare la grave situazione in cui l’intera comunità dei biochimici si è venuta a trovare a seguito della finora mancata pubblicizzazione degli atti della Commissione di Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN) riguardante il settore concorsuale 05/E1 (SSD Bio/10 e SSD Bio/12).
Sono passati infatti, ill.mo Ministro, oltre quattro mesi dal momento in cui la suddetta Commissione ha consegnato gli atti al Ministero e, purtroppo, al momento tali atti non sono stati ancora resi pubblici a differenza di quelli della quasi totalità delle restanti Commissioni.
Lei più di altri Sig. Ministro, provenendo dal mondo universitario, può comprendere il grande disagio e la forte preoccupazione dell’intera comunità dei biochimici italiani la quale, chiamata dagli organi di governo dei singoli Atenei (Rettori, Consigli di Amministrazione, Dipartimenti) a partecipare ad una programmazione in massima parte condizionata dalla conoscenza dei risultati delle ASN, è nella pratica impossibilitata a farlo in assenza della pubblicizzazione dei risultati che riguardano il proprio settore. Eppure era stato dichiarato in precedenza che i risultati delle ASN sarebbero stati resi noti “tutti contestualmente”!
E più di altri, Sig. Ministro, Lei può comprendere lo stato di frustrazione di tanti giovani e meno giovani ricercatori e docenti che, candidatisi per vedere giudicato il loro lavoro di anni, sono costretti a restare in attesa rischiando, senza avere alcuna responsabilità, di essere “illegittimamente discriminati” rispetto a tutti gli altri candidati abilitati in altre sessioni di ASN, i cui risultati sono stati resi pubblici da tempo e per i quali le Università stanno programmando occasioni di reclutamento o progressione di carriera.
Le ricordo, ill.mo Sig. Ministro, che già nelle settimane passate ho avuto modo di segnalare -a Lei come agli altri destinatari p.c. della presente- la nostra forte preoccupazione per quanto precedentemente descritto. Una delegazione del nostro Collegio è stata anche ricevuta al Ministero dal Capo Dipartimento prof. Marco Mancini il giorno 20 marzo u.s., ricevendo assicurazioni di un sollecito interessamento in merito. Ma, purtroppo, siamo costretti a prendere atto che nulla di nuovo è ancora accaduto e che, anzi, preoccupanti sospetti circa le motivazioni alla base della mancata ratifica e pubblicizzazione degli atti della Commissione 05/E1 iniziano a circolare con sempre maggiore insistenza. Attendibili fonti, infatti, affermano che la Commissione designata dal MIUR sia macchiata da un vizio di illegittimità, in quanto uno dei suoi componenti pare essere stato inserito nella lista dei sorteggiabili senza essere in possesso dei requisiti previsti dalla normativa vigente.
Le chiediamo pertanto, Sig. Ministro, in quanto massimo responsabile e garante della correttezza delle procedure relative al reclutamento e progressione di carriera del personale delle Università del nostro Paese, un Suo immediato autorevole intervento che:
a) metta fine alla ridda di voci e sospetti che rischiano di avvelenare il clima e i rapporti all’interno dei nostri Atenei;
b) permetta di fare finalmente chiarezza sullo stato reale della situazione dell’ASN relativa al settore 05/E1;
c) consenta agli oltre mille candidati interessati di non venire discriminati ed essere invece posti nelle stesse condizioni nelle quali si trovano tutti gli altri candidati alle ASN degli altri settori concorsuali.
In tale contesto, il nostro Collegio auspica che:
a) quanto richiesto dalla Conferenza dei Rettori al punto 7 del documento approvato nella seduta CRUI del 20.3.14 sia da Lei condiviso e che possa vedere una sua sollecita concretizzazione in uno slittamento dei termini di utilizzo delle risorse attualmente previsti per il 31.10.14, quantomeno per quanto concerne le risorse che gli Atenei intendono destinare ai SSD Bio/10 e Bio/12 ed agli altri SSD di cui ancora non sono noti i risultati della ASN;
b) i singoli Atenei si astengano dalla pubblicazione dei bandi di concorso per posti di proff. associato ed ordinario prima che i risultati di tutte le ASN vengano resi noti, in modo da poter effettuare una reale programmazione avendo a disposizione i risultati di tutte le ASN e per evitare illegittime discriminazioni nei confronti di una parte degli aspiranti che potrebbero portare a giustificati ricorsi.
Il nostro Collegio, consapevole delle proprie specifiche responsabilità di dover salvaguardare gli interessi della comunità scientifica che rappresenta, dichiarandosi disponibile alla più ampia collaborazione, confida fortemente che il Ministero di cui Ella e’ responsabile ponga termine nelle prossime ore all’incresciosa situazione creatasi, in modo da prevenire inevitabili e giustificate future iniziative da parte dei soggetti danneggiati ai quali, in tal caso, il nostro Collegio non potrebbe far mancare un doveroso sostegno.
In attesa di un sollecito riscontro alla presente, colgo l’occasione per inviarLe i miei più cordiali saluti.
Prof. Raffaele Porta
Coordinatore Nazionale del Collegio proff. ordinari SSD Bio/10
email: raffaele.porta@unina.it
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40. Documento AIP sugli esiti della prima tornata dell’ASN
AIP
39. Lettera al Ministro sull’ASN del settore 08/E2
Alla Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca,
On. Stefania Giannini
Piazzale Kennedy 20 – 00144 Roma
e, per conoscenza,
al Presidente dell’ANVUR,
Prof. Stefano Fantoni
Piazzale Kennedy, 20 – 00144 Roma
Oggetto: Abilitazione Scientifica Nazionale 2012, Commissione di Restauro e Storia dell’Architettura (08/E2)
Onorevole Ministro,
dopo anni di attività didattica, ricerca e gestione svolte all’interno dell’Università italiana, dopo le scarsissime opportunità offerteci dai concorsi con valutazioni comparative banditi, come sa, l’ultima volta nel 2008, ci siamo iscritti alla procedura dell’ASN con l’idea di ottenere ciò che lei ha giustamente definito “una patente”, ben consapevoli che l’eventuale ingresso nella fascia dei Professori Associati, così come in quella dei Professori Ordinari sarebbe stato il passo successivo, come previsto per legge.
I risultati per il nostro settore, 08/E2 – Restauro e Storia dell’Architettura–rivelano però che qualcosa non ha funzionato: la percentuale di abilitati alla II fascia è pari al 24,6%, mentre alla I fascia è del 32,8% a fronte di altri settori che hanno avuto percentuali di abilitati anche superiori all’80%. Tale circostanza non può che fare nascere legittime domande sulle modalità e sui parametri di valutazione con i quali la Commissione ha inteso svolgere i propri lavori. Se vi fossero dubbi a tale riguardo, basterebbe leggere, piuttosto a caso, alcuni giudizi di abilitati, come di non abilitati per riscontrare l’uso dei termini quali “concorso”, “presente prova concorsuale”, ecc. per indicare la procedura di Abilitazione Scientifica Nazionale in oggetto.
Nella nostra procedura di abilitazione, così come in altre, a fronte di un numero elevato di candidati, la Commissione, come si deduce dai verbali, ha dedicato davvero poco tempo per svolgere in scienza e coscienza un così gravoso e importante lavoro: solo alcuni minuti per ciascun candidato. Il risultato sono giudizi che in nessun modo rendono giustizia del nostro lavoro e dell’impegno che negli anni abbiamo profuso per il bene dell’Università e che sono testimoniati non solo dal riconoscimento che abbiamo ottenuto in dimostrabili giudizi espressi sul nostro conto dalla nostra comunità scientifica in molte occasioni (dalla Valutazione della Qualità della Ricerca alle procedure concorsuali), ma anche dall’apprezzamento che i nostri Atenei hanno sempre dimostrato ad esempio ai Ricercatori e ai Docenti a contratto, conferendo loro per molti anni compiti di titolarità didattica financo di terzo livello, consentendo loro di svolgere, in qualità di relatori, Tesi di Laurea e Tesi di Dottorato di Ricerca.
A questi primi argomenti si lega un’altra considerazione: se le mediane, così come i criteri aggiunti dalla Commissione, avessero avuto il compito di definire una soglia da superare uguale per tutti ci si sarebbe aspettato, nelle basse percentuali di abilitati già richiamate, di ritrovare esclusivamente i candidati che, in base al curriculum e alla produzione scientifica, fossero almeno al di sopra delle mediane richieste per accedere alla stessa abilitazione. Ci si chiede allora come sia stato possibile che il settore 08/E2 – Restauro e Storia dell’Architettura – abbia abilitato, sia in I sia in II fascia, una frazione non trascurabile di candidati, pari a circa il 24%, che non supera nessuna mediana o una sola mediana, in questo distinguendosi nell’ambito dello stesso settore 08, generalmente più attento nel concedere l’abilitazione a candidati con produzioni più consistenti. Per contro, circa il 20% dei non abilitati alla II fascia e circa il 24% dei non abilitati alla I fascia supera tutte e tre le mediane delle rispettive fasce, quando non anche, nel caso dei candidati alla II fascia, quelle della fascia superiore.
Per altro, è da sottolineare che, dando per scontato che compito della Commissione è di abilitare i candidati considerati migliori, non dovrebbero esistere limiti al numero stesso degli abilitati. Per come l’ASN è stata concepita, non è infatti previsto in alcun modo un tetto al numero degli abilitati che, al limite, avrebbe potuto anche essere il 100% dei candidati. È evidente invece che l’ASN – e questo emerge in quasi tutte le discussioni post-pubblicazione degli esiti – è stata condotta come un normale concorso a valutazione comparativa.
Entrando più nel dettaglio nei criteri di giudizio, si evidenzia che le mediane non vengono mai citate né nei giudizi individuali dei singoli commissari, né nei giudizi collettivi, sebbene nel primo verbale non venga in alcun modo motivata, come richiesto dal DM 07.06.2012, la deroga dal loro utilizzo. Analogamente carente o totalmente assente nei verbali risulta l’applicazione dei parametri di valutazione dei candidati che la stessa Commissione ha individuato, nel rispetto del D.M. n. 76 del 2012, ivi compresi quelli specificamente introdotti con il primo verbale all’atto dell’insediamento. Tali ulteriori criteri (attività didattica, partecipazione a convegni, mostre e seminari, partecipazione a progetti di ricerca) risultano di fatto inapplicati in sede di valutazione ed utilizzati solo nella sintetica descrizione del profilo dei candidati – quasi fossero un mero e vago prerequisito – di fatto equiparando anni di ricerca e di insegnamento a più episodici impegni in attività didattica e di collaborazione universitaria.
Altro elemento di perplessità nasce dalla lettura dei giudizi dei singoli candidati. Si rilevano infatti contraddizioni interne, disparità, squilibri, mancanza di omogeneità nelle valutazioni che, di volta in volta, privilegiano oppure omettono uno stesso elemento. La stessa formulazione appare vaga ed incerta: giudizi che sembrano nel complesso positivi, si concludono con una lapidaria stroncatura che non discende in alcun modo da quanto precedentemente esposto; in altri casi, i giudizi individuali non esprimono in maniera esplicita pareri nettamente favorevoli o contrari al conseguimento dell’abilitazione.
Le inesattezze nei giudizi espressi dai singoli commissari circa le nostre pubblicazioni, poi, non fanno che confermarci nell’idea che i lavori siano stati condotti in modo affrettato e non certo adeguato all’alto compito che lo Stato Italiano e il Ministero avevano affidato alla Commissione, nella sua natura giuridica di organo collegiale.
Sempre dalla lettura dei verbali, si riscontra anche un clima che potremmo eufemisticamente definire di incomprensione tra i commissari, dal momento che per ben due volte quattro membri sono stati costretti ad annullare i verbali per l’impossibilità di raggiungere il quinto commissario, con indubbia perdita di tempo, ma soprattutto con evidenti distorsioni procedurali nello svolgimento dei lavori. L’esito è espresso, come abbiamo già rilevato, da giudizi singoli e stringatissimi, spesso ambigui, elaborati molto probabilmente in sede separata, sostenuti da opinioni scollegate da oggettivi parametri e rapidamente rivolte alla stesura di esiti palesemente carenti proprio sul piano di quel principio di collegialità che avrebbe dovuto sostenere il lavoro di una Commissione che possa legittimamente definirsi tale.
Questa prima tornata dell’Abilitazione Scientifica Nazionale non è stata quindi il processo virtuoso che si auspicava. Ha avuto piuttosto, nel suo complesso, l’effetto di riprodurre su scala nazionale, con tutte le conseguenti distorsioni, gli effetti di quei localismi a cui l’intera procedura dell’ASN voleva porre rimedio, trascurando gli interessi complessivi del settore concorsuale e del suo assetto futuro, nonché una più ampia visione culturale, nel rispetto e nella valorizzazione di complessità e articolazioni disciplinari e contributi innovativi.
Evidenziamo che, così come ideata, la procedura per l’ASN assegna ai commissari, rispetto alle legittime aspirazioni di centinaia di candidati, uno straordinario potere di veto esercitabile da parte anche solo di due di essi: ciò si presta, in termini astratti, all’ostracismo sistematico verso intere scuole, o verso singole sedi universitarie.
La questione appare particolarmente rilevante quando le Commissioni, come quella 08/E2, siano espressione di macro-settori resi “ibridi” per effetto della decisione – criticabile ancor più oggi, alla luce dei fatti di cui parliamo – dell’accorpamento di settori forzosamente definiti “affini”: il veto potrebbe essere esercitato, sempre in termini astratti, da un settore nei confronti di un altro.
Nel caso in ispecie, si registra che ben 13 candidati all’abilitazione per professore di II fascia e 11 candidati a quella per professore di I fascia sono stati dichiarati non abilitati con voti contrari di soli professori del settore affine rispetto al loro.
Per l’evidenza dei fatti che le abbiamo elencato, certi dell’importanza del contributo che tutti noi diamo ogni giorno con il nostro lavoro e la nostra dedizione all’Università e alla Ricerca nel nostro Paese, dal momento che non possiamo, né vogliamo abdicare ai nostri compiti didattici ed istituzionali per dedicarci a tempo pieno alla salvaguardia della nostra dignità di studiosi messa fortemente in crisi da giudizi sommari, le chiediamo di intervenire al più presto per restituirci, come lei stessa ha detto, i diritti strappati.
Fiduciosi nella sua attenzione di Ministro oltre che nella sua competenza in materia universitaria in quanto ricercatore e Rettore, le porgiamo i nostri più cordiali saluti.
Antonello Alici (Ancona), Federica Angelucci (Roma), Anna Anzani (Milano), Chiara Baglione (Enna), Paola Barbera (Catania), Calogero Bellanca (Roma), Gemma Belli (Napoli), Simona Benedetti (Roma), Michela Benente (Torino), Maria Beatrice Bettazzi (Bologna), Bruno Billeci (Sassari), Paolo Bossi (Milano), Marco Cadinu (Cagliari), Gaia Caramellino (Torino), Christian Campanella (Milano), Maria Vittoria Capitanucci (Milano), Giuliana Cardani (Milano), Alessandro Castagnaro (Napoli), Giovanni Castiglioni (Milano), Giulia Ceriani Sebregondi (Roma), Leyla Ciagà (Milano), Ornella Cirillo (Napoli), Teresa Colletta (Napoli), Michela Comba (Torino), Annalisa Dameri (Torino), Giovanna D’Amia (Milano), Carolina De Falco (Napoli), Elena Dellapiana (Torino), Filippo De Pieri (Torino), Gerardo Doti (Camerino), Roberto Dulio (Milano), Valeria Farinati (ricercatore italiano all’estero), Flavia Festuccia (Roma), Marco Folin (Genova), Claudio Galli (Bologna), Emanuela Garofalo (Palermo), Rosa Anna Genovese (Napoli), Milva Giacomelli (Firenze), Monica Livadiotti (Bari), Maria Cristina Loi (Milano), Andrea Maglio (Napoli), Carmelo Malacrino (Reggio Calabria), Alessandra Maniaci (Reggio Calabria), Giacomo Martines (Bari), Oliva Muratore (Roma), Chiara Occelli (Torino), Giorgio Ortolani (Roma), Roberto Parsi (Molise), Stefano Piazza (Palermo), Stefania Portoghesi Tuzi (Roma), Attilio Pracchi (Milano), Giuseppina Pugliano (Napoli), Paola Raggi (Senigallia), Sandro Ranellucci (Chieti), Maria Richiello (Roma), Sebastiano Roberto (Siena), Michela Rosso (Torino), Antonella Saisi (Milano), Simona Maria Carmela Salvo (Roma), Nicola Santopuoli (Roma), Massimiliano Savorra (Molise), Fulvia Scaduto (Palermo), Maria Margarita Segarra Lagunes (Roma), Lucia Serafini (Chieti), Elena Svalduz (Padova), Simona Talenti (Salerno), Guglielmo Villa (Roma), Marcello Villani (Chieti), Maria Rosaria Vitale (Catania), Paolo Vitti (Roma), Mauro Volpiano (Torino), Laura Zanini (Cagliari).
38. Risposta di Franco Amatori a Douglass North e agli storici economici intervenuti sull’ASN di storia economica
EconomicHistoryItaly2014
37. Dodici storici economici stranieri intervengono sugli esiti dell’ASN di storia economica
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36. L’abilitazione scientifica nazionale per il settore del Diritto del Lavoro
1. La pubblicazione (agli inizi di febbraio) degli esiti della procedura di abilitazione scientifica nazionale per il s.s.d. Diritto del Lavoro ha innescato un ampio dibattito, solo in minima parte reso pubblico, in ordine a) all’interpretazione in sé della procedura di abilitazione da parte della Commissione, b) all’individuazione degli abilitati ma soprattutto dei non abilitati, c) infine, alla non adeguata considerazione delle esigenze generali della materia, che rischia così di risultare compressa rispetto ad altre discipline.
E’ inevitabile che in proposito le opinioni possano essere le più diverse. Ma non è chiaramente questo il problema.
Ed infatti, al di là di ogni personale aspettativa (soddisfatta o meno) rispetto ai risultati della prima tornata oppure anche coltivata in ordine all’attivata seconda tornata di abilitazione, il primario interesse in relazione al quale non si può non convenire è quello di un’adeguata selezione, razionale e verificabile, dei nuovi accessi ai ruoli di professore ordinario e di professore associato della nostra materia, in conformità alla normativa vigente.
E’ allora da tale angolazione, al netto di singole situazioni o casi particolari (siano essi di esclusioni reputate ingenerose, od anche, per converso, di abilitazioni benevole, ai quali peraltro in questa sede non ci si vuole riferire), che va vagliato l’operato della commissione sulla base degli elementi di riscontro desumibili dagli atti della stessa procedura di abilitazione. Atti sui quali viene qui fermata l’attenzione in relazione prevalente alle abilitazioni di seconda fascia, ma, a parte alcune peculiarità, con possibile ragionevole estensione alle abilitazioni di prima fascia.
Beninteso, questa presa di posizione è dettata da una seria preoccupazione per i destini della materia e mira alla ricostituzione di un clima funzionale ad un sereno confronto fra tutti senza preclusioni di sorta.
2. Non esplicitazione, irrazionalità e difformità dalla normativa vigente dei criteri e parametri di svolgimento della procedura di abilitazione.
Dato eclatante che subito balza agli occhi è l’oggettiva inintelligibilità e, comunque, essenziale irrazionalità delle modalità e dei criteri di svolgimento della procedura di abilitazione.
Per quanto si desume dai medesimi atti concorsuali, a risultare in larga parte omessa dalla Commissione è stata, infatti, la stessa chiara esplicitazione ex ante dei criteri di riconoscimento dell’abilitazione, cosicché ne è scaturita una valutazione dei candidati secondo parametri di giudizio nemmeno preventivamente enunciati, non spiegati e, come tali, ovviamente, in nessun modo attendibilmente verificabili.
La mancata definizione puntuale in via preventiva dei termini di svolgimento del suo agire ha consentito alla Commissione di operare secondo criteri e parametri essenzialmente illogici ed irrazionali, nonché comunque non conformi alla normativa vigente in materia (spec., d.m. n. 76/2012).
3. La valutazione dei candidati sulla base di una scala di punteggio da 1 a 100.
Di intrinseca opinabilità già in sé è, anzitutto, il modus operandi della Commissione mediante l’adozione di una scala di punteggio da 1 a 100; opinabilità rafforzata dalla circostanza, che, a parte il solo Diritto del Lavoro, un simile modus non risulta essere stato utilizzato per le procedure di abilitazione di altri settori concorsuali.
E’ presumibile che per questa via si ambisse ad avere un’attendibile valutazione analitica dei candidati, ma, se anche questo fosse l’obiettivo, esso è rimasto completamente disatteso nella realtà, alla luce di come il sistema “a punti” -insufficientemente predefinito- è stato applicato in concreto dalla Commissione, con conseguenti palesi incongruenze e sostanziali ingiustizie.
Sono rimasti non esplicitati e, comunque, non spiegati dalla Commissione, in specie, i termini concreti e, prima ancora, le “motivazioni” della suddivisione dei 100 punti totali nei diversi ambiti-frazioni tra i quali si assume essere ripartita la valutazione (spec., nell’ordine: pubblicazioni, parametri –dei quali fin da ora si evidenzia la oscurità e sostanziale arbitrarietà-, titoli, titoli addizionali), del peso-punteggio assegnato a ciascuno di tali ambiti-frazioni (sia in sé sia nelle sue singole parti-componenti: ad es., per quanto concerne le pubblicazioni, le monografie e gli articoli e/o saggi), così come degli stessi criteri di assegnazione concreta dei punti-voti in relazione alle varie voci-elementi di calcolo.
Ma a rivelarsi essenzialmente incongrua è, al contempo, la stessa determinazione in proposito della soglia di accesso all’abilitazione di prima e seconda fascia in 80/100 punti, e dunque in correlazione al conseguimento di un asserito livello di giudizio “buono” pieno, nonché così allora reputando “insufficienti” sempre a tal fine -come si desume dalle schede e dai giudizi individuali e collegiali dei candidati da parte della Commissione- un livello di giudizio “accettabile” e, in alcuni casi, persino di “più che accettabile” e/o “tra accettabile e buono”.
Palese è in questo modo, infatti, la distonia con le disposizioni di cui al d.m. 76/2012, con la reale “natura” della procedura di abilitazione, oltreché, prima ancora, con la stessa lingua italiana, per di più non senza pure un difetto tangibile di motivazione da parte della Commissione (cfr. verbale n. 2).
Non può farsi a meno di rimarcare che “accettabile” è, per sua definizione, “ciò che si può accettare”, che è “decente”, “passabile”, “adeguato” e, comunque, “sufficiente”.
Sicché in proposito la Commissione avrebbe allora se non altro dovuto spiegare perché mai ha invece ritenuto di assumere quale sinonimo di “insufficiente” (ai fini dell’abilitazione) non soltanto un giudizio “accettabile”, ma anche “più che accettabile” e/o “tra accettabile e buono”, oltreché le ragioni e la razionalità dell’adozione di un simile parametro di valutazione.
Soprattutto dal momento che non appaiono in nessun modo equivocabili i dettami al riguardo del d.m. 76/2012: nel senso della previsione esplicita, tra l’altro, che <<le pubblicazioni di livello accettabile sono quelle a diffusione internazionale o nazionale che hanno accresciuto in qualche misura il patrimonio delle conoscenze nei settori di pertinenza>> e, in riferimento alla seconda fascia, che <<la valutazione dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche è volta ad accertare la maturità scientifica dei candidati, intesa come il riconoscimento di un positivo livello della qualità e originalità dei risultati raggiunti nelle ricerche affrontate e tale da conferire una posizione riconosciuta nel panorama almeno nazionale della ricerca>>.
Onde l’entità senz’altro eccessiva della soglia di accesso all’abilitazione così come stabilita dalla Commissione, nell’ordine, si ripete, di 80/100 punti e di un livello di giudizio “buono” pieno: già in sé, e dunque al di là delle incongruenze che comunque si registrano in ordine alla stessa sua determinazione concreta ed ai criteri di attribuzione dei punteggi.
Come già messo bene in evidenza dai pertinenti rilievi mossi in talune “lettere aperte”, si è di fronte ad un’interpretazione incongrua da parte della Commissione della procedura di abilitazione e, segnatamente, di una sua impropria trasformazione in procedura concorsuale comparativa in difformità dalla normativa vigente (cfr. Paolo Tosi e già Gianni Loy).
4. La valutazione delle monografie.
Largamente inadeguato per difetto è, in ogni caso, ai fini del giudizio di idoneità, il rilievo attribuito dalla Commissione alle monografie.
Vale a dire, per l’abilitazione della seconda fascia, soli 20 punti al massimo su 100 nell’ambito della suddetta scala di punteggio (cfr. verbale n. 2), e, quindi, il peso del tutto marginale di un mero quinto della valutazione complessiva, oltreché, al contempo, anche addirittura soltanto di poco più di un terzo rispetto alle pubblicazioni minori (id est, articoli e saggi), cui è difatti conferito, invece, un oltremodo più rilevante peso di ben 55 punti sui 100 complessivi (spec., punti 40/100 in via diretta, oltreché altri 15/100 punti in base al comunque “oscuro” criterio-parametro della pluralità delle pubblicazioni, evidentemente non inerente alla produzione monografica che per definizione verte su di un tema specifico: su cui v. anche amplius infra).
Mentre per l’abilitazione della prima fascia il punteggio massimo stabilito per le monografie dalla Commissione è, invece, 25 punti: comunque inadeguato, ma che, in quanto tale, anche in mancanza di motivazione di una tale diversità da parte della Commissione, dimostra vieppiù l’incongruenza dei soli 20 punti al massimo previsti per l’abilitazione della seconda fascia.
Una simile inopinata svalutazione radicale del peso della produzione monografica si rivela quantomai impropria anche perché prefigurata in sorprendente ribaltamento irrazionale della regola ultraconsolidata per la quale è in massima parte proprio in base alla qualità delle monografie che si è notoriamente proceduto da sempre alla selezione degli accessi alla prima ed alla seconda fascia nel Diritto del lavoro, così come del resto per tutte le altre materie giuridiche, oltreché, peraltro, pure in contraddizione manifesta con quanto dichiarato dalla stessa Commissione, in particolare assumendo che <<alla valutazione del lavoro monografico sarà attribuito un peso maggiore rispetto a quello di altre tipologie di prodotto scientifico>> (cfr. verbale n. 2) e, dunque, anche in questo senso irrazionalmente e con difetto evidente di motivazione.
Ma non solo.
Sempre per le monografie si registra un inspiegabile innalzamento degli standard-punteggi di giudizio: per le abilitazioni della seconda fascia, addirittura con l’elevazione dello standard di giudizio “buono” a 18/20 punti, a 14/20 per “accettabile”, mentre “limitato” è determinato in 6/20 ed eccellente in 20/20 (id est, rispettivamente, 9/10, 7/10, 3/10 e 10/10). Ciò come si desume solo dalle schede di valutazione-giudizi individuali dei singoli Commissari, nonché, sempre senza alcuna motivazione, in contraddittoria diversità rispetto agli 80/100 punti (id est, 8/10) cui si è detto essere riportato dalla Commissione lo standard di giudizio “buono” (cfr. ancora verbale n. 2).
E tanto, valga qui rimarcare, con il caso indubbiamente paradossale di diversi candidati “non abilitati” pur al cospetto di un punteggio per le monografie di punti 18/20 (id est, 9/10) e, dunque, di un giudizio “buono-eccellente” ai sensi dello stesso verbale n. 2.
Ancora, ad aversi è, comunque, anche un visibile livellamento generale verso l’alto delle valutazioni dei prodotti monografici: peraltro con l’attribuzione di 16 e 18 punti e riconoscimento di originalità a molte monografie anche di “non abilitati”, nonché soli rarissimi casi di prodotti valutati 20 punti (detto per inciso, alcuni anche sorprendenti -almeno in correlazione alla valutazione inferiore di altri prodotti obiettivamente almeno equivalenti- per candidati che a volte, guarda caso, anche solo così sono riusciti a varcare la fatidica soglia degli 80 punti per pochi centesimi). Livellamento generale verso l’alto che, come tale, ha chiaramente importato nei fatti la svalutazione ancora maggiore del peso del giudizio sulle monografie rispetto al punteggio finale.
Non senza l’ulteriore incongruenza che, pur al cospetto della previsione che la ricorrenza di <<procedure di referaggio o revisione tra pari … potrà essere considerato favorevolmente ove presente>> (così verbale n. 2), nessun rilievo pare incomprensibilmente essere stato poi attribuito, in concreto, ad un tale elemento in sede di valutazione dei prodotti monografici, ancora senza alcuna motivazione: nulla essendo infatti minimamente esposto in proposito nei giudizi agli atti.
Sempre per le monografie, infine, v’è stata anche un’irrazionale penalizzazione per i candidati più produttivi: in particolare, in forza della determinazione del punteggio relativo appunto alle monografie in ragione della media dei punti assegnati a ciascun prodotto, con conseguente punteggio “medio” più basso nel caso di un secondo prodotto di livello inferiore, nonché relativo vantaggio per chi ha invece presentato un solo prodotto (es.: Candidato A, con pubblicazione monografica “a” valutata punti 17 e pubblicazione monografica “b” valutata punti 13 = punteggio complessivo monografie 15; Candidato B con un’unica pubblicazione monografica valutata punti 17, e privo di una seconda monografia = punteggio complessivo monografie 17).
5. La valutazione delle pubblicazioni non monografiche cd. “minori” (spec., articoli e saggi).
Per quanto concerne le pubblicazioni “minori” non monografiche, si è già detto di come alla loro valutazione sia stato attribuito dalla Commissione un peso fino a ben 55 punti su 100 (spec., si ripete, punti 40/100, nonché 15/100 punti in base al parametro della “pluralità”) e, dunque, ben il 55% dell’intero punteggio complessivo cui è riportato il riconoscimento dell’abilitazione, nonché addirittura quasi il triplo in più rispetto ai soli 20 punti previsti per le monografie. Ciò, peraltro, senza contare la correlazione alle stesse pubblicazioni minori anche della “continuità”, oltreché pure dell’ulteriore oscuro parametro dell’ “impatto” (su cui v. infra).
Sempre in riferimento alle pubblicazioni “minori” rileva, altresì, l’inspiegata adozione da parte della Commissione di standard di giudizio-punteggi “diversi” rispetto a quelli stabiliti in generale dalla Commissione in sede di verbale n. 2 (segnatamente per quanto concerne la determinazione del giudizio “buono” in 80/100 punti: id est, 8/10), ma parimenti “diversi” anche rispetto a quelli che si è appena visto essere stati utilizzati dalla Commissione per la valutazione delle monografie (id est, 10/10, 9/10, 7/10 e 3/10, rispettivamente per eccellente, buono, accettabile e limitato).
Dalle schede di valutazione-giudizi individuali dei singoli Commissari si desumono infatti i seguenti standard di giudizio: <<Eccellente = 40, Buono = 34, Accettabile = 26, Limitato = 10>>.
Ove, dunque, dopo i criteri generali di cui al verbale n. 2, nonché quelli visti per le monografie, per le pubblicazioni minori, dato il punteggio massimo di 40 punti, si ha così addirittura una differente “terza” scala di giudizio-valutazione: id est, 10/10, 8,5/10, 6,5/10 e 2.5/10, rispettivamente per eccellente, buono, accettabile e limitato.
Ciò, si ripete, in contraddittoria diversità manifesta rispetto alle indicazioni enunciate dalla stessa Commissione in sede di verbale n. 2 e, comunque, sempre senza alcuna minima motivazione-spiegazione, meno che mai in ordine alla stessa diversa incidenza così irrazionalmente annessa a siffatti medesimi standard di giudizio nei differenti ambiti-frazioni di valutazione, nonché rispetto al punteggio complessivo finale.
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5.1. Si tratta tuttavia di intendersi su quali siano le pubblicazioni “minori” non monografiche da considerarsi al riguardo.
In sede di <<determinazione dei criteri e dei parametri per la valutazione>> (cfr. verbale n. 2) la Commissione ha inteso fare riferimento solo a <<saggi o articoli>>, in termini anche successivamente ribaditi (v. infatti anche le schede di valutazione-giudizi individuali dei singoli Commissari, dove il riferimento è, nell’ordine, a <<articoli e/o saggi>> ed al <<prodotto articolo o saggio>>). E tanto, in specie, sempre senza nessun cenno alle “note a sentenza”, notoriamente prodotto “altro” rispetto agli articoli ed ai saggi, di valore scientifico e di ricerca in linea di massima ben inferiore rispetto agli articoli ed ai saggi. “Note a sentenza” della cui considerabilità ai fini della valutazione della qualità della ricerca scientifica in generale e delle stesse procedure di abilitazione, infatti, si è da più parti fortemente dubitato, in ogni caso convenendosi generalmente sul loro valore-peso largamente inferiore rispetto ai saggi ed agli articoli: in termini senz’altro ben a conoscenza della Commissione.
Ora, così stando le cose, era evidentemente da ritenere che la mancanza di ogni diversa indicazione da parte della Commissione, e segnatamente, si badi, la completamente omessa esplicitazione anche una sola volta delle parole “nota/e a sentenza” sia nel verbale n. 2 (in sede di <<determinazione dei criteri e dei parametri per la valutazione>>) sia nelle schede di valutazione-giudizi individuali dei singoli Commissari rilevassero senz’altro nel senso della “non considerazione” delle “note a sentenza” in relazione alla valutazione de qua. Vieppiù alla luce del precipuo disposto sul punto dell’art. 3, comma 3, d.m. n. 76/2012: <<L’individuazione del tipo di pubblicazioni … da prendere in considerazione e l’eventuale utilizzo di ulteriori criteri e parametri più selettivi ai fini della valutazione delle pubblicazioni e dei titoli sono predeterminati dalla commissione, con atto motivato pubblicato sul sito del Ministero e su quello dell’Università sede della procedura di abilitazione>>.
Ma, invece, niente di questo ha enunciato la Commissione.
Dalla lettura degli atti concorsuali si desume sorprendentemente, infatti, che -del tutto irrazionalmente ed in contraddizione palese rispetto ai criteri e parametri di valutazione da essa stessa enunciati- la Commissione ha viceversa considerato le note a sentenza ai fini in parola: non solo in sé, ma persino alla stessa identica stregua degli articoli e saggi.
Ciò senza alcuna minima motivazione-spiegazione di una tale loro valutazione in forma omologa e completamente fungibile con gli articoli e saggi, nonché, anzi, in riferimento ad alcuni Candidati senza nemmeno dare conto del risultare essere il singolo prodotto appunto una nota sentenza e non già un saggio od articolo (spec., addirittura non indicandolo come “nota a sentenza” nelle schede di valutazione dei Commissari, e spesso pure omettendo -involontariamente?- di indicarne l’avvenuta pubblicazione su di una parte determinata di una rivista notoriamente riservata alle sole note a sentenza: ad es., parte II per la RIDL).
E con casi-limite impensabili della valutazione di note a sentenza di poche pagine e di carattere oggettivamente solo informativo-ricognitivo del dato giurisprudenziale addirittura valutate anche 34 punti (per alcuni Candidati “abilitati”, ma non già, invece, per Candidati “non abilitati”), sempre senza alcuna spiegazione-motivazione. Pure in proposito sovente a favore di Candidati per i quali simili valutazioni obiettivamente oltremodo generose hanno inciso in via determinante ai fini del superamento infinitesimale della fatidica soglia degli 80 punti complessivi (spec., ad es., Candidato A 80,1 e Candidato B 80,4).
Ogni commento appare ultroneo.
Non senza che sia tuttavia rimarcato che anche proprio simili valutazioni largamente generose per determinati Candidati (almeno rispetto a quelle ben diverse riservate ad altri) valgano a dimostrazione dell’evidente inadeguatezza per eccesso della soglia di 80 punti fissata dalla Commissione ai fini del riconoscimento della “abilitazione”: specie alla luce delle su rimarcate innegabili forzature di giudizio necessarie al fine di consentire il raggiungimento di detta soglia da parte di siffatti Candidati probabilmente in assoluto comunque senz’altro meritevoli (ma verosimilmente non più di altri viceversa “non abilitati” giacché non beneficiati da valutazioni parimenti “generose”).
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5.2. Sempre in tema di pubblicazioni non monografiche dei candidati rilevano alcune sconcertanti valutazioni radicalmente differenti da parte dei singoli Commissari.
Evitato a scanso di equivoci, in questa sede, il riferimento a Candidati “non abilitati”, valga per tutti qui il caso della pubblicazione X del Candidato A “abilitato”.
Ebbene, a tale stessa pubblicazione X del Candidato A è attribuito un punteggio 34 dal Commissario B e, invece, 10 dal Commissario C -id est, dunque, con una completamente diversa valutazione addirittura nell’ordine di ben il 340%-, salvo poi ritrovarsi singolarmente all’unisono entrambi i Commissari B e C, insieme ai Commissari D, E, e F (che a loro volta hanno attribuito punteggi ancora del tutto differenti alla detta pubblicazione X), nell’assegnare tutti al Candidato A un punteggio finale superiore della fatidica soglia degli 80 punti di una percentuale da mero prefisso telefonico. Ma tanto, evidentemente, soltanto in ragione di ulteriori radicalmente diverse valutazioni (in relazione ad altre pubblicazioni o comunque ad altri titoli) del tipo di quella appena segnalata, ed a sua “compensazione”, sempre in merito allo stesso Candidato A.
Ora, fino a che punto ciò è verosimile?
Le perplessità aumentano oltremodo al cospetto di valutazioni finali sempre assai poco credibilmente all’unisono (spec. 5 a 0) da parte di tutti i Commissari per tutti i Candidati “abilitati” e “non abilitati” (su cui v. infra).
6. Gli “oscuri” parametri della <<continuità, pluralità e impatto delle pubblicazioni>>.
Paradossale è, poi, la rilevanza-peso “relativo” (rispetto alla valutazione complessiva dei candidati) attribuito dalla Commissione agli asseriti parametri della <<continuità, pluralità e impatto delle pubblicazioni>>.
Vale a dire, nella misura di addirittura ben 25 punti (id est, ben un quarto) rispetto ai 100 punti complessivi.
Ma ciò senza alcuna chiara esplicitazione preventiva dei criteri di misurazione-punteggio.
E, comunque, con l’assegnazione concreta degli stessi punti ai singoli candidati in riferimento a detti parametri che si è rivelata in concreto francamente incomprensibile e quantomai irrazionale.
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6.1. Relativamente alla “continuità” appare arbitraria e comunque non motivata la scelta della Commissione di misurarla in riferimento <<alle pubblicazioni dei 5 anni consecutivi precedenti la data di pubblicazione del d.d. 222 del 20 luglio 2012>> in luogo dei <<dieci anni consecutivi>> di cui invece al d.m. n. 76/2012.
E’ tuttavia da dire che l’incidenza di tale parametro della “continuità” è risultata nei fatti modesta in relazione ai numerosi candidati che vi rientrano, perché ridotta all’assunzione del moltiplicatore “1” rispetto al punteggio loro assegnato per gli altri parametri “pluralità” e “impatto” (su cui v. infra).
Non così, però, anche per i candidati invece reputati non aventi continuità, viceversa senz’altro eccessivamente penalizzati -in riferimento ad un arco temporale si ripete “altro” rispetto a quello di cui al d.m. n. 76/2012- in ragione dell’applicazione di un moltiplicatore che dalle schede individuali di valutazione pare essere “0,3” (peraltro sembra nemmeno in linea con quanto enunciato cripticamente dalla Commissione nel verbale n. 2).
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6.2. Ma è in relazione ai parametri della “pluralità” ed “impatto” delle pubblicazioni che emergono le incongruenze più eclatanti in merito all’operato della Commissione in tema di “parametri”.
Per quanto concerne la “pluralità” o “rilevanza”, va detto subito che si tratta di parametro non previsto dalla normativa vigente in materia (spec. d.m. n. 76/2012), che la Commissione -solo questa, e non anche le altre- ha reputato autonomamente di inserire in via aggiuntiva, assumendo <<la rilevanza delle produzione scientifica del candidato in base alla pluralità e varietà dei temi affrontati>> (cfr. verbale n. 2) e annettendo a detto parametro il preponderante “peso” di addirittura ben 15 punti rispetto ai 100 del giudizio complessivo.
A parte l’appena riportata sua apodittica affermazione, tuttavia, siffatto parametro della “pluralità” è rimasto essenzialmente indefinito dalla Commissione nei contenuti e vieppiù nei termini di sua concreta valutazione-misurazione. E ciò senz’altro quantomai irrazionalmente, trattandosi, come detto, di parametro non previsto e, dunque, ovviamente non regolamentato in sede di d.m. n. 76/2012.
Assolutamente nulla è esplicitato dalla Commissione, in specie, in ordine ai criteri di giudizio-assegnazione concreta dei 15 punti per la “pluralità”.
Onde la vera e propria “oscurità” assoluta di un simile parametro, nonché una sua valutazione di fatto essenzialmente arbitraria e non verificabile.
Ciò come immancabilmente dimostrato dalle del tutto incomprensibili applicazioni-valutazioni del cennato criterio della pluralità che si riscontrano dalle schede individuali redatte dai Commissari in relazione ai singoli Candidati.
Ad essere rimasti imprecisati da parte della Commissione sono stati, invero, persino gli stessi requisiti richiesti alle pubblicazioni per essere considerabili “plurali” e/o “varie”.
Posto il limite massimo di n. 18 (diciotto) per la prima fascia e di n. 12 (dodici) pubblicazioni presentabili (cfr. allegg. nn. 4 e 5 al d.m. n. 76/2012), infatti, tali 18 o 12 pubblicazioni devono tutte vertere su temi diversi? Oppure è ammesso un certo margine di tolleranza, e non tutte le pubblicazioni devono dunque necessariamente vertere su temi diversi? E, se così, su quanti temi diversi tra 2 e 17 per la prima fascia, nonché tra 2 e 11 per la seconda fascia? Inoltre, a quale grado di (differente) pluralità sono rispettivamente correlati i vari standard di giudizio utilizzati dalla Commissione (spec., eccellente, buono, accettabile e limitato)? E, ancora, in che modo è da determinarsi il punteggio da attribuirsi in concreto a ciascun Candidato, tra 0 e 15, a seconda dell’asserita maggiore o minore pluralità delle sue pubblicazioni?
In ogni caso, ad essere richiesta a tal fine è una totale alterità di temi? Oppure può anche bastare la trattazione di istituti diversi nell’ambito di una medesima area tematica?
Su tutto ciò la Commissione non ha inteso esplicitare alcuna indicazione plausibile.
Ed ancora.
Oltremodo incongrua si rivela, in ogni caso, una valutazione del parametro della “pluralità” solo sulla scorta di una (comunque imprecisata) apparente generica diversità di temi trattati nelle pubblicazioni, secondo la quale sembrerebbe essersi orientata la Commissione (il dubitativo è d’obbligo stante la rimarcata assenza totale di indicazioni in proposito).
A tutto voler concedere, infatti, è risaputo che per il Diritto del Lavoro criterio primario di valutazione di qualsivoglia pretesa <<pluralità e varietà dei temi affrontati>> non possa tradizionalmente non essere, anzitutto, quello della distribuzione delle pubblicazioni nell’ambito delle diverse branche tradizionali della materia (id est, rapporto di lavoro, mercato del lavoro, pubblico impiego, diritto sindacale, sicurezza sociale).
Ma ciò in termini che impropriamente non appaiono essere stati in alcun modo considerati dalla Commissione, non risultandone traccia negli atti concorsuali, per impropriamente riportare le sue valutazioni in merito all’oscuro parametro della “pluralità” ad un (comunque indefinito) asserito generico rilevare di pubblicazioni su più temi (in alcun modo nemmeno specificati nel numero e/o nella loro reale diversità) evidentemente anche rientranti in una stessa unica branca od area della nostra materia.
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6.3. Parimenti del tutto incongruo è l’operato della Commissione in relazione al parametro dell’ “impatto” delle pubblicazioni, inopinatamente assumendolo pari a ben 10 punti di “peso” rispetto ai 100 punti totali.
Essenzialmente non pertinente è, invero, anzitutto, la stessa considerazione in sé di un simile parametro per un settore “non bibliometrico” quale il Diritto del Lavoro.
Tantopiù dal momento che, nel caso, anzi, risulta essere anche esclusa espressamente dalla Commissione (cfr. verbale n. 2) la valenza dei criteri indicati in proposito ex d.m. n. 76/2012 (v., spec., art. 6 e allegato n. 2) appunto per i settori “non bibliometrici” in riferimento ai dieci anni precedenti al 2012.
E con la Commissione che, al contempo, ha invece così enunciato evasivamente il medesimo parametro “impatto”: <<impatto delle pubblicazioni all’interno del settore concorsuale, anche considerato nell’ambito scientifico>> (cfr. ancora verbale n. 2). Ciò, quindi, senza una benché minima indicazione sempre da parte della Commissione dei termini di concreta misurazione-valutazione di detto parametro, meno che mai in forma di assegnazione di un determinato punteggio.
Una tale totale mancanza di criteri di misurazione-valutazione del parametro ha reso irrazionale, arbitraria, nonché comunque completamente incomprensibile ed in alcun modo verificabile ogni assegnazione di punti per “impatto” da parte della Commissione in relazione ai singoli Candidati: così come si desume dalle schede-punteggio individuali di valutazione di cui agli atti della procedura.
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6.4. Le pesanti incongruenze rimarcate in relazione agli “oscuri” parametri della <<continuità, pluralità e impatto delle pubblicazioni>> hanno avuto, da sole, rilievo assolutamente decisivo nella determinazione degli esiti concreti della procedura di abilitazione.
Proprio solo sul punteggio (incomprensibile) assegnato dalla Commissione in relazione a detti parametri, infatti, si è sovente giocato il raggiungimento, o meno, della fatidica soglia degli 80 punti da parte di singoli Candidati “abilitati” e “non abilitati”.
Ciò anche con casi obiettivamente paradossali di ribaltamento di posizioni proprio solo in ragione del punteggio assegnato in relazione a siffatti parametri: vale a dire, con inopinato giudizio di “non abilitazione” per alcuni candidati riportanti un punteggio uguale o addirittura anche superiore rispetto ad altri candidati viceversa “abilitati” in relazione alle pubblicazioni (monografie, articoli e saggi) e/o agli altri ambiti-frazioni di valutazione-punteggio, solo perché aventi un punteggio incomprensibilmente inferiore anche di ben 5 punti in riferimento a detti “oscuri” parametri della “pluralità” e “impatto” delle pubblicazioni.
La qual cosa può apparire così incredibile che vale qui riprodurre nel dettaglio, tra le tante, alcune significative ipotesi di esemplificazione desunte dalle schede-punteggio individuali redatte dal Commissario Y agli atti della procedura:
– Candidato A “non abilitato” 48,4 pubblicazioni, 15 parametri e 75,36 punteggio finale;
– Candidato B “non abilitato” 49,1 pubblicazioni, 15 parametri e 77,09 punteggio finale;
– Candidato C “abilitato” 46,9 pubblicazioni, 20 parametri e 80,90 punteggio finale;
– Candidato D “abilitato” 47,6 pubblicazioni, 20 parametri e 80,6 punteggio finale;
– Candidati E e F “abilitati” 48,4 pubblicazioni, 20 parametri e 80,36 punteggio finale;
– Candidato G “abilitato” 48,4 pubblicazioni, 20 parametri e 81,4 punteggio finale;
– Candidato H “abilitato” 48,4 pubblicazioni, 20 parametri e 82,36 punteggio finale.
7. La valutazione dei titoli.
Relativamente ai titoli non appare condivisibile, almeno per l’abilitazione della seconda fascia, la totale non considerazione delle docenze, supplenze e/o incarichi annuali d’insegnamento su materie-corsi di laurea universitari ufficiali, evidentemente comprovanti l’attitudine-validità del candidato, specie quando reiterati negli anni.
Sempre per la seconda fascia si rivela poi irrazionale l’introduzione quale criterio addizionale da parte della Commissione del <<titolo di ricercatore universitario a tempo indeterminato … o determinato>>, con la previsione dell’assegnazione di 10 punti nell’ambito dei 15 punti complessivi riservati ai titoli, nonché, quindi, per il solo possesso di detto titolo aggiuntivo di ricercatore, nella misura di un punteggio addirittura doppio rispetto alla totalità del massimo dei punti previsti in riferimento a tutti gli altri titoli complessivamente considerati.
Senza che sia da rimarcare quanto ciò si sia rivelato eccessivamente penalizzante per i Candidati non ricercatori, quale vera e propria condizione di esclusione di fatto dalla procedura di abilitazione: come dimostrato immancabilmente dalla circostanza che nessun Candidato “non ricercatore” ha in concreto così potuto raggiungere la soglia degli 80 punti fissata per l’abilitazione, ma anche che, al contempo, nessuno degli stessi Candidati abilitati avrebbe raggiunto la stessa fatidica soglia degli 80 punti in mancanza dei 10 punti computatigli dalla Commissione per il titolo di ricercatore.
In ogni caso, è quantomai semplicistica la stessa previsione dell’assegnazione dei cennati 10 punti indistintamente, e senza variazioni, per il titolo di ricercatore “a tempo indeterminato” e “a tempo determinato”, così come anche rispetto al titolo di ricercatore “a tempo indeterminato”, indipendentemente dall’avvenuta conferma nel ruolo o meno del singolo Candidato.
Scontato è, infatti, il peso-valore ben maggiore del titolo di ricercatore a tempo indeterminato rispetto a quello (solo) a tempo determinato, così come innegabile è l’attestata superiore qualificazione del ricercatore che abbia superato positivamente il giudizio di conferma. Ciò in termini che, come tali, in corrispondenza al diverso valore-peso della concreta posizione individuale universitaria, avrebbero senz’altro dovuto trovare precipuo riscontro in una graduazione equilibrata del punteggio, viceversa inopinatamente del tutto mancata da parte della Commissione.
8. L’unanimità di valutazione da parte dei Commissari in relazione a tutti i Candidati esaminati.
Dato a dir poco stupefacente è, infine, quello di un’assoluta unanimità di valutazione da parte dei componenti la Commissione in sede di giudizio-punteggio finale dei singoli Candidati: addirittura in relazione a tutti, nessuno escluso, i complessivi 122 Candidati esaminati (spec., 34 per la prima fascia e 78 per la seconda fascia) “abilitati” e “non abilitati” che siano. E tanto, quindi, con ben 610 giudizi individuali da parte dei cinque Commissari (spec., 122 x 5 = 610) tutti immancabilmente all’unisono di “abilitazione” o “non abilitazione”: id est, sempre, e solo, con un cd. risultato di “5 a 0″.
La qual cosa appare francamente molto poco verosimile, specie peraltro a fronte dei punteggi largamente difformi che si è detto essere sovente attribuiti dai Commissari in riferimento a determinate pubblicazioni-elementi di valutazione (con diversità persino del 340%: v. supra sub n. 5.2) e delle relative compensazioni-forzature poi necessarie al fine di un coincidente giudizio-punteggio finale complessivo per il singolo Candidato.
E’ probabile che mediante un tale immancabile 5 a 0 nei giudizi in tutte le valutazioni la Commissione ambisse a rendere immune da censure il proprio operato.
Ma, lungi dal poter valere a fornire maggiore tenuta agli esiti della procedura di abilitazione, è evidente che anche proprio la palese inverosimiglianza e, comunque, debolezza di un simile escamotage valgano, invece, a riprova provata dell’irrazionalità manifesta dei giudizi espressi e delle evidenziate deficienze dell’esplicata procedura di abilitazione.
9. Le molteplici incongruenze rimarcate fanno emergere una gestione delle abilitazioni da parte della Commissione secondo criteri e parametri di giudizio in larga parte nemmeno enunciati, non comprensibili, irrazionali, nonché comunque non rispondenti alla normativa vigente in materia e neanche verificabili.
Ciò spiega perché, particolarmente a fronte di <<talune inclusioni quantomeno generose e talune esclusioni quantomeno ingenerose>>, abbia potuto essere avanzato il sospetto che negli esiti della procedura possano aver <<giocato un ruolo determinante i fattori delle solidarietà personali, di scuola, di gruppo>>.
Emilio Balletti; Francesco Basenghi; Maria Novella Bettini; Alessandro Boscati; Marina Brollo; Piera Campanella; Laura Castelvetri; Alfonsina De Felice; Valeria Filì; Luigi Fiorillo; Luisa Galantino; Domenico Garofalo; Enrico Gragnoli; Stefano Liebman; Fiorella Lunardon; Sandro Mainardi; Michele Miscione; Severino Nappi; Giuseppe Pellacani; Giancarlo Perone; Antonio Pileggi; Carlo Pisani; Alberto Pizzoferrato; Giulio Prosperetti; Carmelo Romeo; Pasquale Sandulli; Francesco Santoni; Paolo Tosi; Maria Josè Vaccaro; Antonio Vallebona; Gaetano Zilio Grandi
35. M. Romano, Sull’ASN di Diritto del Lavoro
Come ampiamente previsto, gli assurdi criteri evidenziati in un mio precedente scritto su queste stesse pagine del 17/6/2013, hanno trovato ampia conferma nei paradossali risultati della ASN del settore concorsuale 12 B2 (SSD JUS 07 – diritto del lavoro). A quanto si era già allora evidenziato[1] la commissione, nella sua composizione finale[2] , ha ritenuto di aggiungere ulteriori elementi di iniquità. In particolare la commissione, pur dichiarando di voler attribuire maggior peso alle monografie rispetto agli articoli (si veda il verbale n. 2 del 22/4/2013), ha poi assegnato ad esse un massimo di 20 punti in luogo dei 40 previsti per gli articoli!
Non si comprenderebbe in verità come in tal modo si sarebbe dato maggior peso alle monografie, tradizionalmente considerate determinanti al fine del raggiungimento della maturità scientifica dei candidati, visto che agli articoli veniva assegnato il doppio del punteggio!?
Non paga di ciò, tuttavia, la commissione ha ulteriormente aggravato la posizione dei candidati che avessero presentato più di una monografia, coloro cioè che astrattamente, avendo scritto un maggior numero di lavori maggiormente impegnativi, potevano ritenersi candidati più forti che il punteggio finale delle monografie sarebbe stato dato dalla media dei punteggi delle stesse.
L’ovvia conseguenza, evidente a tutti tranne che ai commissari, è stata che in tal modo sarebbero stati penalizzati i candidati che avessero rappresentato più monografie.
È infatti ovvio che un candidato con 2-3 monografie avrebbe visto il punteggio delle migliori ridimensionato dalla media con quelle meno valide riducendo in tal modo la valutazione già dimezzata rispetto agli articoli.
Avrebbero fatto meglio i candidati con più monografie a presentare solo quella ritenuta migliore inserendo le altre come articoli, ottenendo un punteggio comunque doppio !
Ed infatti è quanto accade ad esempio ai candidati n. 4 (due monografie da 14 e 6 media 10, n. 51 (due monografie da 18 e 6, media 12) o al candidato n.7 (ben cinque monografie di cui 4 da 14 e una da 6 media 12,5).
L’aspetto più paradossale, a mio avviso, è però un altro: tale criterio (come quelli di seguito indicati) non è mai stato previsto in alcuno dei verbali pubblicati dalla Commissione! Chiunque voglia sfogliare il verbale con il quale sono stati redatti i criteri già criticati, né in quelli contenenti meri rinvii non troverà alcun accenno a quello appena esaminato. Solo un esame delle schede dei singoli candidati ne denuncia infatti l’esistenza in barba a qualunque trasparenza amministrativa: trasparenza che giunge, nel caso di specie, ad essere impalpabile….
Ma i solerti commissari da dove hanno dunque tirato fuori i criteri utilizzati?
Che ci sia stata un po’ di confusione lo si vede anche dalla location delle riunioni che, in barba ad ogni norma che prevede la riunione presso la sede universitaria designata, si riuniscono più di una volta nello studio di uno dei commissari!
A tali iniquità si aggiungono poi ulteriori criteri (le cui modalità applicative non sono mai state definite in alcun verbale almeno di quelli pubblicati sul sito) già di per sé fumosissimi come quello della continuità, della pluralità e dell’impatto nel settore delle pubblicazioni presentate. Tali criteri, definiti sempre nel verbale n. 2 del 22/4/2013 dalla commissione in via generale, sono applicati con un fattore di riduzione tale da essere di fatto in grado di impedire ad un candidato anche con punteggi altissimi di superare gli 80 punti richiesti per la idoneità .
A tali aspetti generali, si aggiungono le solite assurdità proprie di ogni concorso.
Ad esempio il candidato n. 54 presenta un articolo dal titolo “La rappresentazione del lavoro nella recente filmografia”, articolo certamente interessante anche se evidentemente poco scientifico ma che riceve da alcuni commissari ben 34 punti su 40: il doppio di quanto lo stesso candidato riceva per la sua monografia!
Una chiosa utile a capire la serietà della valutazione operata e che suggella a mo di firma il patto scellerato: quanto i commissari fossero affiatati: TUTTI i 112 giudizi (78 + 34) sono resi all’unanimità!
Le probabilità che ciò accada realmente se i cinque commissari avessero, come la legge avrebbe prescritto, reso autonomamente i singoli giudizi sono talmente irrisorie da rendere l’intero concorso annullabile di ufficio dal Ministero, qualora realmente qualcuno fosse interessato alla regolarità dello svolgimento delle tornate concorsuali, indipendentemente dai concorsi dei singoli candidati che, certamente, non mancheranno anche in questo sciagurato settore.
[1] In particolare il mancato rilievo per la pubblicazione dei contributi su riviste in classe A, l’attribuzione di 10 punti al possesso del titolo di ricercatore a tempo determinato o indeterminato, per l’abilitazione di seconda fascia, e di professore associato per l’abilitazione di prima fascia ed il criterio della continuità negli ultimi 5 anni antecedenti al bando
[2] La cui composizione è mutata in corso d’opera per le dimissioni del componente più anziano il quale si è accorto inaspettatamente che DUE tra i candidati erano associati del suo studio. I criteri stabiliti non sono tuttavia stati modificati.
34. G. Vecchio, Richiesta di annullamento dei lavori della Commissione di Diritto Privato
Oggetto: Abilitazione Scientifica Nazionale 2012, Commissione di Diritto Privato e giudizio sul candidato per la II fascia Gianfrancesco Vecchio,
Rinnovo di Richiesta di annullamento in autotutela di tutta l’attività svolta dalla Commissione in quanto illegittimamente formata da un professore di Diritto Commerciale: il Commissario OCSE Prof. Embid.
Gent.le Ministro, Prof.ssa Stefania Giannini,
con la presente rinnovo quanto oggetto di precedente comunicazione, ancora senza riscontro, inviata sotto la reggenza del precedente Ministro Prof. Maria Chiara Carrozza.
Vorrei comprendere quanto ancora ci vorrà perché tutte le attività della Commissione di cui all’oggetto, in relazione all’ASN 2012, siano annullate per venire riaffidate ad una Commissione in composizione legittima.
Emerge chiaramente dal Curriculum disponibile su internet, così come dalle sue Pubblicazioni, che il Commissario OCSE è un professore ordinario di Diritto Commerciale (Diritto Mercantile).
Il Prof. Embid è, così come si dichiara, Professore Ordinario di diritto Mercantile (Commerciale) presso l’Università di Valencia, circostanza, questa, che esclude di per sé l’appartenenza del commissario OCSE allo stesso settore scientifico-disciplinare per il quale hanno concorso coloro che hanno fatto domanda per il SSD di Diritto Privato.
Il diritto Commerciale, già ascrivibile al settore scientifico-disciplinare jus 04, è individuato a livello normativo nel macrosettore 12/B, unitamente al diritto della navigazione, mentre il diritto Privato è ascrivibile al diverso settore jus01 e risulta individuato nel macrosettore 12/A (cfr., sul punto, il dm n. 159 del 12 giugno 2012, recante “Rideterminazione dei settori concorsuali, ai sensi dell’articolo 5 del decreto 29 luglio 2011″), con conseguente impossibilità di assimilare i due distinti profili scientifici.
La non riconducibilità di un settore all’altro, del resto, si desume chiaramente, da un lato, dal fatto che sono state bandite due procedure di Abilitazione per i distinti settori, dall’altro, anche dalla semplice lettura dei citati curriculum e pubblicazioni del Prof. Embid, queste ultime risultano circoscritte alla trattazione di argomenti incentrati su tematiche strettamente attinenti al diritto societario-commerciale, quali, a titolo esemplificativo, lo studio delle società di capitali, di quelle a responsabilità limitata, di quelle anonime, delle fondazioni, nonché dei profili di responsabilità degli amministratori delle società di capitali e di quelle cooperative nell’ordinamento spagnolo.
Le pubblicazioni oggetto della mia domanda, che La invito a rileggere, non hanno, nell’assoluta maggioranza, alcuna attinenza con quelle di chi mi ha valutato e ciò emerge, anche, dall’apodittico ed immotivato giudizio individuale del Prof. Embid nei miei confronti.
In esso, tra l’altro, si dice: “Hay, por otro lado, varios trabajos, algunos relativos al Derecho de sociedades (controles, interés sociaò y derecho de opciòn), al Derecho de Familia (pacto de familia) y sucesiones (legitimarios, coexistencia de testamento. No consta que sea dottore di ricerca”.
Sennonché, come dovrebbe essere noto a un giurista che conosca il diritto privato italiano, lo scritto sul Patto di famiglia è dedicato ad un tema che non ha alcuna attinenza con il “Derecho de familia”, in quanto si occupa di un istituto di diritto successorio (art. 768-bis e ss. c.c.), mediante il quale è possibile trasferire l’azienda o le partecipazioni societarie. Con tale “giudizio” il Commissario OCSE ha quindi dimostrato inequivocabilmente non solo di non aver esaminato il contributo in questione, ma pure di non conoscere l’istituto cui è dedicato il contributo stesso, rispetto alla quale avrebbe dovuto esprimere un motivato giudizio. Nonché, si consenta, dimostra di non aver nemmeno letto il curriculum del sottoscritto, dal quale risulta chiaramente il titolo di Dottore di ricerca che, pure, gli altri Commissari mi riconoscono.
Di fronte ad una così lampante evidenza della presenza di un Commissario carente di specifica qualificazione scientifica nella materia del Diritto Privato, con conseguente violazione degli art. 6, commi 2 e 7, del D.P.R. n. 222 del 2011, nonché dell’art. 16, comma 3, lett. h), della L. n. 240 del 2010, Le chiedo se ritenga necessario che si attivino le procedure di impugnazione giudiziaria davanti al TAR, strada già scelta da numerosi candidati, o non appaia piuttosto più rispettoso dell’interesse pubblico che Lei è chiamata tutelare, porre drasticamente fine a questa vicenda che già tanto ulteriore discredito ha portato sulla Università italiana.
In fede.
Prof. Avv. Gianfrancesco Vecchio
Roma 6 marzo 2014
33. M. Ferretti, L’ASN e il fascino discreto dei numeri. Lettera aperta al Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
Perorar la propria causa, far la parte di Cicero pro domo sua, non è mai gradevole. Val la pena farlo quando la posta in gioco va ben al di là del caso personale. Premetto che sono profondamente convinta del fatto che il merito, misurato in termini di qualità della produzione scientifica e di arricchimento del sapere, debba essere il criterio fondamentale per accedere al ruolo di professori universitari e che credo che, in una società che si vuole moderna e democratica, l’università abbia una funzione insostituibile. Premetto anche di esser stata sin dall’inizio contraria al sostanziale commissariamento dell’università da parte dell’ANVUR, organo assolutamente discrezionale investito di vasti poteri, e all’abilitazione scientifica nazionale (ASN) così come è stata concepita, perché convinta che fosse una procedura che, dietro l’apparenza tecnocratica e il ricorso a una pretesa oggettività quantitativa, avrebbe solo potuto discreditare il concetto stesso di merito, come del resto si sta dimostrando.
L’illustre commissione chiamata a selezionare gli idonei a ricoprire il ruolo di professore ordinario per il settore di storia contemporanea ha decretato, nonostante il fatto che non mi siano stati lesinati gli elogi, che non son degna di far parte dell’eterogenea congerie degli eletti. Giudizio insindacabile, naturalmente, ma che dovrebbe essere motivato in modo adeguato e basato, come recita il bando, “sulla valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche”, il che presuppone un’attenta lettura dei testi sottoposti a giudizio da parte di tutti i commissari, come prescrive la normativa: leggere è del resto il solo modo per valutare la qualità della ricerca, criterio ancora considerato, almeno sulla carta, di primaria importanza.
Nei giudizi dei vari commissari, mi si riconosce di essere “una storica riconosciuta della Russia in età contemporanea”, di avere una “biografia scientifica eccellente”, con tanto di “curriculum plurinazionale”, di avere una “notevole serie di esperienze di ricerca e di insegnamento all’estero”. Si riconosce che lavoro con “fonti sempre di prima mano” e che ho un’interpretazione “innovativa e originale”. Si constata l’alto “tasso di internazionalizzazione”, testimoniato tra l’altro dal fatto che, come è rilevato, quasi metà delle pubblicazioni sono in sedi straniere, e “per lo più prestigiose”, come le Annales, forse la più importante rivista mondiale di storia E’ “indubbia” anche la presenza, qualificata di “abbondanza” da uno dei commissari, dei requisiti aggiuntivi, quali partecipare a un comitato di redazione di rivista, e per giunta di fascia “A”, far parte di un collegio dottorale, avere un alto grado di “internazionalizzazione”, con relazioni con istituzioni considerate fra le eccellenze europee, quali l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences sociales e l’Institut des Sciences Politiques di Parigi, e via dicendo. Dov’è allora il problema? Me lo sono chiesto un po’ stupita all’inizio, visto che, nel giudizio collettivo, agli elogi seguiva, con buona pace della lingua italiana, un “per questo” che, secondo la logica, non essendo sinonimo di “tuttavia”, doveva preludere all’abilitazione, tanto che pensavo ci fosse stato un errore. E invece no.
L’arcano si è svelato andando a vedere i giudizi, assai stringati, dei singoli commissari e, soprattutto, i criteri che la commissione di storia contemporanea aveva scelto di darsi, alzando l’asticella della produzione meramente quantitativa posta dal Ministero come soglia per potersi presentare all’abilitazione, la “mediana”. Le mediane, di cui soltanto una doveva essere superata dai candidati per essere ammessi all’abilitazione, consistevano, per gli ordinari di storia contemporanea, in 2 monografie, 18 articoli in riviste o volumi e 0 articoli in riviste scientifiche della cosiddetta fascia A (già proprio zero, caro lettore, hai letto bene, e questo la dice lunga, perché in genere le ricerche si pubblicano prima, in corso d’opera, su riviste, e soltanto dopo confluiscono nelle monografie!). Va ricordato, peraltro, che anche questa classificazione in fasce è stata oggetto di numerose polemiche, perché è stata fatta in fretta e furia, senza alcuna condivisione da parte della comunità scientifica di riferimento e senza alcuna trasparenza, altra parola abusata dall’ANVUR: non sono stati resi noti infatti né i criteri adottati, né il modo in cui sono stati applicati e perché, visto che, nonostante le numerose richieste, non sono mai stati prodotti i verbali delle riunioni degli “esperti” nominati dall’Agenzia per stilare le liste. Il risultato è stato grottesco, come denunciato a più riprese dagli studiosi associati in Retourn on Academic Research (Roars.it). Dalla fascia A di storia contemporanea sono state escluse, in modo del tutto arbitrario, alcune delle principali riviste dell’area: Italia Contemporanea, la rivista degli Istituti di storia della Resistenza (omaggio ai tempi?); Meridiana, che è stata una delle riviste più innovative dell’ultimo ventennio; Parolechiave, la rivista della Fondazione Basso nella cui redazione siedono alcuni fra i più stimati contemporaneisti italiani, quali Mariuccia Salvati e Claudio Pavone, esclusa, a quanto comunicatomi a suo tempo privatamente dal presidente della società dei contemporaneisti, Agostino Giovagnoli, perché rivista non soltanto storica, cioè di taglio interdisciplinare, ragion per cui, paradossalmente, è presente in fascia A in diversi altri settori concorsuali – come se la storia, e lo insegnava già quasi un secolo fa Marc Bloch, forse il più grande storico del Novecento, si potesse pensare al di fuori di un dialogo e di uno scambio costante con le altre scienze umane e sociali. Personalmente, ero penalizzata da questa discriminazione, ma non in modo determinante, perché anche nelle sole riviste promosse avevo ben 9 saggi, quasi tutti piuttosto corposi, che sarebbero stati 13 senza l’esclusione di Parolechiave e Italia Contemporanea.
A differenza di quanto stabilito da medievisti e modernisti, con i quali condividiamo peraltro gli strumenti e le difficoltà del mestiere di storico, la nostra commissione ha tuttavia deciso, in modo del tutto arbitrario, che un “prerequisito essenziale” per esser abilitati dovesse essere l’aver tre “monografie”, dizione peraltro un tantino abusata, perché resa con troppa facilità sinonimo di libro stampato, possibilmente (ma non sempre) con note – questione su cui tornerò più avanti. Un indice, quindi, puramente quantitativo: la qualità della produzione scientifica è stata fatta scivolare allegramente in secondo piano. Al punto che il commissario tedesco, Christf Dipper, quello che, con uno solo degli italiani (Emilio Franzina), sembra aver guardato più attentamente almeno una parte delle mie pubblicazioni, constata che, visti i requisiti stabiliti dalla commissione, “non pare” possibile darmi l’idoneità. L’importanza esclusiva attribuita ad un solo indice quantitativo, in barba anche all’equivalenza stabilita dalla stessa Anvur fra i diversi indicatori (secondo cui, per esempio, un libro “valeva” due saggi, e un saggio su rivista straniera valeva addirittura di più di un libro, il che mi avrebbe permesso di superare ampiamente anche la nuova barriera), spiega presumibilmente anche la superficialità complessiva dei giudizi, che sono ben lungi dall’essere analitici, come pure prescriveva il bando. Un commissario, Guido Formigoni, memore forse delle sue scappatelle da scolaretto, fa addirittura uno smaccato copia-incolla di parte del giudizio del collega tedesco (10 righe su 17, provate a vedere che succede consegnando in questo stato una versione di greco o latino!), limitandosi ad aggiungere di suo che il secondo dei miei libri, sulla battaglia di Stalingrado, è un “breve lavoro divulgativo” – ragion per cui peraltro io stessa non lo avevo presentato fra le 18 pubblicazioni selezionate per esser sottoposte al vaglio della commissione. Un altro commissario, Giovanni Montroni, osserva che la mia effettivamente unica monografia, dedicata alla ricostituzione della memoria storica in Russia negli anni del naufragio dell’Urss e ampiamente lodata sia da Dipper che da Franzina, tanto per il metodo quanto per la ricchezza delle fonti, è “usurata”, un aggettivo che mi è difficile interpretare. Se si intende dire che è datata, sono d’accordo, perché con l’apertura degli archivi sappiamo adesso molto di più sull’epoca staliniana e su quella successiva – ed è per questa ragione, del resto, che ho declinato le proposte di traduzione russa: andrebbe in parte riscritta per aggiornarla; è ugualmente datata perché la riflessione sulla memoria storica e il suo funzionamento era allora, fra gli storici, ancora agli inizi, ragion per cui sono tornata sul tema nei miei saggi successivi. Se si intende invece dire che è superata, credo che il commissario debba almeno argomentare il suo giudizio, perché, per quel che mi risulta, non c’è stata alcuna altra opera innovativa sul tema e resta sull’argomento, vent’anni dopo, un’opera di rifermento, nonostante la sua disgrazia di essere in italiano (a suo tempo, voleva pubblicarla la casa editrice dell’Università della Pennsylvania, ma, vista la mole, chiedeva un contributo per la traduzione, cosa che il nostro sistema non prevedeva, soprattutto per un “esterno” al sistema accademico).
La cosa più straordinaria è tuttavia un’altra. Ho appreso dai giudizi, con un certo stupore, che il tema della memoria storica (ridotto da alcuni a “gestione statuale” della stessa, come fosse la stessa cosa!) “occupa in modo molto evidente il grosso delle energie della candidata”: perbacco, non me ne ero proprio accorta! E’ vero che continuo a seguire da vicino le vicissitudini della memoria russa e a scriverne, se non altro perché, per il fatto stesso di essere, a differenza degli oggetti di studio più classici per gli storici, in continuo mutamento, richiede un lavoro costante di aggiornamento e di rilettura in prospettiva, il che permette di affinare la comprensione delle dinamiche interne del lavorio della memoria e delle interconnessioni con gli usi politici del passato. Se non si continua studiarlo, come si fa, per esempio, a capire perché Putin sta tornando al manuale unico di storia e perché la nuova riscrittura del passato in chiave nazionalista si è imposta con tanta facilità nello spazio pubblico della Russia post-comunista alla ricerca di un’identità? Tuttavia, è altrettanto vero che ormai da una decina d’anni, grazie all’apertura degli archivi, mi occupo essenzialmente di altro, e cioè di indagare la genesi dello stalinismo all’interno della storia sociale della Russia post-rivoluzionaria, oggetto di diversi saggi presentati alla valutazione e passati del tutto inosservati. Si è rilevato soltanto, e senza alcuna notazione di merito (il che mi fa pensare senza lettura), il saggio sulla genesi del Gulag, la cui portata innovativa è stata colta invece dai colleghi russi, principali autorità nel settore. E’ completamente sfuggito lo studio di cui vado più fiera, giudicato eccellente anche dagli anonimi revisori della VQR: è la storia di un semplice operaio di Jaroslavl’, primo frutto di un certosino e pluriennale lavoro in diversi archivi russi, che permette di mettere in luce l’importanza della conflittualità sociale nell’innescare la complessa dinamica che sfocerà nello stalinismo – e questo consente di formulare ipotesi sul costituirsi della dittatura staliniana che rompono con le interpretazioni tradizionali, fortemente segnate ideologicamente e messe a mal partito dall’apertura degli archivi seguita al naufragio dell’Urss. Anche in questo caso, i colleghi russi ne hanno rilevato la portata innovativa, il che mi è valso l’invito a intervenire nella sessione plenaria del convegno annuale sullo stalinismo istituito da qualche anno in Russia – un onore che raramente viene tributato, in modo non puramente onorifico (per rispetto, cioè, delle norme non scritte delle gerarchie accademiche o per la capacità di portare finanziamenti), agli stranieri. Del resto, poco dopo l’uscita del saggio in russo sono stata contattata da una casa editrice universitaria tedesca che chiedeva il libro con tutta la storia, cosa a cui fra l’altro sto lavorando. Si tratta certo di temi specialistici, ma niente avrebbe impedito alla commissione, in cui nessuno aveva alcun titolo per valutare lavori sulla storia della Russia nel XX secolo, di ricorrere al parere pro veritate di esperti del settore, come era previsto del resto dal bando: la storia contemporanea abbraccia in effetti epoche e temi estremamente vari ed è difficile giudicare quando non si conosce di prima mano lo stato dell’arte. Qualsiasi storico russo di reputazione internazionale che si occupa di questi temi non avrebbe avuto difficoltà a dare il parer richiesto, visto che un numero sufficiente dei miei scritti sono stati tradotti. Non notare questo aspetto della mia produzione scientifica, su cui presentavo ben 4 lavori degli ultimi anni e che è in realtà in continuità col lavoro svolto a suo tempo durante la tesi di dottorato e mai abbandonato, ha fatto sì che non si notasse l’adesione a un altro criterio fissato dalla commissione, e cioè l’esigenza di presentare una produzione tematicamente diversificata. A meno che non si consideri che la storia russa del Novecento è di per sé una tematica troppo angusta.
Il ricorso al criterio quantitativo ha permesso comunque di eludere il problema. Del resto, permetteva di risolverne anche un altro, ben più grave: espletare i lavori entro i termini strettissimi stabiliti dal’efficiente e tecnocratico ministro Profumo era una vera e propria missione impossibile, come del resto denunciato fin da subito da più parti, perché era evidente che, soprattutto nei settori più numerosi, i commissari non avrebbero mai avuto modo di leggere quanto presentato dai canditati. A stare ai verbali, i commissari, pur lavorando a pieno ritmo 12 ore al giorno, senza sabati e domeniche, e senza mai alzare il naso dalla scrivania, hanno avuto a disposizione 14 minuti per guardare le singole pubblicazioni, ovvero 3-4 ore a candidato; per discutere le candidature, hanno impiegato meno di 5 minuti, meno di 2 per formulare il giudizio finale; per la seconda fascia il tempo è stato ancora di meno (si veda la tabella allegata in fondo al testo). Tempi da record, no? Davanti a questa missione impossibile, nulla impediva ai commissari di protestare o di sottrarsi al compito, dimettendosi. Perché è evidente che esser giudicati in questo modo è, per chi studia e fa ricerca sul serio, veramente umiliante. Ma non si è dimesso nessuno. Anche perché, ben celate al riparo della pretesa neutralità dei numeri (come se gli indicatori numerici non si costruissero, ma fossero una sorta di dato oggettivo), le diverse consorterie accademiche hanno negoziato e trattato, col risultato che la tanto innovativa e “moderna” abilitazione nazionale per reclutare docenti universitari all’altezza dei loro compiti si è tradotta, secondo le migliori tradizioni patrie, in una colossale operazione gattopardesca, che sarà ben presto coronata da concorsi locali, dove le baronie faranno il bello e il cattivo tempo. Niente male come risultato, per una legge che aveva strombazzato ai quattro venti l’intenzione di voler metter fine a familismi, clientelismi e potentati accademici in nome del “merito”.
A conti fatti, quindi, per il tanto decantato merito in versione ANVUR non conta la qualità della ricerca, ma conta essenzialmente la quantità: ed è questa la cosa più grave e pericolosa, perché distrugge le fondamenta stessa del sapere e dà ai giovani ricercatori un messaggio del tutto fuorviante. In Italia, almeno del campo della storiografia, si pubblicano troppi libri (spesso peraltro pagando profumatamente gli editori, ridotti ormai al triste ruolo di stampatori, oppure assicurando l’adozione del testo – cioè le vendite – e via dicendo) e troppo pochi libri che valga la pena leggere, perché infarciti di luoghi comuni e cose stranote, libri d’occasione, “usa e getta”. Ci sono candidati che l’illustre commissione ha fatto passare con testi che gridano vendetta, infarciti di luoghi comuni, errori e corbellerie (pare che nessuno se ne sia accorto!), che passano inosservati perché ormai la pratica delle recensioni critiche non è più in voga (uno sgarbo al collega o al suo protégé?) e tanto nessuno le legge, mentre testi più che discutibili sul piano scientifico vengono poi somministrati ai disgraziati studenti. Tutti sappiamo, del resto, come, in vista dell’abilitazione, le case editrici siano state prese d’assalto dagli aspiranti candidati, ansiosi di ottenere almeno un codice ISBN da presentare. E sappiamo anche tutti che, siccome è noto che “il libro serve”, si fanno carte false per averlo. Si garantisce all’editore l’adozione del testo, assicurando così le vendite, moltiplicate magari anche grazie agli scambi di favori fra colleghi (io adotto il tuo, tu adotti il mio), oppure si pagano profumatamente, di tasca propria o con fondi di ricerca, gli editori, ridotti ormai al triste ruolo di stampatori. Pecunia non olet, e con la crisi dell’editoria, in assenza di una politica trasparente di sostegno alla saggistica scientifica, che non si può reggere sul mercato, nemmeno le case editrici più rinomate disdegnano di pubblicare per quattrini, con un prezzario conseguente, affidandosi, senza guardar troppo per il sottile, alle raccomandazioni degli accademici di riferimento, visto che i comitati scientifici, tropo costosi, non ci sono più. Fare un libro in fretta, approfittando delle diverse opportunità, è peraltro spesso più semplice che non scrivere un buon saggio di ricerca. La nuova moda, assai in voga fra i contemporaneisti, di non mettere più le note, col comodo pretesto che “appesantiscono” il testo, e sostituirle con apparentemente corpose bibliografie, che colpiscono soprattutto chi non è al corrente dello stato dell’arte, rivelando i buchi soltanto a pochi specialisti, ha certo il vantaggio di risparmiare chi scrive dell’umile e paziente lavoro di verifica (certo assai dispendioso in termini di tempo, indispensabile però per evitare sviste e castronerie), ma mina alla base la costruzione stessa del sapere, che, se nel campo delle scienze sociali può pretendere a uno statuto di scientificità, lo deve solo al rigore del metodo. Questo è, come insegnava Marc Bloch, le métier d’historien.
Nella storiografia, e più in generale nelle discipline umanistiche, dove il sapere si accumula e si affina lentamente, studiando e riflettendo, il “publish or perish” è devastante per i giovani ricercatori, spinti a sbrigarsi a pubblicare a tutti i costi il “libro” senza avere il tempo di maturare, cosicché materiali che darebbero ottimi articoli diventano pessimi volumi; i saggi vengono smembrati a spezzatino, perché 3 o 4 articoli brevi (purché passino la soglia fatidica delle 20.000 battute) valgono ben di più di uno scritto più lungo e ponderato. Questo sistema incita inoltre a occuparsi di temi facili, che permettono di fare più in fretta a pubblicare e aumentare così la produzione quantitativa. La quantità in sé non dice niente non solo della qualità di un testo, ma nemmeno del lavoro incorporato che c’è dentro, che dipende dalla complessità del tema prescelto, dalle domande che ci si pongono, dallo stato delle fonti e dell’arte e via dicendo. Gli indici quantitativi servono forse a stanare i “fannulloni” di brunettiana memoria, ma possono al massimo essere usati per fissare soglie minime: per il resto servono solo a corrompere la produzione del sapere. Del resto, basterebbe ricordare il disastroso fallimento della pianificazione sovietica, basata appunto su indicatori qualitativi e non quantitativi: padelle pesantissime, perché la produzione degli utensili da cucina era valutata secondo con l’indice della quantità di metallo impiegato, il che rendeva non conveniente produrre oggetti più leggeri ma insostituibili, come i banali apriscatole, che spesso si trovavano (a prezzo ben più alto, naturalmente) fra i souvenir, per via del manico decorato… Lo stesso discorso vale per la ricerca di pretesi indicatori “oggettivi”, col nuovo idolo della bibliometria, come se non sapessimo che, da che sono cominciate a circolare le voci in questo senso, le note hanno assunto un particolare valore mercantile: ti cito se mi citi, cito il tale perché me lo voglio ingraziare, non cito il tal’altro perché, anche se ha scritto cose fondamentali, fa parte di un’altra consorteria e via dicendo. Per non parlare degli istinti insani che quest’indice così ”obiettivo” scatena, al tempo in cui la visibilità, nell’era dello spettacolo, è diventata un valore supremo: non solo inseguire temi alla moda, ma anche lanciare tesi provocatorie, magari senza alcun fondamento, serve a far parlare di sé, a farsi pubblicità. Et caetera et caetera.
Per quel che mi riguarda, non vi preoccupate. Se sono rimasta sorpresa, è stato soltanto per l’arroganza della commissione, che ha applicato acriticamente criteri meramente quantitativi senza degnarsi di leggere i testi e dare di conseguenza dei giudizi di merito, come prescritto. Almeno nei tanto vituperati vecchi concorsi i commissari leggevano e davano giudizi motivati. Nei due a cui avevo partecipato, ero stata considerata assolutamente meritoria di diventare professore ordinario, ma siccome i posti, essendo un concorso e non un’abilitazione, erano soltanto due, i vincitori sono stati considerati ancora più meritori di me. Che io abbia tutti i titoli per poter diventare professore ordinario lo afferma del resto anche la commissione di slavistica, che “all’unanimità esprime apprezzamento per il profilo e le pubblicazioni della candidata”, con giudizi così elogiativi da far arrossire, ma che giustamente non può abilitarmi perché sono una storica e non una slavista. Gli slavisti in effetti conoscono la storia della Russia nel XX secolo e capiscono ciò di cui scrivo.
Per l’ASN, devo peraltro riconoscere di aver assunto consapevolmente il rischio che comportava l’attenermi ai mie principi. Anch’io ero a conoscenza, come tutti i miei colleghi, del fatto che “servisse” un nuovo libro. E non mi sono nemmeno, pensate un po’, mancate le offerte, non solo senza dover pagare, ma anche con una percentuale sul ricavo delle vendite. Ma ho troppo amore e troppo rispetto per i libri per poter accettare con leggerezza di confezionarne uno in fretta e furia in vista di abilitazioni e concorsi vari, perché così fan tutti. Non l’ho mai fatto, nonostante mi fosse stato da più parti suggerito, e mai lo farò. Quando la Storia del Gulag su cui sto lavorando ormai da diversi anni sarà pronta, quando cioè avrò trovato una risposta convincente se non a tutte le domande, almeno a quelle fondamentali, la pubblicherò. E questo non perché io sia una perfezionista o perché soffra del complesso di Penelope, ma perché sono convinta che è così che si deve lavorare, se si vuole dare il proprio modesto contributo alla costruzione di un sapere che non sia funzionale soltanto all’attimo fuggente. Se qualcuno mi convincerà del contrario, sono pronta a cedere le armi e a chiudere il lavoro a breve termine, smettendo di scavare.
Chiedo però a questo punto all’Onorevole Ministro se, da studiosa, avrebbe mai accettato di essere giudicata in questo modo e se ritenga che l’operato della commissione di storia contemporanea sia conforme allo spirito della legge, che prescriveva di valutare la qualità, e non soltanto la quantità, della produzione scientifica dei candidati, tenendo conto, in particolare, oltre che dell’originalità della ricerca, della significatività e della rilevanza internazionale dei risultati raggiunti, e quali provvedimenti intenda eventualmente prendere, anche tenendo conto del fatto che, come risulta dall’interrogazione parlamentare presentata dall’On. Corsini il 28 gennaio u.s. proprio in merito ai lavori della medesima commissione (http://www.roars.it/online/documentazione-asn-e-vqr/#terdecimo), questa abbia agito con ampi margini di discrezionalità, lasciando passare, in via eccezionale, candidati che non soddisfacevano affatto i criteri annunciati. Chiedo peraltro all’Onorevole Ministro se sia legittimo che la commissione di storia contemporanea, che ha chiesto la riapertura dei lavori per autotutelarsi emendando errori di forma, abbia modificato in una rapida riunione telematica la sostanza dei giudizi stessi, poiché, per giustificare l’abilitazione di prima fascia data a due candidati a maggioranza semplice, il presidente ha ritenuto di potersi limitare, senza darne alcuna motivazione, a cambiare opinione sui due studiosi che aveva inizialmente giudicato non avessero i titoli per essere abilitati. Chiedo inoltre al ministro di render pubblici i tabulati da cui risulta il tempo che ogni commissario ha passato su ognuno dei nostri testi, visto che il dubbio che questi non siano stati letti mi sembra più che fondato.
Chiedo infine al ministro se non ritenga che, visti gli esiti disastrosi dell’operato dell’Anvur, tutti i responsabili dell’Agenzia non debbano dimettersi e se non ritenga necessario rivedere le funzioni di un organo che, creato per valutare la ricerca, ha di fatto assunto una funzione di commissariamento dell’università.
32. Lettera al Ministro Giannini sull’ASN di Storia dell’Architettura e Restauro
Al Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca,
On. Stefania Giannini
Piazzale Kennedy 20 – 00144 Roma
e, per conoscenza,
al Presidente dell’ANVUR,
Prof. Stefano Fantoni
Piazzale Kennedy, 20 – 00144 Roma
Oggetto: Abilitazione Scientifica Nazionale 2012, Commissione di Storia dell’Architettura e Restauro (08/E2). Dissenso di un gruppo di studiosi di Storia dell’Architettura Antica.
Onorevole Ministro,
sono stati pubblicati i risultati dell’Abilitazione Scientifica Nazionale per il settore 08/E2 (Restauro e Storia dell’Architettura). I risultati sono stati i seguenti: per la II fascia, su 394 candidati, ne sono stati abilitati 97, con una percentuale del 24,6%. Per la I fascia, su 134 candidati, ne sono stati abilitati 44, con una percentuale del 32.8%. I valori sono tra i più bassi, nonostante l’alto numero di candidati seri e competenti, ponendo anche una questione di disparità di comportamento tra le diverse commissioni giudicatrici non solo dell’area 08, ma dell’intera procedura di abilitazione.
Date queste premesse, vorremmo portare al dibattito generale sui risultati della prima tornata della ASN alcune considerazioni, come hanno già fatto altri colleghi per altri settori scientifico-disciplinari. È da premettere che i firmatari di questa lettera non sono stati abilitati, nonostante avessero superato ben più della mediana richiesta, a dimostrazione di una continuità nella produzione, della qualità scientifica nonché del riconoscimento dei risultati della ricerca anche a livello internazionale. La situazione è resa più critica dalla norma che prescrive l’esclusione dalla tornata successiva; un provvedimento che provoca un grave danno a tutti, anche a coloro che non hanno ottenuto l’abilitazione nonostante abbiano conseguito solo due voti negativi su cinque, ovvero a seguito di un giudizio di minoranza.
Le nostre considerazioni sono certamente dettate da sorpresa e delusione e dal desiderio di rivendicare la dignità pubblica di una carriera ricca di studi e di interventi sui monumenti, ma anche dalla volontà di esprimere il nostro parere sulla situazione generale della disciplina e contribuire così, almeno in minima parte, a migliorare una procedura di reclutamento nella cui innovatività e trasparenza in molti avevano creduto.
Una domanda tra tutte, da porre al MIUR e all’ANVUR: perché creare il sistema delle mediane, con impiego di risorse per altro elevato, per poi non vigilare in alcun modo che si tenesse conto di quegli indicatori? Nel caso del settore 08/E2, l’anomala discrezionalità con cui sono stati utilizzati gli indicatori di qualità costituiti dalle “mediane”, emerge dai risultati emersi dall’ottimo lavoro di analisi dei dati complessivi dell’ASN stilate da M. Marzolla (http://www.moreno.marzolla.name/software/asn/). Dalle dettagliate tabelle pubblicate in questo lavoro, risulta che nell’area 08 il settore 08/E2 (Restauro e Storia dell’Architettura) ha abilitato, sia in I che in II fascia, una frazione non trascurabile di candidati, pari a circa il 24%, che non superava nessuna mediana o una sola mediana, in questo distinguendosi nell’ambito dello stesso settore 08, generalmente più attento nel concedere l’abilitazione a candidati al di sopra delle mediane. Per contro, e a riprova di una evidente distorsione del metodo di valutazione, circa il 20% dei non abilitati alla II fascia e circa il 24% dei non abilitati alla I fascia superava tutte e tre le mediane.
Il dato va interpretato alla luce della circolare del ministro Profumo dell’11 gennaio 2013 con cui si invitava a non valutare in senso troppo rigido questi indicatori numerici, ricercando piuttosto l’eccellenza: si può infatti dare il caso che esista un Einstein che con 10 pagine rivoluziona gli orizzonti di una disciplina (improbabile) o che le centinaia di pagine di un altro non vi abbiano aggiunto alcun dato di valore (solo poco meno improbabile). Tutto plausibile, a patto però che si possa allora entrare a fondo nel merito delle ricerche e delle pubblicazioni per valutarne originalità, profondità, ampiezza di orizzonti, impatto nella disciplina: un atteggiamento che non era evidentemente nelle corde di questa commissione. Con un’attitudine più equilibrata si sarebbe evitato, giusto a titolo di esempio e per tornare alla Storia dell’architettura e al Restauro, di far sparire del tutto dal panorama degli studi un’intera branca, quella che si occupa dei monumenti antichi. Questi studi, tutt’altro che “di nicchia”, sono componente fondamentale di una più ampia visione culturale dell’architettura, ma in diversi giudizi dei commissari essi sono stati talvolta considerati marginali, confusamente legati al mondo dell’archeologia piuttosto che dell’architettura, confondendo così le diverse metodologie di indagine.
Sia nella seconda che nella prima fascia, non sono stati abilitati, con manifesta volontà di esclusione, i pochi candidati del settore specifico, firmatari di questa lettera, per altro tutti provenienti dalla Scuola Archeologica Italiana di Atene, senza dubbio la più prestigiosa istituzione italiana all’estero nel settore dell’antico, di più che centenaria tradizione. Anche questo è un dato da analizzare: sembra, infatti, trattarsi di un indirizzo culturale preciso, secondo il quale non si ritiene evidentemente che in un paese come il nostro possa verificarsi la necessità di portare avanti, sostenere, agevolare studi indirizzati al campo dell’architettura antica. Che esista un orientamento del genere non è fatto nuovo e parte almeno dal 2006, da quando cioè un decreto ministeriale firmato dai ministri Moratti e Buttiglione, cedendo alle esigenze di qualche ottuso corporativismo, escludeva i laureati in architettura dall’accesso alle Scuole di Specializzazione in Storia dell’Arte e in Archeologia (e quindi alla stessa Scuola di Atene, privata così per la prima volta dalla sua fondazione nel 1911 di allievi architetti).
Le conseguenze dell’esclusione non necessitano di molti commenti e le lamentazioni continue sul degrado del nostro patrimonio archeologico appaiono ciniche ed ipocrite dopo il depauperamento di competenze tecniche e dunque culturali che vivono quotidianamente i nostri organi di tutela. Non hanno bisogno le Soprintendenze Archeologiche, impegnate come sono nella difficoltà della conservazione, di funzionari architetti con adeguata cultura nel settore dei monumenti antichi, formatasi sulla carne viva dei monumenti e non solo sulle storie delle storiografie? Non sanno che farsene i Musei archeologici in Italia di progettisti in grado di dialogare proficuamente con i curatori di collezioni che spesso si devono “adattare” a contenitori concepiti indipendentemente dal contenuto? Non servono ai nostri monumenti architetti esperti in restauro e progettisti che sappiano intervenire con maggiore cognizione di causa e rispetto sul patrimonio monumentale antico, di cui pure vantiamo in Italia qualche esemplare? Non abbiamo bisogno, infine, di studiosi che portino avanti una tradizione che è stata di Gustavo Giovannoni, di Luigi Crema, di Piero Sanpaolesi, di Giuseppe Zander, di Paolo Marconi?
In conclusione, questo sistema, così come concepito e attuato, si presta forse troppo bene a creare situazioni molto sbilanciate e va corretto. La discrezionalità di cui le commissioni si sono avvalse è eccessiva e non solo stravolge completamente il valore oggettivo delle mediane, per quanto giustamente correggibile o interpretabile in presenza dell’Einstein di cui sopra, non solo rischia di sottostimare o addirittura annullare intere branche delle discipline, ma riproduce anche gli effetti nefasti dei localismi che l’intera procedura dell’ASN voleva quanto meno ridurre, con commissari che, rinunciando ad onestà ed obiettività, fanno passare quasi solo candidati a loro vicini per area di interesse o di provenienza. L’intera procedura, ben al di là di quella semplice abilitazione a partecipare a futuri e possibili concorsi stabilita per legge, si è trasformata in itinere in un concorso locale esteso però su scala nazionale, con tutte le prevedibili distorsioni.
Chiediamo al nuovo Ministro, con la sua sensibilità di studiosa e la sua competenza di docente universitario e di Rettore, di tenerne conto.
Roma, 3 marzo 2014
Monica Livadiotti; Carmelo G. Malacrino; Nicolò Masturzo; Giorgio Ortolani; Paolo Vitti.
31. Lettera del Coordinatore della Giunta dei PO dell’SSD BIO/10 sulla mancata pubblicazione degli esiti del settore concorsuale 05/E1
Ai Membri del Collegio dei proff. Ordinari del SSD BIO/10
e p.c.
Al Ministro dell’Istruzione e dell’Università
Al Presidente del CUN
Al Presidente della CRUI
Al Presidente della Commissione ASN 05/E1
Al Presidente della Società Italiana di Biochimica
Cari Colleghi,
Vi scrivo questa lettera a nome dell’intera Giunta del nostro Collegio, per parteciparVi la nostra “più viva preoccupazione” per il ritardo, che reputiamo a dir poco ingiustificabile, del Ministero nel rendere pubblici i risultati dei lavori della Commissione dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN) relativa al settore concorsuale 05/E1 (SSD BIO/10-12).
Ho parlato nei giorni scorsi più volte personalmente sia con il Presidente della Commissione, prof. Carmine Di Ilio, sia con alcuni funzionari e dirigenti del MIUR allo scopo di conoscere i motivi di detto ritardo.
Il Collega Di Ilio mi ha confermato che da quando la Commissione ha inviato gli atti al Ministero (molti giorni prima della scadenza prevista dalla Legge), non ha ricevuto alcuna comunicazione da parte di quest’ultimo relativa ad eventuali problemi procedurali e di corretteza degli atti. D’altro canto, anche tutte le persone da me contattate al Ministero, come anche quelle contattate dal Collega Mauro Magnani (delegato della Giunta per i rapporti con il MIUR), hanno ripetutamente sostenuto che gli atti della Commissione sono al momento sottoposti ai controlli previsti e che il lavoro è complesso e merita di essere effettuato nei giusti tempi e nelle giuste modalità.
Molti Colleghi Biochimici ci rappresentano con comprensibile preoccupazione la loro grande difficoltà a livello locale, dove i Rettori ed i CdA si apprestano a bandire i concorsi. A tale proposito, l’intera Giunta ritiene che sarebbe profondamente sbagliato e non corretto moralmente e giuridicamente procedere a bandire i concorsi in questa fase, tenendo conto esclusivamente dei risultati delle ASN resi pubblici fino a questo momento senza attendere che gli esiti di “tutte” le ASN siano pubblicati sul sito web del MIUR. Non si capirebbe, infatti, per quale ragione, logica e giuridica, i Colleghi aspiranti a divenire proff. Associati ed Ordinari negli SSD BIO/10-12, che hanno presentato domanda di ASN e che sono risultati idonei secondo i giudizi della Commissione, debbano essere penalizzati rispetto agli altri candidati giudicati idonei in altri settori concorsuali, semplicemente a causa di ritardi nei controlli e nelle verifiche che sono indipendenti da qualsiasi responsabilità se non quelle esclusive del Ministero. Se ciò dovesse accadere, immagino che una moltitudine di ricorsi al TAR verrebbero legittimamente presentati allo scopo di sospendere ed annullare le procedure concorsuali eventualmente avviate.
Alla luce di quanto esposto, e con la speranza che nelle prossime ore siano resi pubblici gli esiti di tutte le ASN, Vi invito da un lato a rappresentare con la giusta forza ai Rettori dei Vostri Atenei la necessità di attendere, per l’avvio delle procedure concorsuali, la pubblicizzazione dei risultati di “tutte” le ASN. Dall’altro, Vi partecipiamo la vigile attenzione che l’intera Giunta, ed il sottoscritto in particolare in quanto suo Coordinatore, hanno avuto, stanno avendo e continueranno ad avere nei confronti di tale “inaspettata e preoccupante” situazione, pronti a sostenere le inevitabili e giuridicamente corrette iniziative qualora ci vedessimo costretti a dover difendere per tale via i legittimi interessi di tanti nostri Colleghi che sarebbero danneggiati da ingiuste decisioni le cui cause non contemplano assolutamente loro personali responsabilità.
Un caro saluto,
Raffaele Porta
Coordinatore della Giunta PO SSD BIO/10
30. Lettera aperta al Ministro Giannini da parte di un gruppo di studiosi di discipline giuridiche con curriculum internazionale
27 Febbraio 2014 Al Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Stefania Giannini
e per conoscenza: Al Presidente del Consiglio dei Ministri, Matteo Renzi; Al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano; Al Commissario Europeo per l’Educazione e la Cultura, Androulla Vassilou; Al Capo Settore Politiche e Modernizzazione Universita’, DG EAC, Peter Van Der Hijden; Al Capo di Gabinetto del Ministero dell’Istruzione, dell’Universita’ e della Ricerca, Alessandro Fusacchia e organi di informazione nazionali.
Onorevole Ministro,
Siamo un gruppo di studiosi italiani (o stranieri residenti in Italia) la cui attività di ricerca si è svolta prevalentemente in ambito internazionale. Nonostante i percorsi di formazione diversi, ci accomuna un’idea di accademia aperta e strettamente collegata alle varie comunità scientifiche sovranazionali: abbiamo studiato o lavorato in università e centri di ricerca non italiani e i nostri lavori sono pubblicati, previo referaggio, su riviste scientifiche o presentati nell’ambito di convegni internazionali. Crediamo, insomma, che nell’epoca di Internet e di Google sia miope e irrazionale credere che la cultura o il sapere scientifico possano essere delimitati territorialmente.
Come gran parte della comunità scientifica italiana, anche noi avevamo riposto molte speranze nell’introduzione di un sistema di Abilitazione Scientifica Nazionale volto ad attestare, secondo procedure trasparenti, la qualificazione scientifica dei candidati alla prima e alla seconda fascia dei professori universitari.
Per la prima volta l’Italia istituiva, a monte dei concorsi universitari, una procedura analoga a quelle esistenti in altri Paesi europei e volta a valutare, sulla base di criteri predeterminati ed oggettivi, i titoli e le pubblicazioni scientifiche di ciascun candidato.
Ci siamo illusi che l’obiettività della valutazione e la trasparenza della procedura avrebbero offerto potenti anticorpi al sistema preesistente, che soffriva di un’oggettiva inclinazione a favorire gli ‘interni’, e avrebbe permesso a candidati ‘esterni’ al sistema di partecipare a procedure chiare e imparziali e di essere giudicati sulla base dei loro meriti individuali, peraltro già attestati in sede internazionale.
Insomma, ci siamo permessi di credere che perlomeno l’idoneità a svolgere quelle mansioni nel nostro Paese di origine ci sarebbe stata riconosciuta.
Per molti di noi si sarebbe trattato di un piccolo riconoscimento della qualità del nostro lavoro da parte del nostro Paese. Ci sembrava anche importante lanciare un messaggio di vivo interesse e impegno per le istituzioni che ci hanno formato e di speranza di cambiamento.
Purtroppo, almeno a giudicare dalla esperienza di molti di noi, ciò non sembra essere avvenuto nella maggior parte dei settori concorsuali di discipline giuridiche per cui sono stati sinora pubblicati i risultati.
Sebbene questa non sia la sede per valutare nel merito la procedura, la pubblicità degli atti ha tuttavia reso evidente un malinteso nella conduzione di quest’operazione. Sembra che un pregiudizio negativo (conscio o incoscio che sia) abbia caratterizzato i giudizi relativi a coloro che non hanno svolto la loro attività di ricerca in Italia (o comunque hanno seguito percorsi professionali non conformi alle norme sociali dell’accademia italiana). Lo si è fatto adottando criteri restrittivi basati spesso su logiche vetuste, incomprensibili cavilli burocratici e metodologie di valutazione estranee o difformi dalle migliori pratiche di valutazione della ricerca scientifica a livello internazionale. Con un inquietante contrappasso, la procedura di abilitazione è servita a perpetuare quel miope provincialismo che corrompe le istituzioni accademiche e che non fa onore al nostro Paese.
Dichiarando non idonei candidati che hanno maturato esperienza e conseguito riconoscimenti all’estero, mortificando con giudizi ostili giovani studiosi che hanno seguito un percorso interdisciplinare, escludendo pregiudizialmente la qualità e la rilevanza scientifica di scritti pubblicati in riviste internazionali di primo piano ma non conformi ai rigidi schematismi degli inquadramenti per settori scientifico-disciplinari, il mondo accademico italiano compie una scelta di campo che ne diminuisce la credibilità.
Infine, ci chiediamo come si giustifichi il fatto che giovani docenti stranieri, già ritenuti idonei a esercitare la professione oltre confine tramite procedure analoghe a quella italiana, cessino di essere idonei alla ricerca scientifica e all’insegnamento universitario quando varcano i confini italiani.
La prima tornata di Abilitazione Scientifica Nazionale avrebbe potuto essere l’occasione per sanare la diaspora dei ricercatori italiani e premiare coloro che lavorano in Italia ma hanno un curriculum internazionale. Nessuna di queste due speranze è stata realizzata. Le sue prime dichiarazioni da Ministro a favore del merito nella scuola e nell’universita’, ci fanno sperare che azioni concrete siano presto studiate e adottate per rimediare a situazioni, come quella qui esposta, assolutamente inaccettabili e che mettono a rischio la capacita’ del sistema accademico italiano di attrarre le migliori energie a livello internazionale.
Le garantiamo che non sarà certo questa vicenda a indebolire il nostro impegno scientifico né il nostro amore per l’Italia, ma la credibilità del sistema accademico italiano, per non dire la sua capacità di attrarre talenti, ne esce gravemente indebolita.
Con l’occasione, Le inviamo i migliori auguri di buon lavoro.
Promotori e primi firmatari
Alberto Alemanno, Jean Monnet Professor of EU Law, HEC Paris; Global Professor of Law, New York University School of Law;Alessandra Arcuri, Associate Professor, Department of International and European Union Law, Erasmus School of Law, Erasmus University Rotterdam; Enrico Bonadio, Lecturer in IP law and EU law, City University, London; Mariano Croce, University of Antwerp; Roberta Ferrario, Institute for Cognitive Sciences and Technologies, National Research Council, (CNR), Povo (Trento); Federico Ferretti, Lecturer in Law, Brunel University, London; Delia Ferri, National University of Ireland- Galway; Maria Caterina La Barbera, Centro de Estudios Políticos y Constitucionales de Madrid; Nicola Lucchi, Jönköping International Business School; Giuseppe Martinico, García Pelayo Fellow, Centro de Estudios Políticos y Constitucionales (CEPC), Madrid; Mel Marquis, Part-time Professor of Law, Istituto Universitario Europeo; Co-Director, EU Competition Law and Policy Workshop; Co-Director, Rome Antitrust Policy Forum;Giuseppe Mazziotti, Associate Research Fellow, Centre for European Policy Studies (CEPS), Bruxelles; Federico Ortino, Reader in International Economic Law, King’s College London; Alessio M. Pacces – Professor of Law and Finance, Erasmus School of Law, Erasmus University Rotterdam and Research Associate, European Corporate Governance Institute, Brussels; Sara Poli, Professore associato, Università di Pisa; Andrea Renda, Senior Research Fellow, Centre for European Policy Studies (CEPS), Bruxelles; Marta Simoncini, University of Antwerp; Alessandro Spina, Legal Officer, European Medicines Agency, London; Seline Trevisanut, Marie-Curie Fellow and Assistant Professor, University of Utrecht; Matteo Winkler, Adjunct Professor of International and European Law, Università Bocconi- Milano; Lorenzo Zucca, Reader in Jurisprudence, King’s College London
Si raccolgono ulteriori domande adesione alla lettera e/o altre forme di sostegno . Si prega di inviare un’e-mail a: asnlettera@yahoo.it
29. CE AIP, Esiti dell’abilitazione nazionale per il raggruppamento concorsuale 11/E3: considerazioni e proposte
Esiti_abilitazione_Mpsi06-05
28 J. Papp, A proposito dell’ASN nel s.c. 10/G1 – glottologia e linguistica
10G1
27. M. Ferretti, Il mestiere di storico secondo la commissione di storia contemporanea: quantità versus qualità
Incurante delle raccomandazioni ministeriali, che insistevano sulla necessità di valutare in modo analitico la qualità della produzione scientifica dei candidati, tenendo anche conto della rilevanza internazionale dei lavori[1], la commissione dell’ASN di storia contemporanea (11A/3) ha ben creduto di procedere per vie più sbrigative e di stabilire, senza alcuna motivazione di merito, che per ottenere l’abilitazione di prima fascia fosse necessario presentare tre monografie, alzando in tal modo l’asticella delle mediane per quel che riguardava un solo, e assai opinabile, indicatore. La commissione di contemporanea è stata, almeno a stare ai risultati usciti finora, l’unica nell’area a riprendere integralmente le prime indicazione date nell’ormai lontano 2011 dal GEV 11, presieduto da Andrea Graziosi, dimenticando però – curiosa amnesia – che lo stesso testo prevedeva, forse sotto la pressione del malcontento delle comunità scientifiche costrette a piegarsi a norme capricciose e incongrue per la produzione del sapere umanistico, una sorta di tabella di equivalenze, secondo cui la monografia “valeva” due saggi e un saggio in una rivista internazionale “pesava” addirittura di più[2]. Perché tanto zelo? Perché, se condividiamo con i medievisti e i modernisti gli stessi strumenti e gli stessi problemi epistemologici del mestiere di storico (quel che cambia è il periodo studiato, non il metodo!), noi contemporaneisti ci siamo trovati con una barriera quantitativa particolare, peraltro assai discutibile, che nessun altro aveva?
Sarà stato per il poco tempo che i commissari avevano a disposizione, visto che, coi tempi imposti dall’efficientismo tecnocratico dell’allora ministro Profumo e con tutti quei candidati (più di 500!), le ore da dedicare ai testi sottoposti a giudizio erano veramente pochine, e questo piccolo escamotage li ha esonerati dal doverli leggere con un minimo d’attenzione, in maniera da poter formulare il giudizio analitico e argomentato richiesto: leggere, checché se ne voglia dire, è infatti l’unico modo per valutare la qualità della ricerca, e quindi il “merito” degli studiosi, che esce svilito e ridicolizzato da questa operazione. Già questo dovrebbe bastare a invalidare la procedura, i cui vizi erano evidenti, come ben sanno i lettori di roars, fin dall’inizio. A stare ai verbali, infatti, i commissari, se pure hanno lavorato indefessamente per 12 ore al giorno, senza nemmeno alzare il naso dalla scrivania, hanno avuto 14 minuti per guardare le singole pubblicazioni, ovvero 3-4 ore a candidato in tutto; una volta riuniti, hanno avuto meno di 5 minuti per ogni dossier, nemmeno 2 minuti per formulare il giudizio definitivo. Per la seconda fascia, il tempo a disposizione è stato ancora più ridotto, come si può vedere dalla tabella acclusa. La fretta è stata cattiva consigliera, e i commissari non si sono accorti di dare l’abilitazione a due ordinari a maggioranza semplice: ma niente paura, è bastato riaprire il procedimento in autotutela “al fine di emendare vizi formali” perché il presidente, senza alcuna motivazione di merito, cambiasse idea, modificando, con un procedimento di dubbia legittimità, la sostanza del suo giudizio.
I LAVORI DELLA COMMISSIONE IN CIFRE
Data
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Durata
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Oggetto
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Note
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29 gennaio 2013 |
5h30(10.30-16.00) |
Insediamento – Dichiarazione assenza incompatibilità con i candidati – Definizione criteri(Roma 3, Via Chiabrera) |
Fra i criteri, la commissione decide di alzare l’asticella .delle mediane: la quantità prevale sulla quantità |
4 aprile 2013 |
6h30(11.00-18.30) |
Discussione dei curricula, dei profili e della produzione scientifica dei 425 candidati di seconda fascia in base al lavoro istruttorio condotto dai singoli commissari(Roma 3, Via Chiabrera) |
Pubblicazioni valutate: 5.100 se tutti ne hanno presentate 12; giorni intercorsi dalla prima riunione per leggerle: 65 giorni, 780 ore se si calcola che vi abbiano lavorato 12 ore al giorno senza far altro, il che fa 9 minuti a pubblicazione, oppure meno di due ore a candidatoTempo dedicato in media all’analisi dei giudizi su ogni candidato: meno di due minuti, senza prendere nemmeno un caffè o andare in bagnoCome sia stata possibile l’”ampia discussione dei curricula, dei profili e della produzione scientifica dei candidati”, sia pur “sulla base del lavoro istruttorio condotto dai singoli commissari”, resta per i comuni mortali un mistero |
5 aprile 2013 |
7h30(9.00-16.30) |
Prosecuzione dei lavori del giorno precedente |
16 maggio |
7h30(10.30-18.00) |
Discussione dei curricula, dei profili e della produzione scientifica dei 116 candidati di prima fascia in base al lavoro istruttorio condotto dai singoli commissari(Roma 3, Via Chiabrera) |
Pubblicazioni valutate: 2.088; giorni intercorsi dalla fine della valutazione della seconda fascia: 40 giorni, 480 ore se si calcola che vi abbiano lavorato 12 ore al giorno senza far altro, il che fa un po’ meno di 14 minuti a pubblicazione, ovvero circa 4 ore a candidatoTempo dedicato in media all’analisi dei giudizi su ogni candidato: meno di cinque minuti, senza né caffè né pause di altro genereAnche in questo caso, come sia stata possibile l’”ampia discussione dei curricula, dei profili e della produzione scientifica dei candidati”, sia pur “sulla base del lavoro istruttorio condotto dai singoli commissari”, resta per i comuni mortali un mistero |
17 maggio 2013 |
2h00(9.00-11.00) |
Prosecuzione dei lavori del giorno precedente |
13 giugno 2013 |
5h30(10.30-16.00) |
Discussione dei curricula, dei profili e della produzione scientifica dei 541 candidati di entrambe le fasce, sempre in base al lavoro istruttorio condotto dai singoli commissari, e presumibile formulazione dei giudizi(Roma 3, Via Chiabrera) |
E’ presumibilmente in queste riunioni che si formulano i giudiziTempo di riunione: 16 ore; tempo dedicato in media per discutere il giudizio su ogni candidato: meno di due minuti |
27 settembre 2013 |
5h30(10.30-16.00) |
Prosecuzione della discussioneIl presidente, prof.Pivato, è collegato in via telematica(Roma 3, Via Chiabrera) |
29 ottobre 2013 |
5h(11.00-16.00) |
Prosecuzione della discussione(Roma 3, Via Chiabrera) |
20 novembre 2013 |
3h(11.00-14.00) |
La commissione completa la discussione e la messa a punto dei giudizi collegiali; nel contempo, avvia la pubblicazione dei giudizi individuali sul sito ministeriale(Roma 3, Via Chiabrera) |
Chiusura delle pratiche |
29 novembre 2013 |
2h15(14.00-16.15) |
Seduta finale, telematica |
Definitiva pubblicazione dei risultati sul sito ministeriale e redazione della relazione riassuntiva dei lavori |
15 gennaio 2014 |
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La commissione ottiene, con decreto direttoriale del MIUR, una ulteriore proroga al 31 gennaio 2014 per “autotutelarsi”, proroga concessa con la motivazione di “consentire alla commissione di procedere alla correzione dei predetti giudizi” |
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17 gennaio 2014 |
1h00(16.00-17.00) |
La commissione, che opera in collegamento telematico, riapre i lavori “al fine di emendare vizi formali presenti nei giudizi di alcuni candidati” (c.m.) |
Per i due ordinari abilitati a maggioranza semplice, l’emendamento del vizio formale dovrebbe tradursi in un risultato negativo, visto che così prevede la legge. Si procede invece a una modifica sostanziale, in quanto il presidente di commissione, che si era opposto all’abilitazione, cambia idea, senza peraltro fornire la motivazione della sua decisione |
Fonti:
verbali della commissione, giudizi sui candidati: https://abilitazione.cineca.it/ministero.php/public/elencodomande/settore/11%252FA3/fascia/1;
https://abilitazione.cineca.it/ministero.php/public/elencodomande/settore/11%252FA3/fascia/2
decreto di proroga: https://abilitazione.cineca.it/documenti/commissario/note/MIUR.AOODPUN.REGISTRO%20DECRETI.0000089.15-01-2014.pdf
Tempi da record, no? Se la missione era impossibile, nulla impediva però ai commissari di protestare o di sottrarsi al compito, dimettendosi. Perché è evidente che esser giudicati in questo modo è, per chi studia e fa ricerca sul serio, veramente umiliante. Ma a quanto mi risulta non si è dimesso nessuno. Anche perché, ben celate al riparo della pretesa neutralità dei numeri (come se gli indicatori numerici non si costruissero, ma fossero una sorta di dato oggettivo), le diverse consorterie accademiche hanno negoziato e trattato, col risultato che la tanto esaltata e “moderna” abilitazione nazionale per reclutare docenti universitari all’altezza dei loro compiti si è tradotta, secondo le migliori tradizioni nazionali, in una colossale operazione gattopardesca ammantata dalla retorica del merito, operazione che sarà ben presto coronata da concorsi locali, dove le baronie faranno, nel bene e nel male, il bello e il cattivo tempo. Niente male come risultato, per una legge che aveva strombazzato ai quattro venti l’intenzione di voler metter fine a familismi, clientelismi e potentati accademici in nome del merito e prometteva di garantire la selezione dei “migliori”. Per dirla con le parole del premier russo ai tempi di El’cin, Viktor Černomyrdin, artefice di una disastrosa riforma monetaria, “volevamo fare per il meglio, ma è andata come al solito”. Anzi, se è per questo da noi è andata pure peggio, perché nei tanti biasimati vecchi concorsi almeno i commissari leggevano i testi e formulavano giudizi di merito.
Se il problema fosse soltanto questo, non varrebbe nemmeno la pena di perderci tempo; meglio voltar pagina e mettere l’ASN in soffitta, assieme alle tante ingiustizie e soprusi a cui ormai siamo da tempo abituati, visto che ancora una volta è stato promosso, con poche eccezioni, chi doveva. Il problema vero, però, è che il modo in cui la commissione di contemporanea ha solertemente applicato i criteri quantitativi di valutazione promossi dall’Anvur ha conseguenze gravissime sia a breve che a lungo periodo. Per capirlo, basta andare a vedere cosa c’è dietro la pretesa oggettività degli indicatori quantitativi adottati dalla commissione. “Monografia” è in realtà un termine piuttosto abusato dai contemporaneisti. Tradizionalmente, come recitano i dizionari, una monografia è uno studio esaustivo e dettagliato su un tema preciso, in genere limitato: un lavoro che, se ben fatto, diventa un’opera di riferimento da tener nello scaffale. E questo richiede in genere anni di paziente lavoro, perché nelle scienze umane il sapere si accumula lentamente e si affina a lungo: le buone monografie sono in genere il risultato distillato di molti anni di ricerca e riflessione (pensate, per esempio, a Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg o Una guerra civile. Saggio storico sull’etica della Resistenza di Claudio Pavone). Ma fra i contemporaneisti, gente moderna, è invalsa invece la pratica (peraltro contagiosissima) di definire monografia un qualsivoglia libro stampato, purché con note o, come va di moda oggi, con una bibliografia finale più o meno nutrita e completa che le sostituisce – questione su cui tornerò più avanti. Questo slittamento terminologico, peraltro avallato anche dal CUN[3], fa sì che si richiedano non tre studi monografici, del resto difficilmente producibili nel breve lasso di tempo indicato, ma tre semplici libri, che possono essere di natura assai diversa: monografie, saggi, sintesi di tipo manualistico, libri d’occasione (che non mancano, vista la febbre degli anniversari che caratterizza la nostre epoca satura di memoria), testi divulgativi e via dicendo. Generi tutti legittimi e molto utili se ben fatti, naturalmente, ma che, se proprio vogliamo restare sul quantitativo, implicano quantità assai diverse di lavoro incorporato: quanto più è complesso il tema affrontato, quanto più esaustivo e innovativo è il lavoro, quanto più è complesso reperire le fonti – cioè quanto più si fa quella che gli scienziati chiamano ricerca di base -, tanto più tempo è necessario per scriverlo. Ma a parte questo, il problema vero, che rende queste “misurazioni” sbagliate e pericolose, è un altro. In Italia si pubblicano, nel campo della storia contemporanea, troppi libri e troppi pochi libri che valga la pena leggere, perché infarciti di stereotipi e luoghi comuni triti e ritriti, non di rado con errori e castronerie, libri da cui non si impara niente di nuovo, testi più che discutibili su piano scientifico che vengono poi somministrati ai malcapitati studenti. Perché allora si pubblicano?, vi chiederete.
Perché siccome tutti sanno che “il libro serve” per la contabilità concorsuale, o, nel migliore dei casi, per la visibilità anche coi colleghi, si fanno carte false per averlo. Tutti sappiamo, del resto, come, in vista dell’abilitazione, le case editrici siano state prese d’assalto dagli aspiranti candidati, ansiosi di ottenere almeno un codice ISBN da presentare. Le pratiche per pubblicare un testo sono molteplici, in un paese l’editoria è in crisi da anni e in cui non esiste una politica seria e trasparente di sostegno alle pubblicazioni scientifiche, che ovviamente non possono, nella stragrande maggioranza dei casi, reggersi sul mercato, tanto più che le biblioteche universitarie, che dovrebbero esserne i principali destinatari, sono in ginocchio e non comprano quasi più nulla. Per poter pubblicare il libro, allora, se ne garantisce all’editore l’adozione, di modo da assicuragli le vendite, spesso con un sistema di favori incrociati: è un gesto di gentilezza verso un collega adottare il suo libro, cortesia che sarà presumibilmente ricambiata. Siccome poi ormai i libri, per essere adottati, non devono superare un certo numero di pagine (possibilmente 200-250) per il “tetto” messo sui testi che gli studenti devono portare agli esami (così aumenta la quantità dei somari laureati!), molti colleghi si sono messi a fare in fretta e furia volumetti assai generali adatti alla bisogna, per avere anche un po’ di mercato – il che ha la perversa ricaduta che gli editori storcono il naso davanti a volumi più corposi, che “non vanno”, con la conseguenza di creare un circolo vizioso che fa abbassare ulteriormente il livello, tanto più che i vecchi libri vengono tolti dalla circolazione per i costi che comporta mantenerli. Senza contare che la scomparsa accelerata di opere di riferimento, sostituite da testi più agili, distrugge un altro istituto cruciale della vita culturale quali erano (e sono in molti paesi, come la Francia) i cataloghi editoriali.
Se non si può far adottare il proprio libro, l’alternativa c’è: pagare gli editori, ridotti ormai al triste ruolo di stampatori. Si paga, e anche profumatamente, usando fondi pubblici, magari dirottati tacitamente ad hoc dai fondi di ricerca, oppure di tasca propria, attingendo magari, nel caso dei giovani ricercatori, al patrimonio familiare, perché tanto più prestigioso è l’editore, con prezzario conseguente, tanto maggiori saranno le possibilità di riuscita del rampollo – nuova edizione del medievale acquisto delle cariche. Pecunia non olet, e nessun editore, nemmeno i più rinomati per la loro serietà, disdegna di incassare senza troppo rumore qualche migliaia di euro, una volta che la richiesta è appoggiata dall’accademico di riferimento, che così ricompensa l’allievo schiavo a cui magari poi fa fare corsi e esami gratis, nella più pura logica della clientela universitaria. C’è poi la pletora dei piccoli editori locali, a volte sovvenzionati dalle amministrazioni o da fondazioni private, che si sono moltiplicati come funghi negli ultimi tempi e ci invadono di offerte pubblicitarie per pubblicare con loro a prezzi competitivi. L’ultima che ho ricevuto, particolarmente grottesca, offre per meno di mille euro il libro “chiavi in mano” in 5 giorni lavorativi, e garantisce tutti i requisiti formali richiesti dall’ANVUR – presenza nelle banche dati internazionali, citazioni e via dicendo. Con questo, non voglio affatto dire che non ci siano ottime piccole case editrici e che gli editori locali non pubblichino testi assolutamente degni: dico soltanto che la sede editoriale in quanto tale non è necessariamente una garanzia di qualità, e che quindi l’idea che circola nell’Anvur di fare, dopo i pasticci fatti con le riviste, anche una lista di editori “scientifici” è sbagliata, perché serve soltanto a far lievitare i prezzi. Non c’è niente da fare, se si vuole valutare un testo, l’unico modo è leggerlo. Non ci si può nemmeno affidare alle recensioni, e non solo sulla stampa, fatte in genere in base alle reti di conoscenza personale, ma nemmeno sulle riviste specializzate, perché le recensioni critiche sono passate di moda (uno sgarbo al collega o al suo protégé?), il che inquina la vita scientifica – del resto l’Anvur le scoraggia, visto che nel totopunti dell’Agenzia le recensioni contano pochissimo. E questo incoraggia la superficialità e l’ignoranza, uccide il pensiero critico.
Se serve per dare visibilità, nuovo idolo dell’era dello spettacolo, il libro in sé serve quindi a ben poco come indicatore del valore della ricerca. Anche perché nell’epoca del copia-incolla fare un libro in fretta, approfittando delle diverse opportunità, è spesso più semplice e veloce che non scrivere un buon saggio di ricerca. La commissione avrebbe quindi dovuto usare, almeno a pari merito, gli articoli pubblicati in sedi qualificate, perché, quando si porta avanti una ricerca di un certo respiro, prima di approdare alla monografia in genere si espongono e si approfondiscono singole parti del lavoro in corso d’opera in una serie di saggi, che vengono sottoposti al giudizio della comunità scientifica prima di arrivare al pubblico più vasto. Questo permette, tra l’altro, di snellire il prodotto finale, perché una serie di dettagli specialistici per addetti ai lavori vengono sostituiti col rinvio a testi precedenti, scritti, questi, con le regole filologiche classiche della costruzione del sapere, cioè con le note che rinviano alle fonti, primarie e secondarie, su cui si basano le affermazioni sostenute. Se la mia affermazione non ti convince, puoi andare a verificare la fonte e avanzare le tue obiezioni. Prendere o lasciare. Senza contare che l’umile e paziente lavoro di verifica che serve per far le note è certo assai dispendioso in termini di tempo, ma è indispensabile, non solo perché evita sviste e castronerie, visto che la memoria è fallace, ma anche perché impone quel rigore del metodo che solo legittima le pretese della storia di essere una disciplina “scientifica” e non un’arte. Questo è, come insegnava Marc Bloch, uno dei più grandi storici del XX secolo, le métier d’historien. Proprio per questa ragione trovo sconcertante la nuova moda, assai in voga fra i contemporaneisti (incoraggiati dagli editori, preoccupati dall’abbattimento dei costi), di non mettere più le note, col comodo pretesto che “appesantiscono” il testo, e sostituirle con magari corpose bibliografie, che spesso colpiscono però soltanto chi non è al corrente dello stato dell’arte: questo mina alla base la costruzione stessa del sapere e rende il discorso molto più autoritario, svilendo il pensiero critico (è vero perché lo dico io). E trovo altrettanto sconcertante che la mediana degli articoli in fascia A degli ordinari fosse… zero!
Forse per questo la commissione di storia contemporanea ha ritenuto di non tenere in alcun conto, in barba alla normativa, i saggi, nemmeno appunto quelli della cosiddetta fascia A, che dovrebbero avere un grado di scientificità indiscutibile. Peraltro, è bene ricordare che, per contemporanea, la fascia A era stata stabilita in modo del tutto arbitrario e immotivato, tale da far pensare a una spartizione, al riparo da sguardi indiscreti, fra consorterie accademiche. L’associazione dei contemporaneisti, la Sissco, non ne ha mai discusso. Con la motivazione della strettezza dei tempi (cosa che però non è avvenuta, per esempio, fra i modernisti), il presidente Agostino Giovagnoli, erede di Andrea Graziosi e a lui assai vicino, ha chiesto che gli venissero inviate personalmente le nostre osservazioni, senza passare per la lista; ha accolto alcune osservazioni rifiutandone altre, ma senza una pubblica discussione e quindi senza alcuna condivisione da parte della comunità scientifica, le cui perplessità sono state messe a tacere – anche perché molti, soprattutto quelli in posizione più debole, hanno spesso paura di parlare, perché si sa (o si teme) che il mondo accademico non perdoni. Come poi la lista sia stata confezionata all’Anvur, da quali esperti e con quali criteri non ci è stato dato di sapere, poiché i verbali con le motivazioni, se esistono (come dovrebbero), non sono stati mai resi pubblici. E questo alla faccia della tanto decantata “trasparenza”, che, col “merito”, è l’altra parola chiave della neolingua di orwelliana memoria dell’Agenzia. Il risultato di questa operazione è stato che tre delle principali riviste nazionali sono state degradate in serie B: Parolechiave, la rivista della Fondazione Basso, nella cui redazione siedono alcuni fra i più stimati contemporaneisti italiani, seppure ormai in pensione, quali Mariuccia Salvati e Claudio Pavone – paradossalmente Parolechiave, che è in effetti interdisciplinare (ma tutto è storia, come insegnava sempre Marc Bloch!), è in fascia A in diverse altre discipline; Italia Contemporanea, la rivista degli Istituti di storia della Resistenza (omaggio allo spirito dei tempi?); Meridiana, che è stata una delle riviste più innovative degli ultimi vent’anni e forse ha il solo difetto di essere stata fondata da Piero Bevilacqua, storico certo di indubbio valore, che ha però apertamente rifiutato fin da subito, per protestare contro la Gelmini, di prestarsi ai giochetti dell’Anvur. Si è salvata Studi storici, della Fondazione Gramsci, soltanto perché, avendo fiutato subito l’aria che tirava, ha energicamente protestato per tempo, visto che era al tempo l’unica rivista storica italiana a esser presente sul prestigioso J-store. E’ vero che le riviste italiane di storia contemporanea sono tutte in stato di sofferenza perché sono specchio di una ricerca che manca di mezzi e finanziamenti ormai da anni; ma questa non è una buona ragione per procedere in modo così palesemente arbitrario. La discrezionalità non è stata minore per le riviste straniere, anzi: sono finite in fascia A riviste che hanno pochissimo credito in campo internazionale, tanto da far pensare che fossero lì ad personam, per favorire qualche pupillo, mentre altre di nota reputazione ne sono state incomprensibilmente escluse.
La commissione di storia contemporanea, quindi, per valutare il merito, ha usato un indicatore quantitativo che non dice nulla della qualità della ricerca, non ha tenuto in alcun conto il solo indicatore che, con tutti i limiti, poteva riflettere effettivamente il valore delle ricerche e ha ignorato il terzo, il che vista la definizione della fascia A, poteva dare utili elementi di giudizio sull’attività di ricerca. Per non parlare del trattamento riservato all’internazionalizzazione, altra parola di cui si riempiono la bocca i signori dell’Anvur. Tenendo in dovuto conto lo smaccato provincialismo della stragrande maggioranza dei nostri candidati, la commissione ha stabilito che, per vedersi riconosciuto il requisito aggiuntivo dell’internazionalizzazione, bastasse… aver trascorso un mese a far ricerca o insegnare all’estero, oppure aver pubblicato un articolo in lingua straniera! Intendiamoci, nemmeno l’internazionalizzazione può diventare un feticcio, perché è evidente che, per quanto il sapere sia universale, come insegnavano i Lumi, nelle discipline umanistiche c’è molta più frammentazione specialistica. Se uno studioso si occupa di storia locale, per esempio, è ragionevole pensare che pubblichi prevalentemente in italiano (il che non toglie che possano essere testi preziosi) e abbia minori occasioni di scambio con l’estero rispetto a colleghi che studiano questioni più ampie, che maggiormente si prestano a collaborazioni e pubblicazioni internazionali. Il problema anche qui è che un indicatore quantitativo non serve a niente. Anche perché sappiamo tutti che, poiché l’internazionalizzazione è fra le parole d’ordine europee, tutti si sono affrettati, negli ultimi anni, a cercare contatti con le università straniere, che avevano il nostro stesso problema di “internazionalizzarsi” – donde il moltiplicarsi di scambi con centri di ricerca spesso sconosciuti, che pesano però come i più celebri.
A conti fatti, quindi, per il tanto decantato merito in versione ANVUR non conta la qualità della ricerca, ma conta essenzialmente la quantità: ed è questa la cosa più grave e pericolosa, perché da un lato distrugge le fondamenta stessa del sapere e, dall’altro, dà ai giovani ricercatori un messaggio del tutto fuorviante. L’importanza accordata agli indici meramente quantitativi, e al libro in particolare, servirà infatti forse a stanare i “fannulloni” di brunettiana memoria (che, se non hanno niente da dire, è meglio che non scrivano, almeno si risparmiano carta e tempo!), ma è deleteria per la costruzione del sapere, che ne viene svilita e corrotta, perché, costringendo a fare in fretta, porta a far scivolare in secondo piano il rigore metodologico e spinge alla superficialità, visto che un libro serio è mediamente frutto di anni di paziente lavoro, di lento accumulo del sapere. Non solo. Se conta solo il numero, tanto vale occuparsi di questioni semplici, o ancor meglio alla moda se non addirittura scandalistiche, che garantiscono pubblicità e notorietà immediata, indipendentemente dal contenuto e dalla serietà. Il che vuol dire scoraggiare la ricerca di base, su questioni fondamentali e di ampio respiro, che richiedono tempi lunghi per essere fatte come si deve, perché incorporano una quantità di lavoro infinitamente maggiore di temi circoscritti o di moda. Il principio del “publish or perish”, rozzamente scimmiottato dagli Stati Uniti in nome della modernità, è inoltre devastante per i giovani – gli studiosi di domani -, spinti a sbrigarsi a pubblicare a tutti i costi il “libro” senza avere il tempo di maturare, cosicché materiali come le tesi di dottorato, che potrebbero dare ottimi articoli, diventano facilmente mediocri volumi, anche perché, con la moltiplicazione esponenziale delle conoscenze e delle pubblicazioni a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni, riuscire soltanto a padroneggiare la produzione esistente e tenersi aggiornati richiede un tempo notevole. Del resto, per quel che io posso giudicare nel mio settore sulla produzione statunitense, l’imperativo di pubblicare un libro ogni tre anni fa sì che quello che potrebbe essere un buon saggio di ricerca viene allungato e sbrodolato fino a dar vita a un volumetto di un paio di centinaia di paginette, confezionato ricorrendo agli schemi stereotipati delle diverse scuole, il che porta a una sempre maggiore omologazione del sapere e svilisce ancora una volta il pensiero critico, con buona pace dello spreco di carta e inchiostro. Quanto ai nostri ricercatori, questi si trovano inoltre costretti, per poter aumentare il numero delle pubblicazioni, a preferire a un saggio impegnativo, momento importante nella maturazione di un giovane studioso, uno “spezzatino” di 3 o 4 articoli brevi, che, purché superino la fatidica soglia delle 20.000 battute, valgono ben di più di un solo scritto più lungo e ponderato. Questo sistema li incita ulteriormente a scegliere temi facili, che permettono di fare più in fretta a pubblicare e aumentare così la produzione quantitativa. Per chi insegna a fare ricerca e ha a che fare coi giovani, insorge a questo punto un problema etico: come faccio a insegnare a lavorare sul serio, a mettere in discussione i luoghi comuni, a studiare e limare anche cento volte una frase, se poi so che il mio sventurato allievo verrà penalizzato da un sistema che premia le quantità senza andar troppo per il sottile?
Non contenta dei disastrosi risultati dell’esperimento dell’abilitazione nazionale e incurante della protesta delle comunità scientifiche, l’ANVUR sta continuando a tirar dritta per la sua strada e sta mettendo a punto, anche per le scienze umane e sociali, un ulteriore sistema di valutazione quantitativa basato su pretesi indicatori ancor più “oggettivi”, come se i numeri non si costruissero, ma fossero neutri. Il nuovo idolo dell’Anvur, come è noto, è la bibliometria, che vorrebbe “misurare” il valore di uno scritto a partire dalle citazioni ricevute, come se queste potessero render conto della qualità della ricerca (se scrivi idiozie, e ti cito per confutarti, tu guadagni punti! Ne guadagni ancora di più con scritti scandalistici o alla moda, naturalmente!). Del resto, siccome dell’introduzione della bibliometria come parametro di valutazione della ricerca si vocifera da anni, i più furbetti hanno cominciato già a metter le mani avanti e le note, da un po’ di tempo a questa parte, hanno assunto un particolare valore mercantile: ti cito se mi citi, cito il tale perché me lo voglio ingraziare, non cito il tal’altro perché, anche se ha scritto cose fondamentali, fa parte di un’altra consorteria e via dicendo. Cambia così la natura delle note, che da strumento – e prova – di rigore scientifico diventano merce di scambio di un mercato invisibile ai più. Possibile che nessuno riesca a fermare questo teatro dell’assurdo in cui la Gelmini ha fatto precipitare l’università e a vederne le conseguenze? Eppure basterebbe anche solo ricordare il disastroso fallimento della pianificazione sovietica, basata proprio sull’esaltazione degli indici quantitativi a discapito della qualità. Negozi desolatamente vuoti, con scaffali colmi magari di stivali di gomma numero 48, perché la produzione della relativa impresa era misurata in quantità di gomma utilizzata e i responsabili, costretti a rispettare formalmente il piano, se ne infischiavano del fatto che i piedi dei loro malcapitati concittadini fossero più corti; casalinghi in cui potevi trovare soltanto, con disperazione degli aspiranti acquirenti, padelle pesantissime, ma non altri utensili metallici insostituibili come apriscatole o schiacciapatate, perché la produzione degli articoli da cucina era valutata secondo con l’indice della quantità di metallo impiegato, il che non rendeva conveniente produrre oggetti che richiedevano quantità di metallo inferiori – questi si potevano trovare, magari, fra souvenir, pagandoli naturalmente a prezzo ben più alto per via del manico decorato in stile nazional-popolare. E gli esempi potrebbero essere infiniti. Era la logica conseguenza non solo (e nello specifico non tanto) della mancanza del feed-back del mercato, panacea dei neoliberisti, ma di una norma sbagliata, che faceva della quantità un feticcio.
Sarebbe interessante sapere quant’è costata ai cittadini, in un paese sull’orlo della bancarotta, questa grottesca operazione dell’abilitazione nazionale, quanto costa l’ANVUR, che ha dimostrato di non essere minimamente all’altezza dei compiti che le erano stati affidati e dei poteri che si è arrogata. Non sarebbe stato molto meglio, se veramente si vuole migliorare la qualità della ricerca, che versa in uno stato di gravissima sofferenza, usare quei soldi per comprare libri e attrezzature da lavoro per studiosi e scienziati?
Post-scriptum:
Prego i critici di non cercare di delegittimare quanto ho scritto col fatto che, nonostante gli elogi che mi sono stati tributati dai commissari e il riconoscimento di una ricca produzione scientifica internazionale, non sono stata abilitata proprio per via delle famose tre monografie. Usate, per cortesia, argomenti più seri, di sostanza. Sono, e sono sempre stata, profondamente convinta del fatto che il merito, misurato in termini di qualità della produzione scientifica e di arricchimento del sapere, dovesse essere il criterio fondamentale per selezionale il personale docente dell’università, che ritengo abbia una funzione essenziale in una società che si vuole democratica e moderna. E proprio per questo sono stata sin dall’inizio contraria al sostanziale commissariamento dell’università da parte dell’ANVUR, organo assolutamente discrezionale, di nomina politica, investito di vasti poteri senza peraltro averne le competenze necessarie (dove sono gli esperti di valutazione?), e sono stata con roars contraria all’abilitazione scientifica nazionale così come è stata concepita, perché ero e sono convinta che fosse una procedura che, dietro l’apparenza tecnocratica e il ricorso a una pretesa oggettività quantitativa, avrebbe solo potuto discreditare il concetto stesso di merito, come del resto sta accadendo.
Per quel che mi riguarda, non vi preoccupate. Se sono rimasta sorpresa, è stato per l’arroganza della commissione, che ha applicato acriticamente criteri meramente quantitativi senza degnarsi di leggere i testi e di dare di conseguenza dei giudizi di merito, come prescritto. Anch’io ero a conoscenza, come tutti i miei colleghi, del fatto che “servisse” un nuovo libro. E non mi sono nemmeno, pensate un po’, mancate le offerte. E’ stata una mia scelta consapevole, nonostante mi fosse stato da più parti suggerito, non precipitarmi a confezionarne uno in fretta e furia in vista dell’abilitazione, perché così fan tutti. Ho troppo amore e troppo rispetto per i libri per farlo, e non lo farò nemmeno in futuro. Quando la Storia del Gulag su cui sto lavorando ormai da diversi anni sarà pronta, quando cioè avrò trovato una risposta convincente se non a tutte le domande, almeno a quelle fondamentali, la pubblicherò. E questo non perché io sia una perfezionista o perché soffra del complesso di Penelope, ma perché sono convinta che è così che si deve lavorare, se si vuole dare il proprio modesto contributo alla costruzione di un sapere che non sia funzionale soltanto all’attimo fuggente. Se qualcuno mi convincerà del contrario, sono pronta a cedere le armi e a chiudere il lavoro a breve termine, smettendo di scavare.
26. U. Melotti, Il caso del commissario-ministro
Una delle più gravi anomalie della recente ASN concerne un settore sociologico: Sociologia economica, del lavoro, dell’ambiente e del territorio (14/D1). La vistosa anomalia (la presenza fra i commissari di un ministro in carica) è stata oggetto anche di un’interrogazione parlamentare. Carlo Trigilia, il membro di quella commissione che era contemporaneamente ministro nel governo Letta, ha così dovuto rispondere alla Camera, il 12 febbraio 2014, su quel suo duplice ruolo, non solo inopportuno per molti, che ne avevano subito parlato, ma, a giudizio dell’interrogante, anche illegittimo, perché in contrasto con le norme sull’incompatibilità, di cui all’art. 13 del DPR 382 del 1980.
Sintetizzo qui le risposte del commissario-ministro:
1) per quanto concerne l’incompatibilità, Trigilia ha sostenuto che il suo caso costituirebbe un’eccezione prevista da quello stesso DPR, perché era divenuto ministro quando già era commissario. L’interrogante, “insoddisfatto”, ha ribadito che l’eccezione invocata da Trigilia è formulata in modo “ambiguo”. Sul piano formale, probabilmente Trigilia non ha violato la legge, anche se la ratio sostanziale della norma, secondo i suoi proponenti, era, come ha sottolineato l’interrogante, quella di evitare l’indebita influenza di un commissario con un rilevante ruolo politico;
2) per quanto concerne l’inopportunità della sua “doppia presenza”, Trigilia ha sostenuto che i giudizi individuali sui candidati di prima fascia erano in gran parte già stati formulati prima della sua nomina a ministro e che le sue eventuali dimissioni dalla commissione avrebbero comportato un allungamento dei tempi, mentre i lavori della commissione sarebbero stati, a suo dire, in dirittura di arrivo. Ciò però non era affatto vero, perché, come emerge chiaramente dai verbali, ai 221 giudizi individuali sui candidati di seconda fascia i commissari hanno cominciato a dedicarsi solo dopo la nomina di Trigilia a ministro e i lavori della commissione erano quindi ben lungi dalla conclusione. In effetti si sono poi conclusi non il 30 maggio 2013 (la data addotta da Trigilia a sua parziale giustificazione), ma quasi sei mesi dopo, il 20 novembre.
Nessuna parola Trigilia ha speso sulla più ovvia alternativa a sua disposizione: se riteneva davvero tanto importante continuare a fare il commissario, poteva benissimo non fare il ministro, cosa che nessuno gli aveva prescritto. L’Italia non avrebbe certamente avvertito la sua mancanza (come sembra confermare anche il fatto che, nella formazione del successivo governo Renzi, il suo nome non è mai neppure apparso nel totoministri).
Nessuna parola Trigilia ha speso anche sulla possibilità di assolvere in modo adeguato entrambe le funzioni: dedicarsi alle molte incombenze previste dalle numerose e impegnative deleghe di governo a lui affidate (visibili digitando su Google “ministro Carlo Trigilia deleghe”), per tacere delle riunioni ministeriali, delle presenze in Parlamento, delle visite e delle trasferte legate alle sue funzioni, delle interviste e delle polemiche politiche (come quella ben nota sui fatti dell’Aquila), e, contemporaneamente, leggere e valutare attentamente e serenamente le pubblicazioni dei residui candidati di prima fascia e di tutti i 221 candidati di seconda fascia. Gioverà ricordare che ogni candidato presentava sino a 18 pubblicazioni per la prima fascia e sino a 12 pubblicazioni per la seconda fascia, fra cui libri anche assai complessi, di centinaia di pagine, in parte scritti in lingue straniere.
Nessuna risposta Trigilia ha dato anche alla critica mossagli dall’interrogante per l’utilizzazione di una sede politica, quella del suo ministero a Roma, in luogo della sede a suo tempo designata secondo le procedure, l’Università di Macerata, per la seduta conclusiva della commissione (tutte le altre sedute, dopo la prima, erano state tenute solo per via telematica). Un’utilizzazione del tutto indebita, a giudizio dell’interrogante, che mostra la soggezione degli altri commissari alle particolari esigenze del commissario-ministro.
I giudizi del commissario Trigilia, sommari ed estremamente sintetici (anche di una sola riga e mezza o due), in luogo dei prescritti giudizi “analitici” per tutti e “rigorosamente motivati” per i candidati non abilitati nonostante il superamento delle “mediane”, sembrano confermare l’impossibilità pratica di svolgere contemporaneamente i due ruoli nel rispetto della normativa. Si aggiunga che molti giudizi di Trigilia sembrano singolarmente simili a quelli del Presidente della commissione.
Ma perché il ministro Trigilia non ha utilizzato la sua posizione per chiedere a tutti i membri della commissione di rispettare almeno le norme sui giudizi “analitici” e “rigorosamente motivati”? Perché non ha dato lui per primo il buon esempio in proposito e non ha affermato che come ministro non poteva avallare una così palese violazione delle norme? Perché non ha sollevato il problema della non pertinenza disciplinare di un altro commissario, cosa di per sé sufficiente a inficiare tutta la procedura? (uno dei commissari era un docente di criminologia, materia non compresa fra quelle del settore 14/D1 e neppure loro “affine”).
Per accedere al video integrale con la risposta di Trigilia alla Camera si può digitare su Google “Incompatibilità-Trigilia-ministro-in-aula”.
Umberto Melotti
25. Retevitruvio, Lettera aperta al Ministro dell’Università e della Ricerca
Onorevole Ministro
A nome dell’Associazione Scientifica Nazionale RETEVITRUVIO, Rete interuniversitaria italiana di architettura per i SSD ICAR 14-15-16, Le chiediamo di rivedere integralmente la procedura relativa all’ASN 2012 per il settore concorsuale 08/D1, Progettazione architettonica. Si tratta di un settore complesso da giudicare per la sua natura doppia: scientifica e artistica, che avrebbe meritato il massimo della responsabilità istituzionale da parte della Commissione giudicatrice, che qui invece ha mostrato di muoversi senza i necessari fondamenti della disciplina.
La richiesta di invalidazione si basa sui seguenti motivi:
- Per la prima volta, a nostra memoria, nella storia del reclutamento italiano universitario nel settore della progettazione architettonica, i risultati lasciano intendere che i criteri di selezione siano stati applicati in maniera deliberata non ai singoli candidati, ma a “insiemi” di individui appartenenti a “scuole” o più semplicemente a “schieramenti” culturali. Per la prima volta non ci sono Commissari “sconfitti”, complice la richiesta maggioranza di 4 commissari su cinque su un numero di candidati “privo di limite”.
- Gli “insiemi” di individui che non hanno ottenuto l’abilitazione sembrano identificabili con aree scientifico–culturali e/o professionali considerate come “nemico culturale” da rimuovere sulla base di un sistema competitivo fondato sul “business” dell’industria culturale e del professionismo.
- La relazione intercorrente fra i “criteri dichiarati” nella prima seduta, e i “criteri applicati” nella valutazione dei titoli è stata nel corso dei lavori una variante opzionale.
- Una parte consistente dei giudizi espressi è di natura offensiva e lesiva dell’immagine disciplinare e professionale del settore: essi sono motivati in modo generico, molto lontano dalla loro necessaria qualità scientifica.
Stiamo così assistendo al tentativo di distorcere il fine istituzionale dell’ASN, teso a una verifica dei titoli per accedere all’abilitazione, e quindi alle possibili tornate di chiamate o di upgrading delle strutture. Un cambiamento di rotta che entra nel merito non solo dei titoli ma della natura stessa delle ricerche con pesanti valutazioni e giudizi, spesso emessi in base a pregiudiziali ideologiche.
In questo modo l’ASN finirebbe per ridurre al minimo le prerogative degli atenei per costruire la loro docenza: alcuni di essi, non avendo abilitati o avendone in numero estremamente esiguo, non avranno possibilità di scelta, e i loro docenti saranno tagliati fuori da qualunque possibile rientro nel gioco.
Il disegno generale sotteso a questi risultati può dunque sommariamente descriversi come un tentativo di ridisegnare la mappa culturale dell’architettura in Italia basandola su una visione di parte:
- il maggior numero degli abilitati appartiene alle sedi del nord, con la parte del leone fatta dalle sedi dove è molto attiva la lobby milanese-veneziana che fa capo all’industria editoriale di ELECTA e CASABELLA, SKIRA, DOMUS.
- Chirurgicamente è stata decapitata la redazione dell’unica rivista “indipendente” di classe A, AIÒN, che sfugge al circuito mediatico delle Archistar.
- Alcune abilitazioni nell’Italia centrale si devono all’appartenenza geografica di alcuni commissari (Firenze, Ascoli, Ancona), e sono sproporzionate in numero rispetto al panorama nazionale.
- Residue le concessioni a Roma e Napoli, con alcuni abilitati “impossibili” quale premio ad personam per qualcuno dei Commissari;
- Pochissime le abilitazioni nei politecnici di Torino e di Bari (qui nessuna in prima fascia) e negli atenei di Cesena, Reggio Calabria, Palermo.
- A più dei due terzi degli aderenti a RETEVITRUVIO che hanno partecipato all’ASN è staa negata l’abilitazione.
Onorevole Ministro
di tutto ciò le sarà consegnato a breve un dossier documentale che dimostrerà quanto da noi sostenuto, e Le chiediamo a nome dell’associazione scientifica che rappresentiamo, i cui membri sono stati notevolmente decimati, di salvaguardare la nostra dignità di docenti e ricercatori impegnati in prima linea in una battaglia a favore di una architettura libera dai pregiudizi ideologici e dai lacci con i comitati d’affari della professione e dell’industria culturale.
Prof. Franco Purini, Presidente RETEVITRUVIO
Prof. Claudio D’Amato, Direttore RETEVITRUVIO
24. L. Bifulco, Abilitazioni e lotterie
Nessuna delle molti voci critiche che si sono espresse in questi giorni sulle abilitazioni nazionali ha posto finora un problema: a cosa serve effettivamente a questo punto l’abilitazione? Lo pongo io, sociologa abilitata alla prima fascia in due settori disciplinari. Siamo in tante e tanti ad avercela fatta nel mio Dipartimento, Milano-Bicocca. Nel quadro delle attuali scelte allocative riguardo all’università pubblica, questo significa che la probabilità individuale di riuscire a passare alla fascia superiore (ovviamente attraverso il concorso locale) è bassissima. O meglio, ricercatrici e ricercatori hanno qualche chances in più, grazie al piano straordinario. Ma per noi della seconda fascia si parla di uno, forse due posti a concorso. Non dico nell’immediato ma nei prossimi quattro anni. Detto diversamente, l’abilitazione è una colossale presa in giro. Qualche giorno fa parlavo con una collega dell’eventualità di affidare a una lotteria le selezioni dei troppi candidati abilitati: un criterio per decidere altrettanto iniquo ma, stando così le cose, più accettabile di altri.
Alla prova delle sue conseguenze concrete, il meccanismo di valutazione e reclutamento introdotto dalla Gelmini, lungi dall’introdurre finalmente criteri di merito ecc. ecc., si conferma come un potentissimo strumento per:
– ridurre la spesa
– esacerbare la conflittualità di tutti contro tutti
– svilire competenze (dopo averle certificate)
– rafforzare lo stampo già abbondantemente verticistico del modello di governo (non chiamiamolo governance, per favore, perchè la governance è un’altra cosa!) delineato dalla riforma
– far implodere l’università pubblica.
I nostri colleghi sociologi francesi direbbero: per attuare una politica di smantellamento dell’università pubblica senza dirlo.
Queste considerazioni, mi rendo conto, andrebbero, argomentate molto di più. Per amor di brevità mi limito ad aggiungere che, presi congiuntamente, la (tiepida) mobilitazione a favore di un piano straordinario associati e il silenzio rispetto alla prima fascia la dicono lunga sul modello istituzionale di università che stiamo mettendo in atto grazie alle scelte assunte sia a livello nazionale sia a quello locale: poteri fortemente centralizzati e concentrati nelle mani di pochi, a livello di ateneo (appunto: altro che governance); un numero ristretto di ordinari con compiti di gestione e di fund raising, una moltitudine (si fa per dire) di associati che coprono quasi tutta la didattica, ricercatori quanto basta per corrispondere alla retorica del “largo ai giovani perché meritevoli” ma comunque a tempo determinato, a livello di dipartimenti. Tutto questo, oltre a evidenziare deficit sempre più elevati di democraticità, sostenibilità ed efficacia, ha poco o niente a che fare con un modello basato sul merito come misura delle attribuzioni delle posizioni e dei riconoscimenti.
Tengo molto sia al mio futuro (benché da un pezzo non più giovane), sia al futuro della sociologia, sia a quello dell’università italiana. Spero perciò davvero che su questo punto si sviluppi non solo un dibattito ma anche qualche proposta, che nel mio scoramento di doppia abilitata non riesco proprio a immaginare.
Lavinia Bifulco, Dipartimento di Sociologia, Milano-Bicocca
23. R. Caso, M. Granieri, Vincitori e vinti? Alcune domande sull’ASN
Sia detto chiaramente e in principio: gli autori di queste pagine sono tra coloro risultati “non abilitati” nella procedura dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN), in particolare per quanto attiene alla prima fascia nel settore concorsuale 12/E2 – Diritto comparato. Se qualcuno pensasse che gli argomenti esposti di seguito siano interessati e giustificati dall’esito della valutazione, avrebbe tutte le ragioni. I nostri curricula sono disponibili on-line, la nostra produzione scientifica è facilmente reperibile e ognuno può farsi la propria idea.
Sull’ASN – incredibilmente ancora non conclusa – piovono critiche circostanziate a tutti i livelli: politico (con interrogazioni parlamentari al Ministro competente per materia), giudiziario (con ricorsi al TAR) e mediatico (con testate, blog e social network che denunciano, commentato e discutono). Ora, se fosse soltanto un manipolo di esclusi a parlarne, nelle alte sfere del potere ministeriale, nelle associazioni scientifiche, nelle scuole accademiche e, per quel che più conta, nella società civile si potrebbe ben concludere che, statisticamente, qualcuno è sempre scontento di come vanno le cose; si tratterebbe, in altri termini, di fisiologico (e marginale) dissenso.
Purtroppo, però, nel caso dell’ASN la statistica appare ribaltata, perché quando è una moltitudine a parlarne e a dolersi di risultati che, in molti casi, vanno dal grottesco al vergognoso, i rapporti tra ciò che è normale e ciò che è patologico sono ribaltati. Fare finta di nulla, in questi frangenti, non solo non è possibile, giuridicamente, politicamente, ed eticamente, ma è addirittura sospetto, esattamente come sarebbe sospetta la lettera aperta di due “esclusi” in un mare di abilitati.
In questo gioco del silenzio (da parte di chi ha la responsabilità) si sta consumando l’ennesimo eccidio all’università italiana, quella stessa che – in una sorta di intollerabile schizofrenia istituzionale – viene blandita perché vittima di sistematici tagli e di improbabili riforme normative, ma parallelamente aiutata nell’eutanasia con la messa in opera di procedure di valutazione mal congegnate e – anche con il fine incoffessabile di scatenare una guerra tra poveri – peggio attuate.
Non c’è dubbio che, in molti casi, l’ASN sia stata travisata e trasformata, all’insegna della più classica eterogenesi dei fini, in una procedura di valutazione comparativa sotto mentite spoglie, ispirata a logiche che nulla hanno a che vedere con le finalità della legge. Nel settore 12/E2 il risultato è macroscopico e persino l’Associazione Italiana di Diritto Comparato ne ha preso (timidamente) atto.
Con la Delibera del 10 gennaio scorso, infatti, il Direttivo dell’AIDC ha espresso alcune considerazioni critiche a margine del sistema dell’ASN. In particolare, il Direttivo ha sottolineato i seguenti punti.
– “E’ sempre opportuno ricordare che la procedura in oggetto non è finalizzata alla selezione di un numerus clausus di idonei ‘vincitori’, ma mira all’individuazione di una ‘platea’ di abilitati, potenziali concorrenti nelle singole selezioni indette su base locale. E’ auspicabile pertanto che, ferme restando la sussistenza dei presupposti di legge per l’abilitazione e la valutazione di merito della commissione, tale ‘platea’ sia la più estesa possibile proprio in funzione delle successive selezioni da parte dei singoli atenei, che vanno messi in condizione di scegliere tra differenti profili, caratteristiche e peculiarità di un numero ampio di candidati”.
– “E’ auspicabile che nella valutazione di afferenza delle pubblicazioni dei candidati al settore disciplinare si tenga conto [della “declaratoria” che descrive il settore Diritto comparato 12/E2], siccome è stata intesa nell’esperienza ‘vivente’ del diritto comparato in questi anni, ad esempio nei colloqui biennali dell’Associazione, sempre aperti, nel rispetto del pluralismo delle metodologie, sia alla micro-comparazione che alla macro-comparazione nonché a tutti quei fenomeni, modelli, tendenze che contraddistinguono o favoriscono o condizionano, anche nella dimensione sovranazionale, processi di integrazione e di uniformazione giuridica”.
– “Nel suo insieme la disciplina dell’ASN sembra condizionata da una grave contraddizione, che è complessiva e di ‘sistema’, tra la prospettiva della ‘valutazione’ quantitativa (…di cui è espressione il modello delle ‘mediane’ e prima ancora della VQR) e l’ineludibile valutazione scientifica, siccome consolidata nella tradizione accademica, del merito scientifico dei candidati. Di ciò è riflesso l’opzione della commissione – e non soltanto del settore 12E2 – di tener conto, ma non in termini esclusivi, delle mediane, dando tuttavia prevalenza alla qualità dei lavori allegati da ciascun candidato. Nondimeno, la scansione temporale del procedimento, afflitto dalla tendenza, legislativa ed amministrativa, a misurare l’efficienza in ‘rapidità’, rischia di incidere sulla valutazione e sulle scelte compiute dai commissari […]”.
Vorremmo muovere da quest’ultimo rilievo che attiene alle contraddizioni “complessive e di sistema” per porre alcune questioni alla comunità scientifica e a tutti coloro che hanno a cuore l’università.
I vizi complessivi e di sistema dell’ASN sono, a nostro modo di vedere, numerosi e gravissimi.
a) Ruolo dell’ANVUR, metodo di selezione dei commissari e trasparenza della procedura.
a1) L’ANVUR elabora, con propri atti, i parametri per la valutazione dei commissari e dei candidati all’ASN, ma seleziona altresì i commissari giudicando sulla “qualificazione scientifica” degli stessi. In altre parole, l’ANVUR – agenzia ministeriale i cui componenti sono nominati e non rappresentano la comunità scientifica – è al tempo stesso “legislatore” e “giudice” nel reclutamento dei professori universitari. È legittimo questo accentramento di potere? È fisiologico? È auspicabile che questo scenario rimanga immutato?
a2) Mentre i documenti – domande, parametri quantitativi e giudizi finali – relativi ai candidati al conseguimento dell’ASN sono accessibili per diversi mesi (per la precisione: 120 giorni) su Internet dal sito dell’ASN, gli atti con i quali l’ANVUR ha selezionato i commissari non risultano accessibili dal medesimo sito né da quello dell’ANVUR. Come si spiega questa disparità di trattamento? La trasparenza dell’operato dell’ANVUR – solennemente declamata all’art. 13 del DPR 76/2010 – non dovrebbe valere per tutti, anche in funzione della valutazione della “coerenza” (criterio previsto dalla legge) tra i profili dei commissari e quelli dei candidati?
a3) L’art. 8, c. 2, lett. b) del DM 76/2012 prevede che il curriculum e la documentazione acclusa dell’aspirante commissario debbano attestare “il possesso di una qualificazione scientifica coerente con quella richiesta per il conseguimento dell’abilitazione per la prima fascia dei professori nel settore concorsuale di appartenenza”. Tra gli elementi che determinano la qualificazione scientifica dei candidati al conseguimento dell’ASN vi sono quelli indicati dall’art. 4, c. 4, lett. b) – i) del medesimo DM 76/2012. Ad es., la responsabilità scientifica per progetti di ricerca internazionali e nazionali, ammessi al finanziamento sulla base di bandi competitivi che prevedano la revisione tra pari, l’attribuzione di incarichi di insegnamento o di ricerca (fellowship) ufficiale presso atenei e istituti di ricerca, esteri e internazionali, di alta qualificazione, il conseguimento di premi e riconoscimenti per l’attività scientifica. Sennonché l’art. 8, c. 3, del DM 76/2012 stabilisce che il possesso della qualificazione scientifica con riferimento agli elementi ora ricordati è “assicurato dall’appartenenza al ruolo di prima fascia”. Si tratta di una sorta di presunzione assoluta (addirittura di “assicurazione”) di qualificazione scientifica, posta per decreto ministeriale, che non figura nella L. 240/2010. È legittimo e sensato questo criterio di selezione dei commissari? Non espone al rischio – o meglio: la certezza – che siano sorteggiabili commissari selezionati, di fatto, sulla base di criteri “morbidi”? In altre parole, i commissari non dovrebbero rispondere a un criterio di elevata qualificazione scientifica (verosimilmente superiore a quella dei soggetti che devono essere valutati)?
b) Giudici legislatori. La contraddizione evidenziata a proposito del ruolo ibrido dell’ANVUR si ripete per le commissioni. L’art. 4, c. 1, DM 76/2012 veste la commissione giudicatrice di una funzione normativa. Infatti, la medesima norma conferisce alla commissione il potere di non utilizzare uno o più degli “ulteriori criteri di valutazione”, previsti dallo stesso decreto, in relazione alla specificità del settore concorsuale. Anche l’art. 6, c. 5, attribuisce, a proposito degli “indicatori di attività scientifica”, un analogo potere normativo in capo alla commissione. È legittima questa commistione di ruoli? Ha senso, ad es., dare il potere di escludere dai criteri di valutazione per le candidature alla prima fascia la capacità di supervisionare dottorandi o, in riferimento alle pubblicazioni, le tematiche interdisciplinari?
c) Criteri e parametri. L’oggettività che sembrava dover ispirare l’ASN si basa anche su parametri quantitativi e qualitativi che sono stati elaborati dall’ANVUR. In particolare, il riferimento è alle mediane. Le mediane sono un criterio affidabile e scientificamente robusto? Viene effettuato un serio controllo sull’auto-qualificazione in termini di generi letterari – monografia, capitolo di libro, articolo su rivista etc. – fatta da coloro – candidati commissari e candidati all’ASN – che popolano il sito CINECA? È legittimo applicare retroattivamente un criterio nuovo, e completamente estraneo alla tradizione dei concorsi universitari, come quello del superamento delle mediane? Con riferimento alla terza mediana relativa alle riviste di fascia A per tutta l’Area 12, la cui elaborazione è avvenuta solo il 23 novembre 2012 (si badi: dopo la chiusura dei termini per la presentazione delle domande al conseguimento dell’ASN per la tornata 2012), i candidati all’ASN non solo non erano in grado di orientare le proprie scelte editoriali ma non potevano nemmeno compilare consapevolmente la domanda. È legittimo tutto questo? Non innesca un’insanabile disparità di trattamento tra i candidati della tornata 2012 e quelli delle successive tornate? In un’intervista rilasciata dal Prof. Onida a ROARS l’8 agosto 2012 in occasione dell’impugnazione davanti al TAR da parte dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti dei criteri e parametri posti dall’allegato B del DM 76/2012, l’autorevole giurista sottolineava: “[q]uello che noi abbiamo impugnato è l’allegato B del regolamento 7 giugno 2012 n. 76, dove si stabiliscono i criteri per calcolare e valorizzare le famose ‘mediane’. Quello che secondo noi è violato è l’elementare principio dell’affidamento legittimo nei confronti delle norme che costituiscono il quadro nel cui ambito il cittadino agisce. La legge non può liberamente disporre in modo retroattivo (ora per allora): è un principio generale dell’ordinamento (‘La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo’: art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile). Lo può fare, in determinate circostanze, in nome di determinati interessi generali e con rigorosi limiti, senza violare il principio di affidamento, che appunto è un caposaldo dello Stato di diritto. Stato di diritto vuol dire che l’attività delle autorità pubbliche si fonda e si conforma alle norme, e quindi i cittadini si aspettano legittimamente che le loro azioni od omissioni siano valutate in base alle norme che erano in vigore nel momento in cui sono state poste in essere, non che si cambino le carte in tavola a posteriori”. Agli argomenti del Prof. Onida nessuno ha mai dato risposta. Sono intervenuti fattori che legittimano l’operato del MIUR e dell’ANVUR rendendo obsolete queste domande?
d) Le nuove tornate dell’ASN. L’art. 16, c. 3, lett. m) della L. 240/2010 prevede “la preclusione, in caso di mancato conseguimento dell’abilitazione, a partecipare alle procedure indette nel biennio successivo per l’attribuzione della stessa o per l’attribuzione dell’abilitazione alla funzione superiore […]”. Se l’ASN è condizionata da una “grave contraddizione, che è complessiva e di sistema”, ha senso mantenere una preclusione di questo genere? Quale posizione intendono assumere il Parlamento, il Governo e il Ministero competente a fronte di questa assurda e ingiustificata preclusione?
Di sicuro le domande qui poste non esauriscono i dubbi generati da un sistema di reclutamento che rischia di minare in via definitiva la credibilità dell’università italiana, ma pongono problemi concreti sui quali chi scrive e, immaginiamo, tanti altri comparatisti, giuristi e colleghi di altre discipline attendono in tempi brevi soluzioni efficaci.
Non siamo alla ricerca di risposte consolatorie e pacche sulle spalle, o riservate (molto riservate) manifestazioni di simpatia e condivisione degli argomenti sollevati. Le risposte e le prese di posizione, se ci devono essere, devono essere pubbliche e argomentate, come vuole un dibattito illuminato, serio e costruttivo. O è meglio che non siano. E se fosse dato esprimere un desiderio qui ci si attenderebbero risposte da almeno due fronti.
La prima voce che sarebbe il caso di ascoltare è quella del soggetto che finora ha conservato il più rigoroso silenzio: il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca. Il quale Ministero ha una responsabilità giuridica, oltre che politica, perché l’art. 97 della Costituzione si applica, è inutile dirlo, anche alle sedi ministeriali. Buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione non pare siano i principi che spiccano nell’ambito dell’ASN, nelle norme che la disciplinano nonché nell’operato del Ministero e dell’Agenzia.
Dal dicembre 2013 si consumano tempo ed energie a dibattere della procedura dell’ASN che, come avevano previsto gli osservatori più attenti, sta inesorabilmente implodendo.
Non pare che il Ministero abbia mai inteso prevenire il concretizzarsi dei prevedibili risultati aberranti, né che – a danno avvenuto – abbia fatto capire, sul piano politico o sul piano giuridico, cosa ci si sarebbe dovuti attendere per provare a rimediare il disastro in atto. C’è una tradizione di silenzio ministeriale; non si tratta di un fatto isolato. Ed è di fronte alla dimensione macroscopica del problema che il silenzio prolungato diviene sospetto e inaccettabile.
C’è poi l’altra voce che farebbe piacere ascoltare, con toni chiari, forti e univoci, ed è quella delle associazioni scientifiche, che condividono una responsabilità politica, perché sono le stesse che interloquiscono con gli uffici ministeriali, che forniscono rappresentanti in seno all’ANVUR e, quando serve, anche ministri o sottosegretari. Su questo fronte l’inerzia, il silenzio o le mezze parole sono ancora più gravi, perché il quadro che si è andato delineando, fino a culminare nell’aberrazione dei risultati della prima tornata dell’ASN, non è un fatto istantaneo o puntuale. Siamo di fronte a un progetto politico, rispetto al quale le società scientifiche (e, a onor del vero, noi al loro interno), troppo spesso sono rimaste mute e ossequiose, perché era comodo così, perché distogliersi dalle occupazioni individuali è faticoso, perché il dissenso è spiacevole, talora doloroso.
Non si tratta di scegliere tra abilitati che hanno “vinto” e non abilitati che hanno “perso”, perché in un sistema di regole opache e contraddittorie, di arbitrio ricorrente, di assenza di controllo in realtà hanno perso tutti.
La vera scelta è se si vuole difendere la dignità della pubblica amministrazione e della professione accademica impostando un dibattito culturale, spostando lo sguardo dal dito alla luna, dall’esito di una procedura scelerata alle sue cause, dai destini individuali alle ragioni del fallimento collettivo, dal tecnicismo della norma all’etica che dovrebbe ispirare il comportamento di ciascuno e soprattutto di chi riveste alti ruoli istituzionali.
I nostri giovani studiosi, quelli onesti, bravi e operosi, quelli costretti in un precariato sempre più dilatato e incerto, possono sperare in un’università migliore?
Attendiamo le voci che su questo tema già da molto avrebbero dovuto levarsi.
Prof. Roberto Caso e Prof. Massimiliano Granieri
22. A. Marradi, Replica agli interventi di P. Barbieri apparsi su Per la Sociologia
Caro prof. Barbieri:
non ho il piacere di conoscerla, e — per il fatto che al momento risiedo e insegno a Buenos Aires — ho ricevuto ora da un allievo lo sua lettera aperta di qualche giorno fa.
Visto che la sua lettera commenta il documento che da qui ho co-firmato ormai parecchio tempo fa, vorrei svolgere alcune considerazioni a proposito.
Non mi soffermo molto, invece, sulla sua precedente lettera aperta del 31 gennaio in cui commenta un documento che lei chiama Maturo et al., usando espressioni pesantissime (come ‘macchina del fango’) che per ora si erano sentite solo nella tv spazzatura tanto cara ai nostri uomini politici.
Non mi ci soffermo perché non conosco (per i motivi che le dirò presto) il documento che lei attacca, e quindi non posso valutare se merita le espressioni che gli ha dedicato.
Peraltro, osservo sommessamente che, se il documento Maturo et al. si limita ad osservare — senza aggettivi — che è strano che un commissario giudichi come sociologo degno di considerazione un collega che viene dalla biologia, e sostanzialmente vi resta, mentre non dà lo stesso giudizio su decine di sociologi, non tutti giovani, che da anni o decenni insegnano la materia in posizioni di responsabilità nelle loro sedi, allora non mi pare che gli estensori meritino questo insulto.
Sempre sommessamente, se fosse così la inviterei a chiedere scusa anche a loro, e inoltre a Carnap, a Galton (per sua informazione, l’iniziatore della scuola statistica britannica cui si deve il termine outlier) e a tutti gli alti che lei ha brillantemente superato nella successiva lettera in una sola frase di 15 parole di cui 5 monosillabe. La riporto fedelmente: “E’ privo di senso analizzare outlier (veri o pretesi tali) perché non serve a nulla.” La persona che mi inoltrato la sua lettera aperta, evidentemente più addentro di me nel suo pensiero, mi ha assicurato che lei intendeva dire: soffermarsi sulle vicende di un singolo abilitato o di un singolo commissario è privo di senso. Qualche osservazione:
1) curioso che nella frase precedente lei se la prenda invece con le medie (“E’ non solo inutile ma errato comparare medie aggregate”). Ne inferisco che, quanto a statistica, lei mostra, oltre ad una profonda dottrina, gusti difficili. Che tra le montagne del Trentino stia nascendo l’agognato tertium genus fra olismo e individualismo?
2) Nel primo decennio del Circolo di Vienna (sicuramente la scuola più raffinata fin qui apparsa nel campo scientista) si sosteneva la tesi audace che le frasi non immediatamente verificabili erano prive di senso. Ma lei va ancora più audacemente oltre: infatti — se sono stato informato bene — l’ outlier cui lei accenna sarebbe il comportamento di un commissario che ha giudicato presentabile a un concorso di sociologia uno studioso che si era distinto come biologo. In questo senso, adottando per un attimo la sua curiosa accezione del termine, l’episodio sarebbe due volte un outlier: perché è stato l’unico giudizio favorevole ricevuto dal candidato, e perché è stato uno dei pochissimi giudizi favorevoli emessi da quel commissario. Ma — sempre se sono stato informato bene — la frase che lei giudica priva di senso non solo è verificabile, ma è banalmente vera. Quindi, come dicevo, lei va audacemente oltre Carnap e soci,
3) Non contento, lei propone anche una rivoluzione nel linguaggio: infatti il termine outlier — che lei dovrebbe trattare con più riguardo data la sua ovvia origine inglese — significa “qualcosa che giace fuori”. Fuori da che? dispiace rivelarglielo: da una nube di punti. E a sua volte, dove giace questa nube di punti? su un piano, delimitato da due coordinate cartesiane. E quali caratteristiche devono avere le variabili per poter costituire l’ascissa o l’ordinata? devono essere cardinali, cioè frutto di conteggio o di (vera e propria) misurazione. Per quanto mi sia lambiccato il cervello, non capisco quali possano essere, nella situazione cui lei si riferisce — sempre se sono stato informato bene — il piano cartesiano e la nube di punti.
Potrei allora umilmente provare a ricostruire il senso nascosto del suggerimento piuttosto imperioso che lei intendeva impartire ai firmatari del documento Maturo el al.
“Non serve (cioè non fa comodo) al commissario X che qualcuno analizzi il suo comportamento deviante”. Messa così, mi pare, la faccenda acquista un bel po’ di senso.
Mi pare il momento di render pubblico il motivo per cui non conosco il documento Maturo et al., così come altri che sono comparsi in questa contesa. Ho firmato con assoluta convinzione il documento che lei chiama Bianco et al. pur essendo da mesi in Argentina, ma — essendo molto occupato con la didattica in varie sedi sudamericane e con l’organizzazione di ricerche comparate Argentina-Cile-Ecuador-Italia — non ho tempo di seguire sulla rete tutto il dibattito, e mi limito a quello che cortesi allievi mi segnalano per mail.
Non sono in Argentina, Cile o Ecuador a godermi vacanze. Ci vengo da anni perché qui trovo colleghi e studenti perfettamente comparabili, quanto a livello intellettuale, a quelli che ho conosciuto negli Stati Uniti (sul livello culturale degli studenti americani stendo un velo). Sulle orme di un mio compianto maestro, Alberto Spreafico, do pertanto al termine ‘internazionalizzazione’ un significato affatto diverso da quello che si legge fra le righe e nella normativa universitaria, dove con questo termine sembra intendersi, e doversi intendere, l’aver goduto di una borsa giovanile in università americane, o comunque rigorosamente anglofone, e quindi l’essere autorizzati, al ritorno, a guardare il resto del mondo dall’alto in basso. Non so se lei abbia goduto di questa illuminante esperienza nella mecca di ogni scienza e di ogni sapienza. Al leggere nel suo documento la frase che segue si direbbe di sì: “Dimostratemi che c’è stata distorsione sistematica e vi darò ragione, altrimenti è più elegante tacere.”
Prima reazione: mi pare che lei cammini non a 3 metri sopra terra come qualche suo Maestro, ma a 10. Stia attento: cadendo da così in alto ci si può far male. E se per caso uno non ha basi solide come crede di avere, cadere è facile.
Seconda reazione: curioso che non abbia chiuso il suo periodo con la stessa frase con cui Wittgenstein chiude il Tractatus. Di solito quelli che camminano qualche metro sopra terra non mancano di farlo. Ma forse a Trento il Tractatus è stato messo all’indice, visto ke gli unici numeri che vi compaiono si riferiscono alle pagine,
Tornando all’internazionalizzazione come americanizzazione/anglicizzazione e reificazione del merito nel conteggio delle pagine e delle citazioni (spesso a cordata, come in campione a valanga): questa accezione del termine — peraltro condivisa anche prima da molti colleghi — è stata in tempi recenti legittimata da illustri economisti della Bocconi, che hanno fruito da neonati della borsa di cui si diceva e ora pontificano dagli schermi. Corre voce che il ministro Gelmini, essendo esperta di tunnel, abbia trovato naturale ispirarsi, oltre che ai Bocconiani, ai colleghi del Politecnico di Torino. A proposito: non so se il commissario che lei ha generosamente difeso dalla macchina del fango ritenga che quello del Politecnico è il giusto modello cui devono rifarsi i sociologi. Sarebbe nulla di nuovo sotto il sole: per tutto l’800, e una buona fetta di ‘900, il mainstream positivista-behaviorista-operazionista-neopositivista in sociologia si è diviso equamente fra il riduzionismo alle scienze fisiche e il riduzionismo alla biologia. Si tratterebbe quindi di un banalissimo e diffusissimo ritorno all’antico in nome del nuovo.
Prima di considerare le sue tesi centrali, vorrei commentare una frase abbastanza marginale nel suo documento: “L’alternativa è quella che ancora recentemente sembra riproporre l’AIS, cioè il ritorno alle logiche spartitorie delle componenti.”
Due osservazioni:
1) visto che la frase è buttata lì in un contesto in cui il bersaglio critico è il documento Bianco et al., lei indulge al sapiente giochetto che i suoi Maestri anglosassoni chiamano hitting at a straw dog (tradotto: sparare a un bersaglio di comodo). L’unica difesa da scorrettezze del genere è citare la frase del documento criticato cui lei fa capire di alludere. Eccola: “alla logica clientelare e particolaristica delle vecchie componenti di ispirazione ideologico-politico-confessionale – di cui non si parlerà mai abbastanza male – si viene sostituendo una diversa logica di appartenenza, che si manifesta come una nuova componente – questa volta paludata di academic regalia – oggettivamente presuntuosa e inevitabilmente arrogante, che dietro la “formula politica” del merito fa strage di chi, anche in modo eccellente, fa ricerca scientifica seguendo approcci diversi”.
Sostenere in modo larvato che questa frase auspica il ritorno alle logiche spartitorie è — appunto — un eccellente esempio di hitting at a straw dog. I suoi soggiorni anglosassoni (che intuisco: se non ha messo mai il naso fuori da Chiasso, come diceva Arbasino, me ne scuso) sono stati fruttuosi.
2) Seconda osservazione: nella sua frase citata all’inizio del capoverso — come nella diairesis platonica — il mondo è ridotto a una serie di dicotomie: tertium non datur. Invece, già nel nostro documento, tertium datur. No al sistema delle componenti, ma no anche all’arroganza di nuovi baroni e baronetti, con la loro falange di difensori d’ufficio.
Ma è il caso di venire ai due punti che lei ritiene centrali nel suo intervento.
Cominciamo da quello di taglio gnoseologico: “Se si ritiene che vi siano elementi di SISTEMATICA DISTORSIONE di una distribuzione (solo questo conta: sistematica sotto-idoneazione dei candidati del sud o sistematica sotto-idoneazione dei candidati noglobal o della sociologia critica o di che altro orientamento…), si ha l’obbligo morale e scientifico di dimostrarlo (corsivo mio) a partire dai dati micro-individuali, considerando quindi l’effettiva ‘popolazione a rischio’ in questione (e solo quella!), ed individuando i fattori che, significativamente, portano a tale sistematica distorsione.”
Dato che il termine ‘dimostrare’ origina nella geometria, ed è stato successivamente adottato nelle altre discipline tautologiche, non lo si può adottare laddove tutta la contesa si basa su opinabili valutazioni individuali. Sarebbe come chiederci di dimostrare che Vermeer è meglio di Botticelli, o che il lombardo Berlusconi è stato peggio del libanese-siriano Menem (un dibattito frequentissimo qui in Argentina).
Quello di voler abbattere ogni distinzione fra discipline tautologiche (che stabiliscono solo regole per trasmettere certezza da un asserto a un altro) e scienze, e in cambio elevare barriere invalicabili fra scienza e valutazioni, sfruttando un’interpretazione di comodo della Wertfreiheit di Weber, è una delle caratteristiche dello scientismo. Ma non c’è bisogno di una preparazione gnoseologica per capire che la scienza non può raggiungere certezze. Basta riflettere sulla sua storia: continui cambiamenti di teorie. Se la scienza potesse raggiungere certezze, i dibattiti sarebbero finiti da tempo, e la stessa scienza si limiterebbe a remotissime articolazioni del paradigma dominante.
Quindi, chiedendoci di dimostrare una volontaria distorsione sistematica (la cito) nei giudizi della commissione lei ci chiede una prova in due sensi diabolica:
— perché bisognerebbe valutare uno per uno i prodotti di centinaia di candidati — e quando si entra nel campo del valutare, il ricorso alla dimostrazione è precluso. Si figuri che una dimostrazione richiede persino termini univoci e perfettamente definiti; altro che la soggettività del valutare…
— perché bisognerebbe valutare commissario per commissario, giudizio per giudizio, la natura volontaria (cioè sistematica, non aleatoria) della distorsione.
Se è così, mi dirà lei, di che vi lamentate? Nulla quaestio.
E no, caro collega: nelle scienze gli asserti (in questo caso le tesi del nostro documento) non sono decidibili come in matematica, ma sono corroborabili. A un certo punto lo riconobbe anche Carnap (il cui scientismo era talmente cristallino che pensava di trasferire la verità per via induttiva da affermazioni protocollari come “Otto [sarebbe Neurath] qui vede blu” alla leggi di gravità di Newton): rinunciando in nome dei colleghi alla tesi del primo Circolo di Vienna secondo la quale un asserto non immediatamente verificabile era addirittura privo di significato, concesse (sarebbe questa la tanto celebrata “liberalizzazione” del Circolo di Vienna) che un asserto può essere, se non definitivamente verificato, cioè dimostrato vero, quanto meno corroborato.
E allora veniamo al punto. Nel nostro documento, fra le mille cose, si legge: “dei 29 abilitati, 25 sono concentrati nelle regioni del Nord: Centro e Sud insieme contano in tutto 4 abilitati [fra i quali una in realtà è trentina/bolognese di origini e legami — aggiunta mia sulla base di successive informazioni]; per quasi un terzo, gli abilitati appartengono a sedi della stessa città (Milano);
Per la seconda fascia, dove non sono ovviamente indicati né la sede né il settore, si possono solo segnalare le tendenze in atto: circa 60 su 71 abilitati (le domande presentate sono 424) provengono da università del Nord; di questi circa 15 (un quarto) da Milano, una decina da Trento.”
Ora: questo non prova una distorsione sistematica nei giudizi a favore del Nord, e in particolare di un asse Milano-Trento; ma ne appare una forte corroborazione: tanto più per chi come me ha insegnato dal 1969 un po’ dovunque in Italia (per restare al Nord, 7 anni a Bologna come prima cattedra, molti anni nel dottorato dell’Università di Trieste, e spesso in seminari a Torino e alla Statale. Passando all’infelice centro-sud minus habens, a Firenze, Siena, Roma, Napoli, Salerno, Unical, Lecce, Catania) e non ha notato affatto quelle differenze sistematiche in re di cui sono convinti i colleghi Barbera, Santoro e Reyneri. Naturalmente la mia è una valutazione; ma si basa su attente considerazioni delle capacità intellettuali di ciascun alunno, dei suoi interventi orali, delle sue tesi lette e corrette. Praticamente, come i miei allievi sanno, non ho fatto — e non so fare — altro nella vita.
Ancora più impervio è DIMOSTRARE che i due membri della commissione la cui connessione (corroborabile con una semplice distribuzione congiunta di voti) è bastata per far fuori decine di valorosi sociologi, nonché la vera e propria cordata dei loro difensori, fra i quali lei è eminente, siano affetti da scientismo. Non mi provo nemmeno a dimostrarlo: ho accennato or ora a una corroborazione di tipo inferenziale. I cinque lettori (ne prevedo meno di Manzoni) che sanno cosa è lo scientismo valuteranno da sé (anzi, a giudicare dai documenti e lettere che mi sono arrivati per mail fin quaggiú, hanno già valutato). Agli altri cinque che non lo sanno, ho colto l’occasione per fornire qualche (del tutto insufficiente) caratterizzazione del concetto. Se capita, ne offriró qualcun’altra.
E vengo all’altro punto che lei ritiene centrale. Per non farle alcun torto (e anche perché non saprei come sintetizzarlo, dato che mi ha lasciato a dir poco perplesso) lo cito testualmente — per il caso che a qualcuno fosse sfuggito un simile capolavoro di sequitur concettuale e di precisione terminologica..
“E’ NON SOLO INUTILE MA ERRATO COMPARARE MEDIE AGGREGATE, QUANDO SI PRETENDE DI DIRE QUALCOSA SULLE DETERMINANTI DELLA DISTRIBUZIONE DI UN QUALSIASI FENOMENO.
Ci sono rischi di selection bias, di eterogeneità non osservata, di fattori determinanti che non possono essere bypassati allegramente. Ciò è invece proprio quello che fanno i firmatari del documento “Dove va la sociologia?”. E sbagliano. Spiace che colleghi tanto navigati cadano in errori da studenti.”
Vediamo se, camminando a livello del suolo, cioè 10 metri sotto di lei, riesco a capire cosa intende dire. Come si consiglia di fare per venire a capo dei densi agglutinati della lingua tedesca, conviene scomporre il groviglio pezzo per pezzo: comincerei dal selection bias.
Se questa espressione si riferisce a un bias da parte di chi ha scritto il documento nel fare i conti, per cui — al fine di rendere ancora più clamorosa la lezione che i depositari della scienza sociologica hanno inflitto al CentroSud minus habens — i biechi redattori hanno aumentato il numero dei beneficiati nelle terre della Lega e invece scordato nel conto qualche terrone (tanto, nessuno se ne accorge: sono terroni), è un bias che, trattandosi di numeri e non di valutazioni, lei può — per usare un termine che adora, e sul quale torneremo — dimostrare. Ci si provi.
Se questa espressione si riferisce invece a un bias (sempre a favore delle terre della Lega e a danno dei terroni) della commissione che selezionava i candidati (e questo, guarda guarda, sarebbe proprio il significato filologico di selection bias) questo non è a rigore dimostrabile, perché coinvolge una valutazione del rapporto esito-merito; ma il nostro documento ne ha fornito una fortissima corroborazione (vedi sopra).
Se infine l’espressione si riferisce al fatto che — come sostenuto da vari difensori d’ufficio della commissione, tutti o quasi facenti parte della cordata dei promossi — i terroni si sono presentati in gran numero, si tratta se mai di qualcosa di simile ad una self selection (si parla di self selection quando a una domanda qualsiasi tendono a rispondere più frequentemente gli interessati al problema che gli altri, distorcendo la casualità di un campione). Ma a questo punto mi sembra quanto meno inopportuno il ricorso al termine bias (che nel contesto del discorso del collega getta ombre di falsa coscienza su qualche membro della commissione). Probabilmente, anche alla luce del suo contesto, lei intende dire che la tendenza dei terroni a presentarsi in massa anche se analfabeti ha abbassato la percentuale (non la media) dei promossi dal Centro-Sud.
Secondo quanto ha scritto un abilitato (quindi, certo non sospettabile di rancori verso la commissione), però, i candidati del Sud erano in numero minore (io non ho controllato: lo faccia lei, così bravo coi numeri). Ma se quanto afferma il nostro abilitato fosse vero, la tesi difesa dalla cordata dei promossi (il grande numero di bocciati terroni deriva dalla loro incapacità di valutare i propri limiti e quindi dal loro presentarsi in massa) si infrangerebbe nella glaciale impersonalità dei numeri. Per usare i suoi termini, si DIMOSTREREBBE falsa per falsità della premessa maggiore.
Ma anche prescindendo da quanto ha affermato questo abilitato, nella sua argomentazione lei salta alcuni passaggi necessari: per “dimostrare” la sua tesi che i terroni si presentano in massa avrebbe innanzitutto dovuto esibire una frazione, con al numeratore il numero di candidati provenienti dal Centro-Sud (la commissione ha infatti manifestato una visione della terronia ancora più ampia di quella del lombardo Bossi, che a suo tempo ammise, con autorevole sprezzo della geografia, la Toscana nella sua Padania) e al denominatore una qualsiasi normalizzatore plausibile: il totale degli adulti nelle stesse regioni, o il totale nelle fasce di età appropriate, o il totale della popolazione universitaria di questo o quel livello. Dopodiché, confrontata questa frazione con analoga frazione calcolata sul colto e inclito Nord padano, e riscontrata una differenza significativa, avrebbe potuto dimostrare (usando una volta tanto quel termine a proposito, perché si tratta di puri numeri senza valutazioni) il primo segmento del suo ragionamento, e cioè che i terroni hanno fatto, proporzionalmente a qualche parametro adeguato, più domande degli abitanti del Nord padano.
Restava da argomentare il segmento più importante, e cioè che questo fenomeno, e non un bias della commissione, è stato il motivo della straordinaria differenza di percentuali (Barbieri parla di medie, ma va perdonato: una delle caratteristiche dello scientismo — e qui in prima linea va messo Popper, che la proclama ad ogni pie´ sospinto — è la noncuranza per l’uso appropriato dei termini: sono passati i tempi di Raimondo Lullo, di Leibniz e di Frege, che gli scientisti potrebbero a buon diritto di rivendicare come loro precursori, ma hanno il torto di essere nati prima di Bush, e quindi essere praticamente ignoti nella principale fucina di scientisti.
Per fare questo, lei avrebbe dovuto argomentare (non dimostrare, dato che qui si tratta di valutazioni) che la commissione era unbiased. Oltre che sostenerlo, avrebbe dovuto corroborarlo, con quei numeretti che le piacciono tanto: (sua) disgrazia vuole che quei numeretti corroborino invece la tesi opposta, cioè la nostra.
Abbiamo così sgrovigliato, sostituendo un termine e ripristinando accezioni corrette di un’espressione, due bandoli della matassa. Per la verità, ci sarebbe ancora da rilevare una ridondanza: l`espressione ‘medie aggregate’: E’ ridondante perché ogni media presuppone un aggregato di riferimento. Con un termine solo non si può parlare di media. Capisco però che, quando ci si riferisce ai terroni, repetita juvant.
La matassa appare ora un po’ meno intricata, e pertanto, rileggendo la sua frase (anche il lettore può farlo risalendo qualche capoverso e trovando la citazione rispettosamente letterale) mi provo a sintetizzare il suo pensiero. Naturalmente posso sbagliare, e attendo l’interpretazione autentica. Ne sento il bisogno — e a quanto mi risulta non sono il solo. Dopo aver premesso tutte le scuse del caso, azzarderei che lei intenda dire che se si vogliono individuare le cause di un fenomeno (in questo caso una macroscopica differenza di percentuali di abilitati in due aree del paese) non ci si può limitare all’analisi bivariata (appunto il confronto fra percentuali).
Se questo intende dire la frase, confesso che da un collega che cammina a 10 metri dal suolo, e che si presenta come un promettente virgulto di una Grande Scuola che ha traversato il mare come la casa di Loreto e si è fermata a Trento (dove il Concilio le aveva preparato il terreno adatto), mi sarei aspettato qualcosa di meglio. E’ ovvio che l’analisi bivariata è solo l’inizio del discorso: se essa rivela una pepita nel torrente grossa come quella differenza di percentuali, ogni ricercatore che abbia rispetto di se stesso sente l’imperativo di andare avanti. Ma come lo scientismo insegna, da Durkheim in poi, per andare avanti occorrono “fatti sociali”, cioè dati (aggiungo: rilevanti). E questi dati il ministero non li raccoglie, o non li mette a disposizione. Quindi l’interrogativo resta aperto —in questo caso, aperto come una ferita che rischia di andare in cancrena se non si interviene.
Lei invece si limita a elencare alla rinfusa alcuni annosi e molti problemi della ricerca sociale multivariata, e se ne serve per invitare a chiudere il cadavere nella tomba.
Questo atteggiamento è il contrario della scienza — come tutto lo scientismo lo è.
Mi si concedano infine, visto che il tema furoreggia ed è diventato un must, due parole a proposito della peer review come vene effettuata nelle riviste americane più quotate. Ricordo che in un numero della “American Sociological Review” nel ‘55 uscì un articolo (il collega può controllare, visto che cerca DIMOSTRAZIONI) di due sociologi americani, Edward Rose e William Felton, che sostenevano di aver ricostruito in laboratorio i processi di diffusione di elementi culturali fra una società e l’altra. Le “società” erano costituite da tre gruppi di tre individui ciascuna. Gli elementi culturali erano costituiti dalle interpretazioni che ogni gruppo dava alle macchie dei test Rorschach durante una “epoca” (16 minuti). La loro diffusione fra una società e l’altra consisteva nell’eventuale mutamento di tali interpretazioni quando un individuo veniva spostato da una “società” all’altra, e si apriva una nuova “epoca”. Il fatto che una sciocchezza del genere sia stata pubblicata sulla prestigiosa “American Sociological Review” la dice lunga sul buon senso dei referees di quella rivista — almeno in quel periodo. Visto che il 9 (3 x 3) era un numero sacro a Pitagora, può darsi che — in epoca e in terra di quantofrenia — questo elemento abbia offuscato il giudizio degli emeriti referees.
Sempre a proposito della sacertà delle riviste americano con peer review. Come allievo di Sartori e suo collaboratore in una ricerca multinazionale, ho frequentato negli anni 70-80 vari congressi dell’APSA, ASA e IPSA. Ogni volta c’era qualche matto che presentava un paper in cui sosteneva di essere il nuovo Newton (il culto di Newton, diffuso sul continente da Voltaire ed ereditato da Saint-Simon, è la prima radice dell’atteggiamento scientista nelle scienze sociali). Con mia (non grande) sorpresa ho ritrovato uno di questi papers pubblicato da una delle due maggiori riviste sociologiche americane (non ricordo né l’autore né la rivista, e quindi non lo posso dimostrare come richiede il mio interlocutore; ma me lo lasci raccontare perché è troppo divertente). Per presentarsi come l’erede di Newton nelle scienze sociali l’autore aveva copiato il registro dei visitatori del parco di Yosemite in California. E aveva scoperto che il numero dei visitatori diminuiva con una funzione grosso modo esponenziale della distanza dal parco alla residenza del visitatore. Così come la forza di attrazione fra due corpi è funzione inversa del quadrato delle loro distanze. Gli mancava ancora un pezzo della formula: come massa del visitatore prendeva il suo peso, ma calcolare la massa del parco Yosemite era un problemino anche per il nuovo Newton.
Da allora (primi anni 80) ho perso ahimé l’abitudine di visitare assiduamente le venerabili riviste anglosassoni con referee. Ma scommetterei qualcosa che perle del genere se ne possono ancora scovare. Chissà come le difenderebbero i nostri colleghi bocconiani, o politecnici, o altri consiglieri del ministro Gelmini, predecessori e successori compresi.
Cordiali saluti al collega e ai miei dieci lettori.
Alberto Marradi
21. L’associazione Artem docere a proposito dell’ASN per storia dell’arte
ASN SETTORE 10B1, STORIA DELL’ARTE: OPACITA’ DI GIUDIZIO E CRITERI DISOMOGENEI
L’attesa abilitazione scientifica nazionale per la classe 10B/1, Storia dell’arte, è finalmente stata resa pubblica con il risultato apparentemente severo e rigoroso di 137 abilitati su 529 nella seconda fascia e di 63 su 188 nella prima fascia. La lettura comparata dei giudizi ha però evidenziato una situazione non altrettanto coerente. Ferma restando la piena stima nei confronti di tutti quei colleghi meritevoli che hanno ottenuto l’idoneità, rileviamo consistenti incongruenze ed errori materiali che aprono troppi interrogativi e gettano ombre sul futuro del settore disciplinare.
Incongruenze tra conferimento dell’abilitazione e giudizi individuali
Il problema principale dei giudizi formulati dalla commissione consiste nella sistematica opacità del giudizio collegiale in relazione ai giudizi individuali. L’art. 8 comma 5 del DPR 222 del 14.9.2011 dichiara: “La commissione delibera a maggioranza dei quattro quinti dei componenti”, ma se in ogni giudizio collegiale si afferma di aver raggiunto almeno i quattro giudizi positivi, molto spesso i giudizi individuali non esprimono in maniera esplicita un parere favorevole o contrario al conseguimento dell’idoneità. L’ambiguità emerge dall’impossibilità di riconoscere chi siano i quattro commissari favorevoli. Nel caso di un candidato reso idoneo, ad esempio, solo tre commissari affermano che soddisfa buona parte dei criteri, mentre gli altri si astengono dal giudizio, limitandosi a riassumere il cv.Quale dei due rimanenti commissari ha votato a favore?
Un secondo candidato, dichiarato idoneo, riceve ben tre giudizi negativi: “Candidatura che soddisfa in parte parametri e criteri fissati dal Ministero e dalla Commissione”; “Il suo profilo soddisfa solo in parte criteri e parametri indicati dal Ministero e dalla commissione”; “saggi … a volte di brevissimo respiro e solo in un caso … con ampiezza maggiore”. Valutazioni che contraddicono il contenuto del giudizio collegiale e il conferimento dell’abilitazione che prevede un minimo di 4 pareri favorevoli. Incoerenza, ripensamento, o mancanza di una presa di responsabilità sul merito?
Contributi in volume, articoli su rivista, presentazioni/prefazioni.
Rileviamo che a un candidato non idoneo è stato contestato l’alto numero di brevi prefazioni e presentazioni indicate tra le pubblicazioni, sottolineando il valore inferiore di questo tipo di contributi. Il candidato, tuttavia, superava le mediane anche senza le prefazioni/presentazioni. Per converso, uno dei commissari soddisfa i requisiti minimi richiesti dall’art. 6 comma 4 della delibera Anvur n. 50 del 21.6.2012 inserendo proprio numerose brevissime prefazioni, presentazioni e voci biografiche sotto la categoria “articolo in rivista” o “contributo in volume”, come si evince dal cv consultabile sul sito ASN. Ma il Miur/Cineca, nell’approntare la ripartizione delle pubblicazioni scientifiche, ha distinto chiaramente fra contributo in volume (capitolo o saggio), prefazione/ postfazione, breve introduzione, voce, traduzione, recensione, scheda di catalogo, mentre, per quanto riguarda il contributo in rivista, si distingue altrettanto fra articolo in rivista, recensione, scheda biografica, nota a sentenza, abstract, traduzione. Ci si chiede, allora, com’è possibile che questo commissario abbia potuto inserire sotto forma di “articoli in rivista” le sue prefazioni, che la commissione ha spesso valutato negativamente quando erano presentate come tali? Il commissario, in effetti, non disponeva di nessuna monografia, nessun articolo in riviste di classe A negli ultimi dieci anni che gli consentisse di superare la prima e la terza mediana. Non solo, ma anche la seconda mediana non risulta superata se ci atteniamo al dettato della già citata delibera, secondo cui “ai fini del calcolo delle mediane per i settori non bibliometrici si prendono a riferimento i seguenti indicatori … b) il numero di articoli su rivista e di capitoli su libro dotato di ISBN pubblicati nei dieci anni consecutivi precedenti la data del bando”.
Lo stesso docente, che si è dedicato quasi esclusivamente ad aspetti strettamente locali dell’arte del XIX secolo di una regione italiana — peraltro privo del profilo di livello internazionale che appare tra i requisiti dei commissari –, contesta ai candidati all’idoneità il presunto carattere circoscritto della loro ricerca. Come si vede, quello della trave e la pagliuzza è un tema sempre attuale.
I numeri e le addizioni
I giudizi appaiono inadeguati non solo perché non esplicitano chiaramente il voto del singolo commissario, ma anche in relazione al semplice conteggio numerico delle mediane. Un candidato abilitato, presenta 22 contributi (6 di questi sono schede compilative di poche pagine); la commissione ne conteggia 25,71, cioè ben 3,71 in più di quelli dichiarati dal candidato. Ancora: un altro candidato, abilitato, dichiara 10 contributi, tra cui 3 schede di catalogo (dunque non valutabili nelle mediane); ma le sue mediane sono 1,43 libri; 8,57 articoli; 1,43 articoli in classe A per un totale di 11,43, cioè 1,43 pubblicazioni in più delle dieci dichiarate. Simili errori si ripetono molto frequentemente, e anche se le tabelle sono state fornite dal Cineca, i commissari non avrebbero dovuto verificarle? Anche perché per alcuni candidati, la commissione è entrata nel merito delle mediane, contestandole e valutando come contributi in volume alcune monografie, mentre, in altri casi, articoli in rivista, definiti “corposi”, sono stati proposti come monografie. In un caso specifico dei non abilitati nella domanda risultano 18 pubblicazioni a fronte delle 100 elencate nel curriculum inviato. Anche il sistema informatico non ha tutelato i candidati.
Criterio dell’anzianità anagrafica/accademica
Un parametro di per sé discutibile, come quello dell’anzianità, assume un ruolo diverso a seconda dei casi: un candidato, nato nel 1964, non abilitato (tre monografie, 11 contributi in volume e 4 articoli in riviste di classe A, scritti negli ultimi dieci anni) viene valutato a partire dai suoi 48 anni, usati come un dato negativo, mentre i 55 anni di un altro candidato (classe 1957) non vengono menzionati e non gli impediscono di conseguire l’ASN per la II fascia, nonostante che negli ultimi tre anni non abbia scritto proprio nulla e che negli ultimi 10 abbia prodotto solo 3 contributi e due curatele! E’ quanto avviene anche ad un altro candidato, classe 1956, che riesce a strappare l’ASN addirittura con sole 12 pubblicazioni (tra cui una voce biografica e un’edizione critica), apparse non negli ultimi 10 anni, ma in tutta la sua ventennale carriera accademica. Inoltre, le sue pubblicazioni degli ultimi dieci anni sono solo 8, e non 9, perché nelle mediane è stata ingiustamente inclusa anche una monografia del lontano 1997, scritta – si noti bene – in collaborazione con uno dei commissari, che fa coppia anche in altri articoli con il nostro. Non si discute la validità dei giudizi, ma si vuole stigmatizzare l’incoerenza della valutazione e l’uso ambiguo di uno stesso criterio.
Criterio della specializzazione
Un candidato abilitato dichiara in tutto 10 contributi, tra cui una recensione e 2 schede di catalogo, incomprensibilmente inserite nelle mediane (si noti che la sede di pubblicazione delle due schede è un volume curato da uno dei commissari). Le dieci pubblicazioni sono attinenti a un settore molto specialistico della produzione artistica veneta, e ottiene l’idoneità. Prendiamo invece un secondo candidato non abilitato: due monografie, 42 contributi e 2 articoli in riviste internazionali di classe A nella produzione degli ultimi dieci anni, da cui però vengono cassate 15 schede di catalogo. Questa volta la specializzazione sul manierismo veneziano del Cinquecento è un punto a sfavore perché, nonostante il cospicuo numero delle pubblicazioni, la commissione non abilita e, ignorando altri contributi su temi iconografici trasversali, “rileva che l’ambito dei suoi studi risulta troppo ristretto”, formula che spesso affossa ricerche decennali senza troppi complimenti. Anche qui, due pesi e due misure.
Il caso dell’arte contemporanea
Un’ampia parte degli studiosi e critici di storia dell’arte contemporanea, anche di fama internazionale e autori di accreditate monografie, sono stati respinti. D’altro canto nessuno dei commissari è uno specialista di arte contemporanea e dunque non ha in alcun modo quelle competenze, ossia gli strumenti professionali necessari per abilitare contemporaneisti.
Il carattere internazionale delle ricerche e delle pubblicazioni
Si tratta di un parametro importante, tanto da essere richiesto come indispensabile nella valutazione riguardante l’ASN di I fascia. Ebbene, viene quasi sempre trascurato, minimizzato e non menzionato quando la commissione non riconosce l’abilitazione al candidato che, pur avendo avuto numerose esperienze di studio e di ricerca svolte all’estero, premi e borse, grazie alle quali ha pubblicato in contesti internazionali, non è considerato idoneo. Viceversa, è quanto mai esaltato quando la commissione riconosce l’abilitazione ad un candidato con una scarsa produzione scientifica che tuttavia ha avuto qualche esperienza fuori dal suolo nazionale. Ancora una volta i criteri sono stati applicati in modo non univoco. Quanto al carattere delle pubblicazioni, un giudizio è davvero singolare, perché contiene dichiarazioni più che discutibili: un candidato abilitato presenta tre pubblicazioni così valutate: “il candidato risulta non superare alcuna mediana, ma i tre corposi contributi allegati sono stati sottoposti alla valutazione quali articoli (in quanto dotati di ISSN), pur avendo la corposità della monografia: quello sul Capriccio di 372 pagine è pubblicato su Aesthetica – Preprint che risulta rivista di fascia A secondo l’Anvur, quello sulla nascita dell’estetica in Sicilia di 76 pagine sempre su Aesthetica – Preprint, come quello sull’estetica del Settecento in ambito siciliano di 227 su Fieri, sempre considerata rivista di fascia A dall’Anvur”. In un crescendo di sviste: un articolo in rivista non può passare come monografia; in secondo luogo Aesthetica – Preprint è una rivista di settore diverso dalla storia dell’arte e infine, per quanto riguarda la rivista Fieri, la commissione è in errore, perché non è una rivista di classe A registrata nei settori concorsuali ANVUR. I criteri diventano imperscrutabili in casi particolarissimi.
Didattica e ricerca a marce alterne
I criteri recepiti dalla stessa commissione durante la riunione preliminare (Verbale n. 1) per la valutazione dei titoli sono stati spesso disattesi. Un parametro fondamentale come quello della didattica (“attribuzioni di incarichi di insegnamento o ricerca presso atenei o istituti di ricerca di alta qualificazione”) non è stato valutato in modo uniforme e sistematico, se non addirittura ignorato. Questa stessa disomogeneità di criteri si applica anche ad altri parametri, quali l’organizzazione di convegni e mostre di respiro internazionale, e la partecipazione a progetti di ricerca nazionali e internazionali. Per contro, in alcuni casi, è stata curiosamente segnalata l’iscrizione a società culturali ottenuta in base al semplice titolo associativo, tramite il versamento della quota annuale!
Conclusioni
I dati paradigmatici fin qui rilevati (ma moltissimi altri si sarebbero potuti indicare) dimostrano che la commissione ha operato senza porre attenzione all’applicazione univoca dei criteri stabiliti. A ciò si aggiunge il fatto che i commissari sono stati naturalmente più sensibili ai propri campi specialistici, pur essendo stati chiamati a decidere sull’ampia gamma degli indirizzi di ricerca che attengono alla Storia dell’Arte: dall’arte paleocristiana all’iconografia, dalla storia dei contesti culturali all’arte contemporanea, oltre che alla letteratura artistica e all’arte medievale. Ne deriva che le scelte prodotte sulla base di queste premesse si sono spesso rivelate incongrue. Storici dell’arte che insegnano da decenni e producono ricerca riconosciuta anche all’estero sono stati penalizzati, non solo la maggioranza dei docenti delle Accademie di Belle Arti e della scuola secondaria, ma anche i funzionari delle Soprintendenze e tanti fra coloro che si occupano di tutela, conservazione e valorizzazione del patrimonio storico-artistico ai quali è stata riconosciuta solo parzialmente l’attività di formazione, di ricerca, di didattica e di produzione scientifica, spesso, invece, di rilievo internazionale. D’altro canto, anche per quanto riguarda le aree di interesse disciplinare e quelle geografiche pertinenti agli Atenei, è facile verificare che una parte degli abilitati gravita attorno a quelle di alcuni dei commissari con i quali hanno talvolta collaborato. Per converso, non si può non constatare che siano rimasti al palo anche tanti ricercatori universitari che lavorano in Atenei o in ambiti di studio lontani da quelli dei commissari e che, invece, sembrerebbero in possesso dei requisiti richiesti dai criteri. Ancora una volta il sistema universitario si rivela un sistema chiuso e protezionista che raramente premia il merito, assecondando e rendendosi corresponsabile del degrado culturale e civile che ormai affligge il nostro Paese, in particolar modo nel campo dell’arte e del patrimonio intellettuale.
Ricusiamo i risultati dell’ASN per il settore Storia dell’Arte, 10 B 1, perché i criteri di valutazione non sono stati applicati in modo coerente e, soprattutto, non sono stati formulati giudizi chiari, univoci e rispondenti a una piena assunzione di responsabilità da parte dei singoli commissari che si sono espressi, salvo rari casi, in modo sfuggente, rimandando il giudizio di merito a un verbale in cui le votazioni dei singoli di fatto non compaiono. Chiediamo pertanto agli organi preposti del Ministero di fare chiarezza sulla legittimità delle procedure.
Artem Docere per l’Università
20. Nuova interrogazione parlamentare sulle procedure ASN (relativa a diritto comparato)
Atto SenatoInterrogazione a risposta orale 3-00725
presentata da
ALBERTO AIROLA
mercoledì 12 febbraio 2014, seduta n.189
AIROLA, BOCCHINO – Al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca – Premesso che:
la legge 30 dicembre 2010, n. 240, recante “Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario”, prevede all’articolo 16, comma 1, che l’abilitazione attesti la qualificazione scientifica che costituisce requisito necessario per l’accesso alla prima e alla seconda fascia dei professori;
il comma 3 stabilisce che i regolamenti attuativi dispongono: «a) l’attribuzione dell’abilitazione con motivato giudizio fondato sulla valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche, previa sintetica descrizione del contributo individuale alle attività di ricerca e sviluppo svolte, ed espresso sulla base di criteri e parametri differenziati per funzioni e per area disciplinare, definiti con decreto del Ministro; b) la possibilità che il decreto di cui alla lettera a) prescriva un numero massimo di pubblicazioni che ciascun candidato può presentare ai fini del conseguimento dell’abilitazione, anche differenziato per fascia e per area disciplinare e in ogni caso non inferiore a dodici; c) meccanismi di verifica quinquennale dell’adeguatezza e congruità dei criteri e parametri di cui alla lettera a) e di revisione o adeguamento degli stessi con apposito decreto ministeriale»;
il decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 222, contiene il regolamento concernente il conferimento dell’abilitazione scientifica nazionale per l’accesso al ruolo dei professori universitari;
il decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca 7 giugno 2012, n. 76, è intitolato «Regolamento recante criteri e parametri per la valutazione dei candidati ai fini dell’attribuzione dell’abilitazione scientifica nazionale per l’accesso alla prima e alla seconda fascia dei professori universitari, nonche? le modalita? di accertamento della qualificazione dei Commissari, ai sensi dell’articolo 16, comma 3, lettere a), b) e c) della legge 30 dicembre 2010, n. 240, e degli articoli 4 e 6, commi 4 e 5, del decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 222»;
del decreto ministeriale deve essere considerato, in particolare, l’articolo 3, in cui si dispone: «1. Nelle procedure di abilitazione per l’accesso alle funzioni di professore di prima e di seconda fascia, la commissione formula un motivato giudizio di merito sulla qualificazione scientifica del candidato basato sulla valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni presentate. La valutazione si basa sui criteri e i parametri definiti per ciascuna fascia agli articoli 4 e 5. 2. Nella valutazione delle pubblicazioni e dei titoli presentati dai candidati, la commissione si attiene al principio generale in base al quale l’abilitazione viene attribuita ai candidati che hanno ottenuto risultati scientifici significativi, tenendo anche in considerazione, in diversa misura per la prima e per la seconda fascia, la rilevanza internazionale degli stessi. 3. L’individuazione del tipo di pubblicazioni, la ponderazione di ciascun criterio e parametro, di cui agli articoli 4 e 5, da prendere in considerazione e l’eventuale utilizzo di ulteriori criteri e parametri piu? selettivi ai fini della valutazione delle pubblicazioni e dei titoli sono predeterminati dalla commissione, con atto motivato pubblicato sul sito del Ministero e su quello dell’universita? sede della procedura di abilitazione. La ponderazione dei criteri e dei parametri deve essere equilibrata e motivata»;
si considerino anche l’articolo 4, che stabilisce «Criteri e parametri per la valutazione dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche per l’attribuzione dell’abilitazione alle funzioni di professore di prima fascia»; nonché, rispettivamente, gli articoli 5 (rubricato «Criteri e parametri per la valutazione dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche per l’attribuzione dell’abilitazione alle funzioni di professore di seconda fascia»), 6 («Indicatori di attività scientifica»), 7 («Pubblicazioni presentate dai candidati»), 8 («Accertamento della qualificazione degli aspiranti commissari»);
considerato che, per quanto risulta agli interroganti:
con decreto direttoriale 20 luglio 2012, n. 22, veniva bandita procedura per il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore universitario di prima e di seconda fascia per il settore concorsuale 12/E2, Diritto comparato;
con decreto direttoriale 13 febbraio 2013, n. 246, e integrata con decreto direttoriale n. 602 del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, sono stati nominati i membri della commissione;
le domande di candidature sono state presentate dal 27 luglio al 20 novembre 2012;
le mediane per i candidati all’abilitazione scientifica nazionale a professore ordinario e a professore associato, relative agli indicatori non bibliometrici dei settori concorsuali di cui all’allegato B del decreto ministeriale n. 76 del 2012, risultano aggiornate al 27 agosto 2012;
considerato inoltre che:
tutti i verbali cui si fa riferimento in prosieguo sono consultabili presso il sito internet del Cineca del Ministero;
in particolare: per quanto concerne i criteri di prima fascia, la commissione dichiara di non attenersi ai parametri previsti dal decreto ministeriale, senza specificarne tuttavia esaustivamente la ragione; mentre, per quanto concerne i criteri di seconda fascia, la commissione omette di considerare che il diritto pubblico comparato e il diritto privato comparato sono stati uniti dal Consiglio universitario nazionale (si veda la sentenza Tar Lazio, sez. III, 23 gennaio 2010) sulla base di una comparazione che riguarda il metodo, non la materia. Con riguardo precipuo ai criteri adottati, inoltre, si fa riferimento al «criterio di stretta coerenza», mentre è del tutto assente la «varietà di interessi scientifici», nonché l’«impatto che uno studio giuridico ha sulla policy pubblica»;
dai verbali, contrassegnati con numeri da 1 a 11 (redatti fra il 13 maggio e il 21 novembre 2013, presso l’università degli studi “Magna Graecia” di Catanzaro), la commissione, dopo aver predisposto «uno schema omogeneo per i giudizi individuali al fine di poter procedere in modo coordinato alla valutazione analitica delle pubblicazioni scientifiche prodotte dai candidati e dei titoli da essi posseduti», ha esaminato dapprima le candidature relative alla seconda fascia, passando successivamente a esaminare quelle relative alla prima fascia, procedendo successivamente all’analisi complessiva dei giudizi individuali e collegiali delle candidature, nonché alla stesura della scheda dei giudizi individuali e collegiali di entrambe le fasce e della relazione riassuntiva dell’intera procedura;
nella produzione di tali documenti e, in particolare, nell’analisi complessiva dei giudizi emergono numerose, gravi opacità e criticità che rivelano, a giudizio degli interroganti, scelte non conformi, disinvolte e inappropriate nonché in controtendenza rispetto alle modalità operative effettuate dagli altri settori scientifici di area 12 pubblicati finora, e che si possono riassumere come segue;
la commissione è stata estratta a sorte e non eletta dalla comunità scientifica, con la conseguenza che alcuni dei suoi componenti presentano profili di spessore scientifico inferiore rispetto alla gran parte dei candidati;
la commissione ha esplicitamente dichiarato nel verbale n. 3 di utilizzare «uno schema omogeneo» di valutazione tratto dai criteri ministeriali a risposta chiusa, la cui analiticità è rimasta meramente un richiamo apodittico, dal momento che non si è proceduto a fornire motivazioni sufficienti circa lo specifico valore scientifico di ciascun candidato;
in tal modo, la commissione si è allontanata dalla prassi utilizzata dalle altre commissioni dei settori scientifico-disciplinari sin qui apparsi oltre che dalla prassi seguita nelle precedenti valutazioni concorsuali;
in particolare, nella valutazione delle pubblicazioni presentate dai candidati, il ricorso a termini quali “limitato”, “adeguato”, “buono” è previsto, secondo l’allegato D al decreto ministeriale n. 76 del 2012, con riguardo all’impatto scientifico della rivista, ovvero alla collana in cui la pubblicazione è stata edita, mentre la commissione ha fatto uso di tali espressioni per fornire giudizi nel merito dei contenuti, senza alcuna verifica della loro aderenza all’etica in ambito scientifico, nonché della loro correttezza e innovatività. Infatti, non sono mai state specificate le ragioni in base alle quali una pubblicazione sarebbe stata valutata come “buona”, “limitata”, “accettabile”. Il reiterato utilizzo dell’avverbio “analiticamente” in ciascuna delle valutazioni si è rivelato essere mera clausola di stile, in formale ossequio a quanto previsto dall’art. 3 del decreto ministeriale;
non trattandosi di valutazione comparativa, il giudizio di “non maturità” risulta decisamente più grave e incidente sui giovani candidati rispetto al passato, in quanto costoro, con evidente limitazione, a giudizio degli interroganti, di poter esercitare nelle sedi opportune il diritto di difesa riconosciuto al candidato, si vedono bloccati nella presentazione della domanda di abilitazione per il biennio successivo alla pubblicazione del bando senza conoscerne i motivi, nonché, soprattutto e in particolare, senza possibilità di confronto con i commissari sugli eventuali punti deboli o di forza della propria produzione scientifica al fine di migliorarne i profili;
a garanzia dell’imparzialità e dell’indipendenza dei commissari avrebbe dovuto essere preclusa la presenza nel collegio di componenti che fossero membri dei direttivi, e quindi degli indirizzi di policy accademica, delle associazioni di studiosi della materia;
tanto nella prima quanto nella seconda fascia l’abilitazione è stata riconosciuta a soggetti abilitati che abbiano raggiunto “almeno” una mediana rispetto ai parametri ministeriali (ex n. 4, lettera b), dell’allegato B al decreto ministeriale), mentre essa è stata rifiutata a soggetti che raggiungono tutte e 3 le mediane previste, superando abbondantemente il requisito minimo richiesto e dimostrando così capacità lavorativa e pregio della produzione scientifica, ospitata su pubblicazioni qualificate dal Ministero competente come di “classe A”;
in merito a questo specifico punto, corre l’obbligo di rilevare che nessun candidato ha avuto modo di verificare perché è stato giudicato meritevole o meno del conseguimento del titolo abilitativo che permette il passaggio di carriera: una siffatta evidente carenza motivazionale manifesta, a giudizio degli interroganti, il non trascurabile rischio che l’abilitazione scientifica sia stata concessa arbitrariamente, considerata anche l’esperienza di candidati già presenti nelle valutazioni comparative precedenti, ricevendone risultati opposti da membri della stessa commissione; non viene specificato, inoltre, perché al candidato venga concessa o negata l’afferenza alla materia, quando, nello specifico caso di diritto comparato i due settori scientifico-disciplinari di riferimento, diritto privato comparato (ius02) e diritto pubblico comparato (ius21) tradizionalmente distinti, sono stati unificati per ragioni di affinità metodologica e culturale dalla deliberazione del Consiglio universitario nazionale prot. 927 adottata nell’adunanza generale del 19 maggio 2009 ai fini di valorizzare l’utilizzo del “metodo comparatistico” quale strumento di ricerca anche in sede concorsuale;
come si evince dai verbali, in contrapposizione alla regola che stabilisce che le riunioni dei commissari abbiano luogo nella sede universitaria sorteggiata (università “Magna Graecia” di Catanzaro o altrimenti in via telematica), si sono verificati diversi casi in cui le riunioni sono avvenute presso lo studio professionale privato di uno dei membri della commissione (si vedano i verbali nn. 5, 7 e 9), ovvero presso altra sede accademica più vicina alle università di provenienza del presidente e del segretario (si vedano i verbali nn. 3 e 4), nonostante l’asserita autorizzazione ricevuta dal rettore dell’università sede della procedura,
si chiede di sapere:
quale valenza giuridica abbia un provvedimento, seppur autorevole e nel rispetto dell’autonomia universitaria, come quello di un rettore, tale tuttavia da autorizzare un comportamento divergente da quello previsto da una disposizione di legge;
se sia lecito per i commissari incaricati di svolgere una procedura pubblica di abilitazione scientifica riunirsi in luoghi privati e pertanto non neutri: accessibili a estranei al procedimento e in violazione del principio di imparzialità tanto sostanziale quanto apparente, nonché del principio di riservatezza;
se l’operato della commissione valutatrice possa avere significative ricadute future e influenzare i “rapporti di forza” nelle prossime procedure di abilitazione, stante l’assenza assoluta di motivazione e l’uso di criteri non omogenei e considerato soprattutto che le commissioni di valutazione sono composte esclusivamente da professori ordinari tanto per la prima quanto per la seconda fascia;
se il Ministro in indirizzo non ritenga urgente e doveroso assumere iniziative, anche a carattere normativo, per revocare ovvero annullare la procedura di abilitazione per violazione della normativa di fonte costituzionale, primaria e regolamentare disciplinando gli effetti di totale ovvero parziale annullamento dei verbali con la nomina di una nuova commissione, considerando che il vizio di forma non risiede solo nelle posizioni dei singoli candidati ma travolge l’intera procedura di abilitazione scientifica e non vi è altro modo per ristabilire criteri di meritocrazia, trasparenza e pubblicità.
(3-00725)
19. A. D’Andrea, Tutto cambi affinché nulla cambi
Tempo fa, sul gruppo FB di ROARS, avevo postato uno stupidario (di cui mi assumo tutta la responsabilità) sull’atteggiamento che i membri rivelavano sull’ASN man mano che i risultati venivano pubblicati. Era un modo ironico per stemperare l’attesa dei risultati. Adesso che la maggior parte dei verbali è disponibile emergono, sempre all’interno del gruppo FB di ROARS, due fazioni in lotta tra loro. Per comodità espositiva chiameremo i due gruppi i Vincitori e i Rinviati a Giudizio, segnalando però che al loro interno questi insiemi sono articolati in sotto-classi.
I vincitori hanno superato l’ASN: rappresentano poco più del 40% di coloro che hanno presentato domanda. Sono tecnicamente tutti abilitati, ma al loro interno si dividono in strutturati, per i quali la L. 240/2010 ha costruito un percorso privilegiato (comma 6, art. 24), e i non strutturati per i quali la stessa legge Gelmini, con alcune limitazioni discutibili, assegna solo risorse nel contingente del 20% rispetto alle chiamate degli strutturati (comma 4, art. 18). La battaglia interna ai dipartimenti e ai senati accademici sarà dura, anzi durissima. Come in ogni guerra alla fine si conteranno i morti, feriti e i prigionieri. Le risorse, si sa, sono esigue rispetto al numero complessivo degli abilitati. Molti confidano in un ulteriore finanziamento straordinario; il CUN ha raccolto questi inviti proponendo un nuovo piano straordinario per gli associati. Il precedente piano prevedeva in origine circa 4.000 nuove posizioni destinate in gran parte agli strutturati, ma le risorse ora non sono più vincolate e rientrano nel calderone dei punti organico . Non tutti i 20.000 abilitati hanno sostenuto e sostengono questa procedura, molti, anzi, ne sono stati tenaci oppositori in privato e in pubblico. Per molti di loro, comunque, l’ASN ha rappresentato un momento di valutazione e giudizio di cui, in ogni caso, tener conto nella carriera e nell’assegnazione dei finanziamenti. I non strutturati hanno lanciato in rete una sorta di censimento con lo scopo di creare una anagrafe dei precari abilitati. Il 20%, a loro assegnato dalla Gelmini per le chiamate, risulterà essenziale per il rispetto della legge e del bilanciamento tra interni ed esterni.
Ai più gli abilitati sembrano, ma non lo sono, asserviti alla Gelmini. La stampa li dipinge come mediocri, raccomandati, amanti di questo o quel professore oppure parenti o amici di politici. Articoli, scoop, denuncia si susseguono in modo rapidissimo. Insomma l’ASN sarebbe per la stampa un tipico pasticcio all’italiana, una sorta di ulteriore prova di una anomalia che la legge Gelmini, con lodi trasversali, avrebbe dovuto curare in modo energico e di cui ANVUR e ASN rappresentavano i pilastri ideologici.
I Rinviati a Giudizio sono i non abilitati; un eventuale nuovo giudizio di abilitazione potrebbe essere rinviato nella sessione che dovrebbe aprirsi nel 2014. Costoro, con poche eccezioni, sono contro l’ASN, anche se alcuni lo erano già da prima dell’esito della procedura. Denunciano violazioni di legge, invocano ricorsi al TAR, al Presidente della Repubblica, Class Action e qualsiasi altro strumento tecnico-legale che possa produrre il blocco e successivamente il ritiro dell’intera procedura. Al loro interno si dividono in strutturati che hanno già lanciato iniziative di sciopero e blocco della didattica e non strutturati, i più deboli dell’intera catena, che non possono ahimè esercitare alcuna pressione. Tra i rinviati a giudizi ci sono molti meritevoli, almeno a leggere la stampa. Alcuni (tanti?) avrebbero meritato di essere abilitati e solo un meccanismo di tipo quantitativo (per la verità adottato da poche commissioni) li avrebbe danneggiati fino a negargli l’abilitazione. Il tema che ricorre spesso tra i Rinviati a Giudizio è che le commissioni (certamente alcune) abbiano agito in base a precisi accordi politici (per la verità da dimostrare) per favorire quella o quell’altra scuola. Molti si sentono vittime di un sistema, di quello stesso sistema che però li ha strutturati, spesso proprio nei confronti di altri candidati altrettanto validi. Tra le principali accuse che i Rinviati a Giudizio rivolgono alle commissioni citiamo: non congruità con il settore, localismo, assenza di respiro internazionale, troppa o poca interdisciplinarietà, mono-tematicità. Si tratta, a dire il vero, di un armamentario concorsuale non proprio nuovo, anzi diremmo rituale e ampiamente utilizzato in tutte le selezioni per respingere candidati potenzialmente idonei. La giurisprudenza amministrativa si è spesso espressa su questi temi, ma, a dire il vero, con pronunciamenti spesso antitetici.
Fin qui, quindi, nulla di nuovo. Come per il passato, per altre tornate concorsuale e altre riforme universitarie, la verità sarà stabilita dalle corti di giudizio. I tribunali a colpi di sentenze definiranno la nuova università e il nuovo organico. Purtroppo, dobbiamo aggiungere con amarezza. Oramai viviamo in un paese bloccato, a tutti i livelli, nel quale solo la magistratura interviene a bloccare/sbloccare i processi legislativi, ad indicare strade costituzionali, insomma a riformare il paese. La riproposizione in forma manichea tra guelfi e ghibellini di ogni valutazione sull’ASN non aiuta il sistema universitario ad uscire dalle pastoie e da quell’immobilismo che hanno caratterizzato l’accademia italiana negli ultimi 20 anni. Tanta acqua e tante riforme sono passate, senza produrre gli effetti sperati, tanti ministri e tanti governi, spesso di diverso orientamento e colore, si sono avvicendati. Mai, però, è venuto meno quell’atteggiamento che permea di sé tutta l’università: e cioè che quando valutano te hanno scelto il migliore e quando si tratta dell’altro un mediocre. L’autoreferenzialità è forse il male peggiore che attanaglia l’accademia italiana.
Questo atteggiamento, tipicamente italiota, è trasversale, investe il mondo dell’università come quello delle professioni e della politica. E’ diventato esso stesso uno slogan politico, coccolato dalla stampa, dai media, dall’opinione pubblica. Non conosco un solo ordinario che non sia barone, non abbia sistemato mogli e parenti e non sia mediocre. Non uno! Una certa pubblicistica salva solo i cervelli rientranti (a proposito quanti di coloro sono abilitati?) e i ricercatori fuggiti all’estero. Quelli che sono restati, per la maggior parte a combattere, sono oggetto di un sistematico vilipendio.
Lo stesso atteggiamento investe il pubblico, la scuola, la sanità, tutti fannulloni, tutto spreco. A volte si comanda innovando (i progressisti), spesso lasciando le cose come stanno (i conservatori) apportando piccolissimi aggiustamenti al sistema. In Italia abbiamo, però, il vizio di essere insieme progressisti e conservatori. Il vero obiettivo è che tutto cambi affinché nulla cambi.
Andrea D’Andrea* dandrea@unior.it
* L’autore, segretario amministrativo D4 presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, è abilitato per il SC 10A1; rappresenta un terzo sottosettore dell’insieme dei Vincitori non essendo, a norma di legge, né interno, né esterno, un altro paradosso della Gelmini.
18. Ri.Uni.Ba., Lettera aperta di un ricercatore
Ho appena finito di vedere il trailer di un film che si preannuncia essere molto divertente: Smetto quando voglio.
Ho riso tanto e nei prossimi giorni andrò a vederlo insieme a molti miei colleghi ricercatori. Adesso però non ho più voglia di ridere e sono piombato in una profonda e cupa amarezza. Solo ora mi rendo conto che il mio era un riso amaro, quello che ti fa piangere mentre ridi. Se si decide di fare una commedia leggera e divertente scegliendo la ricerca e i ricercatori come protagonisti, vuol dire che siamo caduti veramente in basso. Abbiamo toccato il fondo e la responsabilità è di tutti, ricercatori compresi.
E così, quasi senza volerlo, penso alla CRUI e a quello che ha fatto o non ha fatto in questi anni, caratterizzati da un furore ideologico senza precedenti, humus dentro al quale sono cresciuti e poi giustificati i tagli alla scuola, all’università e più in generale alla cultura. Per secoli siamo stati il faro e il simbolo della cultura nel mondo, oggi ne siamo lo zimbello.
Sono un ricercatore, ma anche un genitore e ogni giorno, quando accompagno mio figlio a scuola, osservo con sgomento lo stato di degrado dove crescono i futuri cittadini di questo Paese. Insegnanti frustrati, disillusi, che vengono guardati con sufficienza e alcune volte con commiserazione dagli studenti. E non ne trovi uno, non certamente i miei figli, che ti dica: da grande farò il professore. Eppure a questi custodi della democrazia dobbiamo tanto: che cosa sarebbero Scampia, il San Paolo di Bari e lo Zen di Palermo senza i nostri maestri delle scuole elementari e poi i docenti delle scuole medie superiori?
E l’università? Silenzio assoluto: non pervenuta. Qualche giorno fa i presidi delle scuole si sono recati a Roma non solo per protestare contro i tagli, ma anche per chiedere maggiori risorse per gli stipendi dei docenti. Giusto e sacrosanto. Ma mi chiedo: i nostri rettori avvertiranno prima o poi l’esigenza di scendere in piazza per chiedere rispetto e considerazione verso un mondo che vive un momento di profonda crisi? O si ritiene ancora una volta che il proprio ruolo e la propria funzione sia quella di scrivere documenti che nessuno legge?
A proposito: l’ultima fatica intellettuale nata in casa CRUI dimostra ancora una volta che i nostri rettori vivono in un mondo che non comprendono fino in fondo. Un mondo che non vogliono rappresentare nel suo complesso, dimenticando, per esempio, che oltre a professori ordinari esistono anche circa 25.000 ricercatori che fanno ricerca e insegnano nell’università. La prima tornata di abilitazione ci consegnerà gli abilitati alla seconda fascia. Si tratta di colleghi valutati da commissioni nazionali, sorteggiate e arricchite della presenza di un membro esterno; quanto di più imparziale e autorevole si potesse fare nelle condizioni date. Queste commissioni potrebbero certificare alla fine che circa 10.000 ricercatori (dato CUN), hanno un profilo scientifico superiore alla media degli associati attualmente in servizio, ma il piano straordinario, come è noto, non sarà sufficiente a garantire tutti. Molti di questi colleghi, quindi, ritorneranno a insegnare come “docenti abusivi”, ma questa volta con addosso la certificazione di essere abilitati alla docenza.
La CRUI ha una vaga idea di come affrontare il problema? E, sempre per rimanere in tema, qual è ancora una volta l’idea della CRUI sui circa 15.000 ricercatori che non hanno partecipato o non hanno superato le ASN? Anche questo aspetto che investe la dignità e la vita di migliaia di persone è per noi ancora oscuro. Intanto, nei 18 punti che costituiscono il cuore dell’ultimo documento della CRUI, i rettori non hanno ritenuto necessario inserirne almeno uno che facesse riferimento a queste due emergenze che rischiano di aprire guerre intestine dentro gli atenei. Così come non è stato fatto nessun cenno rispetto alle migliaia di concorsi che ci saranno subito dopo la chiusura di questa prima tornata dell’ASN. Ancora una volta carte su carte e commissioni che viaggeranno lungo lo stivale nostrano spendendo soldi inutilmente. Cosa potrebbero aggiungere le nuove commissioni? Cui prodest? Mistero.
Valga come esempio l’ultima VQR. L’ANVUR, dopo che le università hanno prodotto le solite montagne di carte, ha certificato quello che i ricercatori sostengono dal 2010: la qualità media della produzione scientifica italiana è di ottimo livello, anzi, normalizzando il dato per l’ammontare delle risorse disponibili, l’Italia si pone ai primissimi posti. Quando si dice che la montagna ha partorito il topolino! Ovviamente, non c’è traccia di tutto questo sui principali quotidiani nazionali, né tantomeno il Ministro ha avvertito l’esigenza di convocare una conferenza stampa per annunciare in pompa magna i risultati della VQR.
Nel frattempo, continuiamo a prendercela con i soliti deboli, sottoponendoli a mille valutazioni, prima di accedere a quello che già spetterebbe loro per diritto. Ma una domanda nasce spontanea: perché i futuri ricercatori cosiddetti di tipo B potranno essere chiamati direttamente senza ulteriori concorsi e gli attuali ricercatori abilitati no? Anche in questo caso, forse, una risposta sarebbe quantomeno dovuta. Un mio collega ha scritto tempo fa: “noi siamo vittime di una forma di razzismo intellettuale. La nostra è una generazione di mezzo superflua. Una palla al piede per lo sviluppo del paese. Non siamo abbastanza vecchi da restare intoccabili perché carichi di diritti acquisiti e ormai fuori dai giochi; non siamo abbastanza giovani per rinnovare il sistema. Siamo la vera zavorra da eliminare”. Dunque dobbiamo rimanere in un limbo indefinito e vagare nel cerchio dei dannati.
Tuttavia, senza risolvere lo status giuridico della nostra categoria, l’Università si avviterà prima o poi nella spirale di conflitti di interesse tra vecchio e nuovo, nella logica deteriore di una guerra tra poveri di cui non portiamo responsabilità.
A fronte di tutto questo, la CRUI ritiene coerente chiedere posti di ricercatore di tipo B senza provare un minimo di imbarazzo nei confronti sia degli abilitati che di quelli che ancora non lo sono, fingendo di non sapere che questo scatenerà guerre furibonde nei dipartimenti. A nessun tacchino si potrà chiedere di essere felice il giorno di Natale! Va bene tutto, ma il suicidio collettivo no. Se volete essere i nostri sicari, almeno non chiedeteci di essere felici e di condividere il vostro alquanto sospetto furore giovanilistico.
Una volta esistevano un Paese e una Nazione di cui tutti eravamo fieri, poi agli inizi degli anni novanta sono comparse delle forze politiche che ci hanno detto che c’erano più Paesi e che il nord era meglio del sud. Piano piano questa moderna forma di razzismo si è instillata nei cuori e nelle menti di molti anche dentro l’accademia. Da allora, abbiamo iniziato a non ragionare più come sistema universitario unico, ma come la somma di tanti pezzi non in competizione, ma in contrasto tra di loro, dove chi vince, spesso con regole assai discutibili, non accede a forme ulteriori di finanziamento, ma sottrae risorse agli altri atenei. È come se oggi nei bilanci di alcuni grandi atenei del nord ci fosse un pezzettino di Bari o di Napoli o di Palermo. Una sorta di moderno imperialismo applicato alle università. Questa competizione non ha nulla di virtuoso, ma ricorda molto il famigerato incontro Tyson vs Holyfield, dove il trofeo non era la corona di campione dei pesi massimi ma un pezzettino dell’orecchio dell’avversario.
Siamo ritornati indietro senza saperlo o forse senza volerlo, all’epoca dei comuni, quando l’Italia era una macedonia di città-stato, senza alcun peso sullo scacchiere internazionale. Ci sono i tedeschi, gli inglesi, i francesi, ma non esistono più gli italiani, perché quelli nascono nelle scuole e nelle università dove noi abbiamo fatto germogliare il seme del localismo e dei particolarismi.
Cordialmente
Un ricercatore (RI.UNI.BA.)
17. Documento COMPALIT in merito ai risultati ASN
L’Associazione per gli Studi di Teoria e Storia Comparata della Letteratura (Compalit) intende esprimere alcune considerazioni generali dopo la pubblicazione dei risultati dell’Abilitazione Scientifica Nazionale, in rapporto al settore concorsuale 10/F1 (“Letteratura italiana, Critica letteraria e Letterature comparate”), risultati che destano viva preoccupazione in chiunque abbia a cuore le sorti della comparatistica in Italia.
Senza entrare nel merito delle scelte insindacabili della Commissione o dei singoli giudizi, l’Associazione non può tuttavia fare a meno di segnalare la rigidità a tratti fortemente conservatrice dei paradigmi con cui sono stati delineati i confini della disciplina ai fini dell’abilitazione, con una sostanziale prevalenza dell’ambito strettamente italianistico. In una congiuntura così complessa della vita universitaria, caratterizzata da nuove procedure di reclutamento che spesso richiedono accorpamenti tra vari settori disciplinari, invita quindi tutta la comunità scientifica a una fase di riflessione e di rilancio: occorre infatti riaffermare sia a livello culturale che istituzionale, con tutti i soggetti interessati (Ministero, Cun, Anvur, Settori affini, Dipartimenti), lo statuto e il ruolo della comparatistica, intesa non solo come confronto tra letterature nazionali ma come apertura produttiva verso altri orizzonti di ricerca, dagli studi culturali a quelli visuali, dall’intermedialità alla letteratura mondiale, dalla teoria letteraria alla sociologia della cultura. Questo approccio, da sempre sostenuto dall’Associazione, è peraltro delineato con chiarezza nella seconda parte della declaratoria del settore concorsuale 10/F1, declaratoria riformulata dopo l’accorpamento dei precedenti settori 10/F1 e 10/F4 (D.M. 12 giugno 2012, n. 159, All. B): “il settore si interessa all’attività scientifica e didattico-formativa nel campo degli studi sulle opere e sulle dinamiche culturali delle letterature europee e occidentali, nelle varie lingue in cui esse hanno operato e operano, dal Medioevo all’età contemporanea, e sui relativi autori, nonché nell’area della cosiddetta ‘letteratura mondiale’ (World Literature). Esso comprende gli studi di critica letteraria e di letterature comparate, che affrontano a livello teorico ed ermeneutico il problema generale della letteratura, dei generi, della produzione, della diffusione e valutazione dei testi, del confronto fra testi appartenenti a diverse letterature e culture, anche ai fini della loro resa letteraria in una lingua diversa da quella in cui sono stati elaborati”.
L’Associazione ribadisce dunque con forza il compito iscritto nel suo statuto e nella sua storia: chiede che tali istanze siano recepite e debitamente valutate in tutte le sedi opportune e si impegna affinché lo statuto della disciplina non venga messo in discussione: “L’Associazione ha per scopo il coordinamento e lo sviluppo, anche a livello istituzionale, dello studio della letteratura, inteso come indagine teorica e metodologica, come interesse alla comparazione fra le cultura letterarie e in generale come esplorazione del patrimonio tematico e formale della tradizione letteraria occidentale”. “Nostro campo di indagine è quanto di comune e di integrabile v’è nell’espressione letteraria e artistica di età e di ambiti geografici anche diversi e distanti, al di là delle specifiche identità di lingua, di storia e di cultura. […] Per noi ‘comparare’ significa comporre in un quadro generale e organico quei rapporti, quelle influenze, quelle derivazioni che lo studio della letteratura ha tradizionalmente suddiviso e considerato all’interno di settori limitati, retti dalle tipologie non dello scambio ma dell’appartenenza” (www.compalit.net<http://www.compalit.net/>).
È un problema peraltro che non riguarda solo la comparatistica, ma gli studi letterari in generale, la cui crisi attuale sfocerà in un’irreversibile decadenza se non saremo in grado di rinnovare metodi di ricerca e programmi di insegnamento in un’ottica di integrazione di diversi saperi, dalle letterature straniere alla filosofia, dalle arti visive alle scienze umane. La particolare sfida che ci attende nell’immediato futuro è che questa apertura – tratto distintivo della comparatistica, anche nel panorama internazionale − venga recepita da tutta la comunità scientifica come un valore e non come un limite, tanto ai fini dell’Abilitazione Scientifica Nazionale quanto di un obiettivo di più ampio respiro che riguarda l’assetto e il destino della nostra Università.
Federico Bertoni, Presidente; Massimo Fusillo, Presidente uscente; Silvia Albertazzi; Marco Belpoliti; Piero Boitani; Remo Ceserani; Michele Cometa; Mario Domenichelli; Carlo Donà; Nadia Fusini; Maria Teresa Giaveri; Mario Lavagetto; Franco Marenco; Arturo Mazzarella; Raul Mordenti; Guido Paduano; Gian Piero Piretto; Giovanni Saverio Santangelo; Sergio Zatti
16. G. Vecchio, Lettera al Ministro sull’abilitazione scientifica per Diritto Privato
Spett.le Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca p.t.
Prof.ssa Maria Chiara Carrozza
Piazzale Kennedy 20
00144 Roma
Oggetto: Abilitazione Scientifica Nazionale 2012, Commissione di Diritto Privato e giudizio sul candidato per la II fascia Gianfrancesco Vecchio,
Richiesta di annullamento in autotutela di tutta l’attività svolta dalla Commissione in quanto illegittimamente formata da un professore di Diritto Commerciale: il Commissario OCSE Prof. Embid.
Gent.le Ministro, Prof.ssa Maria Chiara Carrozza,
scrivo la presente al fine di comprendere quando ancora ci vorrà perché tutte le attività della Commissione di cui all’oggetto, in relazione all’ASN 2012, siano annullate per venire riaffidate ad una Commissione in composizione legittima.
Emerge chiaramente dal Curriculum disponibile su internet, così come dalle sue Pubblicazioni, che il Commissario OCSE è un professore ordinario di Diritto Commerciale (Diritto Mercantile).
Il Prof. Embid è, così come si dichiara, Professore Ordinario di diritto Mercantile (Commerciale) presso l’Università di Valencia, circostanza, questa, che esclude di per sé l’appartenenza del commissario OCSE allo stesso settore scientifico-disciplinare per il quale hanno concorso coloro che hanno fatto domanda per il SSD di Diritto Privato.
Il diritto Commerciale, già ascrivibile al settore scientifico-disciplinare jus 04, è individuato a livello normativo nel macrosettore 12/B, unitamente al diritto della navigazione, mentre il diritto Privato è ascrivibile al diverso settore jus01 e risulta individuato nel macrosettore 12/A (cfr., sul punto, il dm n. 159 del 12 giugno 2012, recante “Rideterminazione dei settori concorsuali, ai sensi dell’articolo 5 del decreto 29 luglio 2011″), con conseguente impossibilità di assimilare i due distinti profili scientifici.
La non riconducibilità di un settore all’altro, del resto, si desume chiaramente, da un lato, dal fatto che sono state bandite due procedure di Abilitazione per i distinti settori, dall’altro, anche dalla semplice lettura dei citati curriculum e pubblicazioni del Prof. Embid, queste ultime risultano circoscritte alla trattazione di argomenti incentrati su tematiche strettamente attinenti al diritto societario-commerciale, quali, a titolo esemplificativo, lo studio delle società di capitali, di quelle a responsabilità limitata, di quelle anonime, delle fondazioni, nonché dei profili di responsabilità degli amministratori delle società di capitali e di quelle cooperative nell’ordinamento spagnolo.
Le pubblicazioni oggetto della mia domanda, che La invito a rileggere, non hanno, nell’assoluta maggioranza, alcuna attinenza con quelle di chi mi ha valutato e ciò emerge, anche, dall’apodittico ed immotivato giudizio individuale del Prof. Embid nei miei confronti.
In esso, tra l’altro, si dice: “Hay, por otro lado, varios trabajos, algunos relativos al Derecho de sociedades (controles, interés sociaò y derecho de opciòn), al Derecho de Familia (pacto de familia) y sucesiones (legitimarios, coexistencia de testamento. No consta que sea dottore di ricerca”.
Sennonché, come dovrebbe essere noto a un giurista che conosca il diritto privato italiano, lo scritto sul Patto di famiglia è dedicato ad un tema che non ha alcuna attinenza con il “Derecho de familia”, in quanto si occupa di un istituto di diritto successorio (art. 768-bis e ss. c.c.), mediante il quale è possibile trasferire l’azienda o le partecipazioni societarie. Con tale “giudizio” il Commissario OCSE ha quindi dimostrato inequivocabilmente non solo di non aver esaminato il contributo in questione, ma pure di non conoscere l’istituto cui è dedicato il contributo stesso, rispetto alla quale avrebbe dovuto esprimere un motivato giudizio. Nonché, si consenta, dimostra di non aver nemmeno letto il curriculum del sottoscritto, dal quale risulta chiaramente il titolo di Dottore di ricerca che, pure, gli altri Commissari mi riconoscono.
Di fronte ad una così lampante evidenza della presenza di un Commissario carente di specifica qualificazione scientifica nella materia del Diritto Privato, con conseguente violazione degli art. 6, commi 2 e 7, del D.P.R. n. 222 del 2011, nonché dell’art. 16, comma 3, lett. h), della L. n. 240 del 2010, Le chiedo se ritenga necessario che si attivino le procedure di impugnazione giudiziaria davanti al TAR, strada già scelta da numerosi candidati, o non appaia piuttosto più rispettoso dell’interesse pubblico che Lei è chiamata tutelare, porre drasticamente fine a questa vicenda che già tanto ulteriore discredito ha portato sulla Università italiana.
In fede.
Prof. Avv. Gianfrancesco Vecchio.
Roma 31 gennaio 2014
15. F. Ramella, P. Volonté, Smobilitare il risentimento
In queste settimane abbiamo seguito con interesse, ma anche con crescente stupore, il dibattito che si è sviluppato all’interno della sociologia sui risultati dell’Abilitazione Scientifica Nazione. Ci ha stupito, in primo luogo, la percentuale di abilitati nei settori 14/C1 e 14/D1; in secondo luogo, il clima che si è venuto a creare nella nostra comunità accademica, che sembra sull’“orlo di una crisi di nervi”. Questo post non intende proporre un’ulteriore analisi dei risultati della ASN. Il fine è piuttosto quello di contribuire a spostare il fuoco del dibattito verso una riflessione più pacata e propositiva, come anche altri – per fortuna – hanno iniziato a fare.
Sappiamo di trovarci in una posizione particolare, non essendo in commissione né tra i candidati all’abilitazione dei settori in discussione. Questo, naturalmente, non ci conferisce alcun punto di osservazione privilegiato, ma solamente un pizzico di distacco emotivo in più, che ci induce a puntare il dito non tanto verso il comportamento delle commissioni, quanto verso le norme che regolano l’abilitazione.
Inizieremo facendo un passo indietro – discutendo tre punti che ci hanno colpito nel dibattito sui risultati dell’ASN – per farne poi uno in avanti, in direzione della normativa.
1) Il numero di abilitati nei settori sociologici. Inutile girarci intorno, in entrambi i settori sociologici di cui sono stati pubblicati i risultati, le percentuali di abilitati risultano piuttosto contenute. In uno dei due (il 14/C1) sono molto basse. Basse rispetto a cosa? Alla media di tutti gli altri settori concorsuali, così come alla media delle altre aree delle scienze umane e sociali (10-14) e alla quasi totalità dei settori a noi più vicini (politici, economici ecc.). Assumendo come termine di riferimento le aree “non bibliometriche”, per la prima fascia, il differenziale negativo dei nostri due settori (valore medio) oscilla tra un minimo del 9% (area 11) e un massimo del 26% (area 10). Va anche però aggiunto, che le “commissioni severe” non sono una prerogativa esclusiva della sociologia e che in tutte le aree (bibliometriche e non) si nota una forte variabilità interna nelle percentuali di abilitati. Per la prima fascia il campo di variazione spazia dal 12% all’83%! Nei settori delle scienze umane e sociali il range si restringe di poco: dal 12% al 69%.
Tutto ciò detto, che spiegazioni possiamo dare del comportamento delle commissioni sociologiche? Nel dibattito ci pare emergano due interpretazioni prevalenti. La prima attribuisce la variabilità dei risultati – con particolare riferimento alla deludente prestazione del settore 14/C1 – alla “eterogeneità non osservata”. Ovvero alla diversità (qualitativa) dei candidati presenti nei vari settori concorsuali. Questa tesi, per i nostri due settori, è avvalorata dai dati della VQR. Facciamo notare, per inciso, che sia l’ASN sia la VQR, in quanto esercizi di peer review, in ultima analisi non sono indicatori di un valore “oggettivo” della produzione scientifica, ma della relazione che c’è tra le aspettative dei valutatori e la loro percezione di qualità. L’aspetto interessante, qui, è che esiste una corrispondenza di qualche tipo tra i due processi, cioè che il comportamento delle commissioni non risulta anomalo rispetto al comportamento che l’intera comunità scientifica ha avuto verso se stessa in sede di VQR.
La seconda interpretazione, al contrario, attribuisce la suddetta variabilità quasi esclusivamente al diverso metro di giudizio usato dalle commissioni, e da alcuni commissari in particolare. Anche questa tesi non appare infondata. Come dicevamo sopra, sia guardando all’intera ASN, sia alle aree delle scienze umane e sociali, salta agli occhi che alcune commissioni sono state molto “strette” nel concedere le abilitazioni. Altre, invece, sono state molto più “generose”. Dubitiamo che queste variazioni possano essere interamente attribuite alla diversa qualità delle “popolazioni di riferimento”. Questo non dovrebbe stupirci. Sarebbe ingenuo pensare che avere riferimenti normativi comuni (tra le commissioni) e criteri comuni per la valutazione delle pubblicazioni e dei titoli (all’interno delle commissioni) elimini del tutto una diversa interpretazione (e applicazione) delle “regole del gioco”. In altre parole, che rimuova completamente la soggettività dei giudizi.
A chi non è offuscato da pregiudizi (pro o contro le commissioni) non dovrebbe dunque sfuggire che entrambe le interpretazioni avanzate nel dibattito sono del tutto compatibili tra loro. Sono, anzi, complementari. Entrambe contribuiscono a spiegare una parte della varianza registrata nei risultati dei vari settori. Ma qui torniamo al punto di partenza. Come dicevamo, l’esito dell’ASN nei settori sociologici è stato sorprendente. Soprattutto alla luce delle attese della vigilia, quando si riteneva che l’assenza di un tetto alle abilitazioni potesse determinare giochi collusivi (a somma positiva) tra i vari commissari, portando ad un’abilitazione di massa. Perché non è andata così?
Non abbiamo ancora letto risposte convincenti nel dibattito in corso. Né ne abbiamo noi da dare. L’idea che ci siamo fatti – in parte tautologica – è che nelle commissioni sia prevalsa la convinzione che la sociologia italiana avesse bisogno di rendere più rigorosi i propri criteri valutativi, anche al fine di promuovere (nel tempo) un innalzamento della qualità dei propri percorsi formativi e di carriera. Il monitoraggio reciproco – tra commissari e commissioni – ha poi teso a far prevalere questo atteggiamento, seppure con variazioni anche significative. Dire ciò, naturalmente, non implica affatto che non siano stati commessi errori nelle valutazioni dei singoli candidati (in buona o in cattiva fede). Abbiamo chiaramente presenti casi di colleghi che – con nostra sorpresa – non hanno ottenuto l’abilitazione.
L’altra idea che – ci pare – sia circolata è quella che fosse opportuno tenere un comportamento responsabile verso le “generazioni future”. Evitando gli errori commessi in passato, quando il reclutamento ad ondate ha penalizzato non poco chi veniva dopo: tutti quelli non nati (o non candidati) negli “anni giusti”. A questo proposito meritano attenzione i dati riportati da Davide Borrelli (sul sito Ais) sulle cessazioni di servizio, per raggiunti limiti di età, previste nei prossimi anni. Considerando i pensionamenti programmati entro il dicembre 2016 e il numero di abilitati nei settori sociologici, secondo i calcoli fatti da Borrelli il tasso di sostituzione (dei pensionamenti) sarebbe pari allo 0,81 nel settore 14/C1 e all’1,01 nel 14/D1. Tenendo conto che si tratta della prima tornata abilitativa, questi dati non dovrebbero suscitare preoccupazione. Anzi denotano un marcato senso di responsabilità da parte delle commissioni. Borrelli tuttavia fa osservare che in altri settori il tasso di sostituzione è decisamente superiore, arrivando fino ad un massimo di 26. In altre parole – se il suo ragionamento è corretto – per ogni pensionamento previsto da qui al 2016 ci sono 26 neo-abilitati pronti a rimpiazzarlo. Borrelli conclude dicendo che questa vicenda evidenzia lo spirito di “auto-punizione” che affligge la sociologia italiana, poiché le cifre sopra indicate sono destinate a cambiare gli equilibri tra le varie discipline destinando la nostra comunità accademica ad una “progressiva autoestinzione”.
Ma davvero questi dati suggeriscono queste conclusioni? Noi crediamo di no. Per due motivi. Il primo è che a stabilire il reclutamento effettivo degli abilitati saranno poi le chiamate e i concorsi locali. Non è perciò detto che tutti gli abilitati vedranno soddisfatte le loro (pur legittime) aspettative. E tuttavia è innegabile che i settori con molti abilitati eserciteranno una forte pressione a livello locale. Il secondo motivo per cui l’argomentazione di Borrelli non ci convince è che questi dati evidenziano, non tanto un difetto di comportamento nelle nostre commissioni, ma un problema macroscopico della normativa vigente. Proprio tenendo conto dei posti disponibili nei prossimi anni (per pensionamento), chi si è comportato correttamente: le “severe” commissioni sociologiche oppure le “generose” commissioni di altri settori? La risposta che ci diamo è che una normativa che consente una variabilità così ampia nell’esito delle abilitazioni (come quella registrata in questa prima tornata) e che rischia di premiare i comportamenti opportunistici (da parte di eventuali “commissioni lassiste”) contiene un vizio regolativo di fondo. Su questo torneremo più avanti.
2) “Nordisti” contro “sudisti”? Tra le molte stravaganze che abbiamo sentito circolare in queste settimane, quella che più ci ha colpito è la tesi (complottista) che i commissari del Nord abbiano inteso colpire i candidati del Sud per affossare la sociologia nel Mezzogiorno. Si tratta, secondo noi, di una sciocchezza che non meriterebbe alcun commento. E tuttavia molti post che abbiamo letto si sono concentrati su una presunta mancanza di “equità” nei confronti dei candidati del Sud. Sia chiaro, non neghiamo che un problema esista, e che questa ASN l’abbia reso palese. Ma non è un problema che possa essere imputato a come le commissioni hanno agito. Che cosa avrebbero dovuto fare i commissari, usare criteri diversi a seconda dell’area geografica di provenienza dei candidati? Applicarli in maniera differenziata? Questo avrebbe significato svolgere un ruolo che non compete ai commissari; assolvere cioè una funzione di supplenza nei confronti di una seria politica della formazione e della ricerca che tenga conto anche delle differenze (e degli eventuali handicap) derivanti dalla collocazione territoriale delle Università. La loro decisione di tenere l’asticella particolarmente alta ha tutt’al più contribuito a evidenziare l’esistenza di un divide geografico. Valutare le cause di questa “divisione territoriale” nella sociologia italiana, i vincoli che probabilmente intralciano al Sud la produttività anche degli studiosi più capaci, e quali azioni debbano essere intraprese in futuro per superare questa anomalia: tutto questo è una questione che merita una seria riflessione autocritica da parte di tutta la nostra comunità accademica, senza artificiose contrapposizioni territoriali. In particolar modo l’AIS ci sembra debba farsi carico di un compito di questo tipo.
3) La mobilitazione del risentimento. Due parole, infine, sul dibattito che si è sviluppato sull’ASN. Ne vediamo un lato positivo e uno decisamente negativo. Il primo è facilmente immaginabile: la pubblicazione online di tutti i giudizi dei commissari e la disponibilità dei CV dei candidati agevolano la “trasparenza” della valutazione. Il dibattito in corso, quindi, può aiutare a chiarire i parametri e i criteri utilizzati dalle commissioni e consente di segnalare errori e anomalie, presunte o reali. Bene quindi. E tuttavia c’è un lato anche meno positivo. Il clima accesso delle recriminazioni, la messa in moto immediata della “macchina dei ricorsi collettivi”, l’individuazione dei commissari buoni e di quelli cattivi non ci convince affatto. Lo troviamo anzi inquietante. Ci chiediamo, ci aiuta a fare passi avanti nel radicamento di una cultura “fair” della valutazione? Al di là delle migliori intenzioni dei singoli, non stiamo creando un clima da caccia alle streghe che avrà effetti peggiori del male che intende curare? Non rischiamo di delegittimare l’intero meccanismo? Chi avrà, in futuro, il “coraggio professionale e civile” (a meno di non avere corposi interessi in gioco) di candidarsi nelle commissioni nazionali, sapendo che dovrà esporsi ad un simile trattamento? Su questo punto ci sia consentita anche una critica all’Ais. Possibile che il direttivo, nella sua nota (di cui pure apprezziamo l’intenzione di fondo), non abbia speso neppure una parola di ringraziamento per l’enorme mole di lavoro svolto dalle commissioni? Ciò nulla avrebbe tolto alle critiche avanzate nei loro confronti.
Veniamo dunque alla parte conclusiva e più propositiva di questo post. Alla luce della prima tornata di abilitazioni, ci sono alcune cose che continuano a convincerci nella procedura avviata dalla L 240 e che rappresentano un passo avanti rispetto al passato.
In primo luogo, l’esistenza di un livello nazionale di valutazione dei candidati. Questo fa sì che i meccanismi di reclutamento e le progressioni di carriera siano sottratte ad una logica angusta di localismo e fedeltà personale nei confronti degli ordinari di riferimento. Questo livello nazionale va ripensato, ma va anche difeso, poiché insieme alla VQR ha messo in moto un parziale processo di disaccoppiamento tra il controllo dei percorsi di carriera e le posizioni di potere all’interno delle “tre componenti”, indebolendone i meccanismi di riproduzione (o perlomeno rendendoli più complicati). Altri aspetti che troviamo convincenti – e su cui non ci dilunghiamo – sono l’utilizzo degli indicatori di impatto della produzione scientifica e l’enfasi posta sulla internazionalizzazione (anche se le loro modalità di impiego andranno chiarite e precisate meglio).
Ci sono invece altri aspetti della normativa che si sono dimostrati inadeguati e che richiedono un correttivo. Ci limitiamo a segnalare alcuni punti (alcuni già menzionati anche in altri contributi).
1) Troppi candidati per pochi commissari. Da un lato questo porta a giudizi frettolosi, dall’altro conferisce troppa importanza al caso (il meccanismo del sorteggio). Gli inevitabili bias individuali di sole cinque persone, infatti, finiscono per avere effetti amplificati sull’intera comunità scientifica di riferimento. Moltiplicare le commissioni, parametrandole sul numero dei candidati e assicurando che tutti i SSD siano rappresentati, ridurrebbe entrambi questi problemi. Lo stesso farebbe la separazione delle commissioni per l’abilitazione di prima e seconda fascia.
2) Troppa variabilità nei comportamenti delle commissioni. Questo – a nostro avviso – è il punto più delicato. Senza la previsione di qualche tetto al numero delle abilitazioni, i settori concorsuali che sposano una politica della “manica larga” possono inondare le università di abilitati, creando una pressione verso il reclutamento che mette in difficoltà i settori con un comportamento valutativo più rigoroso. Perché dunque non ancorare le abilitazioni ai pensionamenti previsti e al piano triennale per la programmazione e il reclutamento del personale imposto agli atenei dalla L. 240/2010? La presenza di un tetto esterno annullerebbe la discrezionalità delle varie commissioni su questo aspetto strategico. Ci rendiamo conto che ciò significherebbe “contaminare” il giudizio di abilitazione con una logica diversa, basata su una valutazione comparativa. Ma quali sono le contro-indicazioni nel farlo? Ne uscirebbe semplificata anche la procedura di secondo livello, quella della chiamata locale dei professori, che dovrebbe rimanere ancorata ad una valutazione comparativa di candidati, finalizzata a garantire il matching tra le richieste dei vari atenei e le competenze dei vari candidati.
3) Tornare ad una “maggioranza semplice”. Qualora fosse posto un tetto alle abilitazioni, il vincolo per le commissioni di prendere le decisioni a maggioranza qualificata (4 voti favorevoli su 5) diverrebbe superfluo. La sua ratio, infatti, era volta ad ostacolare una “deriva alluvionale” delle abilitazioni, richiedendo ai commissari una quasi unanimità di giudizio sugli idonei.
Un ultimo punto su cui la nota del direttivo Ais ci invita a riflettere sono i meccanismi di formazione delle commissioni. Noi siamo per mantenere inalterati quelli in vigore. Vi scorgiamo due vantaggi. Il primo è che assicurano una qualificazione scientifica dei commissari almeno paragonabile a quella richiesta ai candidati per l’abilitazione di prima fascia. Il secondo vantaggio è che il meccanismo del sorteggio orienta le aspettative dei candidati verso lo “scenario peggiore” (il migliore per la comunità accademica nel suo complesso): una commissione composta da docenti qualificati, non conosciuti personalmente. Ciò li dovrebbe spronare a qualificare il proprio curriculum, anziché a coltivare le relazioni personali e di componente. Ci lascia invece perplessi – perché non ne capiamo appieno il significato – la proposta del direttivo Ais di “individuare nuovi meccanismi per la formazione delle commissioni, attribuendo alle comunità disciplinari la possibilità di definire l’universo dei commissari sorteggiabili, tra quanti superano il filtro delle mediane”. Temiamo infatti che ciò apra un varco pericoloso nella procedura, che può riconsegnare la formazione delle commissioni al controllo delle componenti e alle logiche spartitorie del passato.
Dobbiamo lavorare perché si crei una nuova solidarietà nella nostra comunità, basata sulla stabilizzazione dei criteri di merito, sulla costruzione di una nuova fiducia reciproca, sull’affermarsi di una “classe dirigente” e di organi di rappresentanza qualificati per promuovere l’interesse collettivo.
Noi crediamo che continuare ad ampliare la frattura tra il risentimento dei non abilitati (e dei loro “referenti” di prima fascia) e l’irritazione di coloro che vogliono elevare gli standard della sociologia in Italia non faccia del bene al futuro della nostra disciplina. Chiediamo quindi lo sforzo di tutti per spostare il dibattito dal piano della “colpa” (accusa/difesa) a quello della progettualità, dove vi possono naturalmente essere posizioni diverse (e quindi, appunto, un dibattito), ma dove valori e interessi collettivi possano meglio depurarsi dalle dinamiche degli interessi individuali. E’ necessario creare fattivamente situazioni di incontro, in gruppi di discussione eterogenei, per uscire dal vortice creato, non da ultimo, dal linguaggio di Internet, così versato alla semplificazione e alla radicalizzazione dei concetti. A questo riguardo approviamo l’intenzione, annunciata dal direttivo AIS, di promuovere gruppi di lavoro e di confronto sul tema della valutazione.
Francesco Ramella (Università di Torino) e Paolo Volonté (Politecnico di Milano)
14. Lettera di M. Ferretti al Ministro Carrozza sui tempi dei risultati ASN
Al Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca
Onorevole ministro,
la procedura dell’ASN, che si proponeva di mettere in atto un nuovo sistema di reclutamento del corpo docente universitario tale da migliorarne la qualità e che, come lei ben sa, ha già suscitato numerose polemiche (ai posteri l’ardua sentenza!), aveva fissato un termine unico per la fine dei lavori delle commissioni con lo scopo, se non vado errata, di render pubblici i risultati dei diversi settori in un lasso di tempo ragionevolmente unico, onde evitare che gli abilitati “prima” potessero trovarsi avvantaggiati. Sono trascorsi ormai due mesi dal temine ultimo dei lavori delle commissioni più numerose e moltissimi settori sono ancora in attesa dei risultati, che escono col contagocce. Poiché l’ANVUR si ispira statutariamente, fra l’altro, al principio della trasparenza, finora, ahimè!, piuttosto bistrattato, vorrei sapere in base a quali criteri è stato deciso l’ordine di pubblicazione dei risultati delle commissioni, per quale ragione i risultati di quelle che, a norma di regolamento, hanno terminato prima non sono stati resi pubblici per primi, seguendo in tal modo un ordine banalmente cronologico, e quando ci sarà dato di venire finalmente a conoscenza di decisioni che influiscono sul destino di molti di noi. Vorrei sapere, in particolare, per quando è prevista la pubblicazione dei risultati di slavistica, che fa parte delle commissioni che hanno chiuso i lavori entro il 23 novembre.
Ringraziandola in anticipo per la sua risposta, distinti saluti
Maria Ferretti
Professore di storia contemporanea all’Università della Tuscia
13. Nuova interrogazione del sen. Corsini sull’ASN del settore 11/A3
Atto Senato n. 4-01554
Pubblicato il 28 gennaio 2014, nella seduta n. 176
CORSINI – Al Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca. –
Premesso che, per quanto risulta all’interrogante:
l’art. 16 della legge 30 dicembre 2010, n. 240, ha istituito l’abilitazione scientifica nazionale per le funzioni di professore universitario di prima e di seconda fascia; poi, con decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 222, è stato emanato il regolamento concernente il conferimento dell’abilitazione scientifica nazionale e fissato il termine per la conclusione dei lavori delle commissioni giudicatrici a 5 mesi e 60 giorni dalla pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale, scaduto il quale si sarebbe provveduto alla sostituzione della commissione stessa; poi, con determinazione direttoriale n. 222 del 20 luglio 2012 è stata bandita la prima tornata per il conferimento dell’abilitazione; tra luglio, agosto e settembre 2012, cioè a procedura in corso, le regole relative alle mediane cambiavano e venivano ripubblicate: prima erano stabilite due mediane, poi veniva aggiunta una terza e venivano modificate anche le liste delle riviste cosiddette di fascia A, cioè una delle mediane da superare, inoltre si stabiliva che nei singoli settori disciplinari le commissioni avrebbero, eventualmente e a propria scelta, potuto aggiungere dei criteri ulteriori di selezione, fatto salvo che questi criteri aggiuntivi non potevano essere affatto alternativi o sostituire in alcun modo i precedenti criteri stabiliti da regolamento;
è evidente che questo meccanismo di modifica in corso renderebbe incongruo il modo con cui sono stati selezionati gli stessi commissari valutatori, cioè con un criterio diverso da quello poi usato e cambiato in corsa per valutare i candidati;
nel frattempo, l’iniziale termine di scadenza dei lavori delle commissioni, mediante specifica determinazione direttoriale n. 47 del 9 gennaio 2013, è stato prorogato al 30 aprile 2013, poi al 31 maggio, poi al 30 giugno 2013 a seconda del numero dei candidati nei singoli settori concorsuali, successivamente al 30 settembre, infine al 30 novembre 2013; poi, con determinazione direttoriale n. 161 del 28 gennaio 2013, è stata bandita la seconda tornata per il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale, con scadenza per la presentazione delle domande fissata al 31 ottobre 2013, senza che la procedura relativa alla prima tornata fosse terminata, a seguito delle continue proroghe; inoltre, con nota ministeriale n. 3209 del 14 febbraio 2013, mentre la procedura di valutazione da parte delle commissioni giudicatrici era in corso, i candidati venivano invitati a verificare la correttezza dei codici biblioteconomici delle pubblicazioni inserite a suo tempo nella domanda di partecipazione, ovvero anche a inserire quelli mancanti, con possibilità di manipolazione dei dati; il succedersi delle proroghe, l’impossibilità di verificare i termini e il contrasto delle diverse operazioni nella procedura di abilitazione appare evidente; infine, con nota ministeriale n. 754 del 2013, si ricorda che: “le commissioni possono non attribuire l’abilitazione a candidati che superano le mediane prescritte per il settore di appartenenza, ma con un giudizio di merito negativo della commissione, ovvero possono attribuire l’abilitazione a candidati che, pur non avendo superato le mediane prescritte, siano valutati dalla commissione con un giudizio di merito estremamente positivo (…) resta fermo che ogni decisione della commissione, relativamente a quanto precede, dovrà essere rigorosamente motivata, sia in sede di predeterminazione dei criteri che di giudizio finale”;
con determinazione direttoriale n. 799 del 21 dicembre 2012 è nominata la commissione giudicatrice del settore concorsuale 11/A3 Storia contemporanea;
con verbale del 29 gennaio 2013 la commissione stabilisce i criteri e i parametri per la valutazione delle pubblicazioni e dei titoli dei candidati all’abilitazione; relativamente alla procedura relativa alla seconda fascia, oltre al superamento delle mediane (produzione di monografie, saggi su rivista, contributi in volume collettaneo, oggettivamente riscontrabili dalla comunità scientifica), dichiara di prendere in considerazione alcuni parametri aggiuntivi che non dipendono in alcun modo dalle capacità e dalla qualità di ricerca del singolo candidato ma da fattori di inserimento in scuole di pensiero accademico, tra cui aver partecipato a un prin (si tratta di semplici partecipazioni a chiamata da parte di un responsabile di un progetto di ricerca nazionale), aver partecipato al comitato di redazione di una rivista ritenuta scientifica (il singolo saggio di un candidato è abitualmente sottoposto a referaggio e valutato per la qualità del suo contenuto, senza per questo la necessità di aver fatto parte di una redazione di rivista), di aver partecipato a comitati scientifici di istituti o fondazioni, di aver partecipato al comitato di direzione di una collana editoriale, di aver conseguito un premio o un riconoscimento, l’aver condotto un soggiorno di ricerca o l’aver partecipato a un qualsiasi convegno purché svoltosi all’estero; questi criteri aggiuntivi sono arbitrariamente inseriti dalla commissione del settore specifico e non compaiono in tantissime altre commissioni di settori affini (si veda in particolare l’esempio del settore affine di studi storici e storia medievale);
il giorno 29 novembre 2013 la commissione chiudeva la procedura, comunicandola al Ministero e, nei giorni seguenti, vengono resi pubblici sul sito i risultati degli abilitati e i rispettivi giudizi;
in inottemperanza con quanto stabilito in precedenza dal regolamento sull’abilitazione scientifica nazionale e da quanto definito dalla nota ministeriale citata, la commissione ribalta i criteri di valutazione stabiliti dal bando per regolamento (superamento di almeno 2 mediane) ed applica il criterio del superamento di una sola mediana come requisito minimo e inserendo dei criteri aggiuntivi in modo soggettivo, peraltro, in molti casi, senza motivarli analiticamente; in certi casi i criteri aggiuntivi stabiliti dalla commissione appaiono aver preso il sopravvento nei giudizi finali sulle mediane stesse, facendoli diventare di fatto decisivi, in contrasto con le direttive ministeriali; in alcuni casi vengono abilitati candidati che hanno ricevuto un parere positivo da solamente uno dei 5 commissari e un parere dunque negativo o comunque critico, o molto critico dai restanti quattro quinti dei commissari; in molti casi il parere positivo dei commissari è solo di 2 membri su 5, in altri di 3 su 5;
in particolare, sinteticamente, vengono abilitati 20 candidati che hanno superato solamente una mediana, alcuni dei quali senza il possesso dei requisiti aggiuntivi, altri con requisiti aggiuntivi dedotti da curricula poco chiari e non documentabili; vengono abilitati 8 candidati con una sola monografia; sono inoltre abilitati 30 candidati che non hanno superato affatto i cosiddetti requisiti aggiuntivi stabiliti dalla commissione, ma per cui viene fatta un’eccezione (alcuni dei quali hanno superato non tutte le mediane, ma solo 2 e in alcuni casi addirittura solamente una);
molti dubbi sorgono sull’operato della commissione in merito ad alcune valutazioni sui curricula: riferimenti a istituti storici locali poco significativi nell’ambito della ricerca storiografica nazionale e internazionale; partecipazione a comitati di riviste on line nate di recente; dichiarazione falsa di presenza in comitati scientifici di riviste, partecipazione a giornate conclusione di prin ma non al gruppo di ricerca del progetto finanziato; pubblicazioni o attività di ricerca precedenti rispetto al limite massimo dei 10 anni rispetto alla scadenza dell’iscrizione alla procedura di abilitazione; riferimenti a premi di tesi di laurea locali poco significativi nell’ambito della ricerca storica nazionale; non congruità delle pubblicazioni rispetto al settore oggetto dell’abilitazione;
si segnalano anche casi di giudizi di eccezione ma che contano non l’unanimità ma 3 favorevoli e 2 contrari, o appelli all’eccezione da parte dei commissari con giudizi del tipo “l’abilitazione ci può stare”, o ancora “è pur sempre possibile” o ancora “mi sembra difficile” o ancora “una abilitazione possibile” o ancora “l’abilitazione può essere presa in considerazione” senza che emerga con chiarezza il giudizio negativo o positivo;
scendendo nel merito di quelli che sono da considerarsi i casi più eclatanti: un candidato che ha superato una sola mediana, che ha presentato una sola monografia, che non ha raggiunto i requisiti aggiuntivi, che ha dichiarato di aver fatto parte del comitato di una rivista di cui in realtà non faceva parte, viene incredibilmente ed eccezionalmente abilitato; una candidata che ha superato una sola mediana su 3, con pochissime pubblicazioni ed ha ottenuto il giudizio positivo di un solo commissario, quelli non ben comprensibili di 2 commissari e quello totalmente negativo di altri 2, è abilitata; un candidato che ha superato una sola mediana su 3, che ha presentato una sola monografia e che ha ottenuto un giudizio positivo di soli 2 commissari su 5, è abilitato; candidati che hanno superato una sola mediana su 3 e che non hanno i requisiti aggiuntivi sono comunque abilitati; una candidata che ha superato una sola mediana, che ha ricevuto un giudizio negativo di 3 commissari riguardo all’abilitazione, uno possibilista e uno solo positivo, che ha vinto un premio locale marginale e che ha sostenuto un soggiorno di attività di ricerca in Usa ma nel lontano 1996, fuori dunque dall’arco temporale oggetto della selezione, elementi ritenuti utili per il superamento dei requisiti aggiuntivi e quindi utili per la concessione dell’abilitazione, è abilitata; il caso di un candidato che ha superato solo una mediana su 3, che non ha i requisiti aggiuntivi ma è abilitato “dato il livello della produzione scientifica”; di contro la vicenda dell’uso di pesi e misure diverse: il caso di un candidato che ha superato tutte e 3 le mediane, che ha avuto un giudizio positivo su pubblicazioni e titoli da parte di tutti i commissari, e che quindi, si deve dedurre, può ottenere un giudizio di buon livello sulla produzione scientifica, non è abilitato solamente perché non ha i cosiddetti requisiti aggiuntivi; e quello, in parallelo, di chi supera le 3 mediane ed aveva avuto un giudizio positivo, non supera i requisiti aggiuntivi, ma è invece abilitato dalla commissione,
si chiede di sapere:
se il Ministro in indirizzo non ritenga opportuno intervenire per chiarire aspetti controversi o dubbi circa le procedure per il conferimento dell’abilitazione e per il ricorso ad eccezioni nella concessione dell’abilitazione;
se intenda inoltre intervenire con urgenza per verificare quanto evidenziato ed assumere determinazioni conseguenti.
12. Paolo Scarpi, Riflessioni su ASN e VQR
Premesso che qualche collega non capisce e mi chiede le ragioni del mio malessere di fronte al sistema inaugurato dalla cosiddetta riforma Gelmini, dopo gli esiti VQR della mia sede universitaria per il mio SSD e dopo che miei allievi hanno ottenuto l’abilitazione nazionale, ritengo che proprio questi esiti mi autorizzino a esprimere un parere, certo pacato, ma chiaro su questo meccanismo. Dopo l’ Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-01454 dell’8 gennaio 2014 del senatore e collega Corsini (PD), così come dopo l’interrogazione del deputato Migliore (SEL) alla Camera, nonché altri interventi sulla stampa nazionale, forse non è il caso di riprendere in maniera dettagliata e approfondita la questione della Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN). Da un punto di vista generale così come nello specifico delle critiche mosse dal senatore Corsini alla commissione del macrosettore concorsuale 11/A4, che mi riguarda direttamente, il meccanismo si è rivelato complesso e senza garanzie, non certo migliore dei tanto deprecati concorsi. Lo schema di disegno di legge collegato alla legge di stabilità 2014 del 7 / 11 / 2013 (“Delega al Governo in materia di istruzione, università e ricerca”), mostra come anche per l’attuale compagine governativa la cosiddetta Legge Gelmini richieda una revisione. Pertanto l’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN) con le sue distorsioni non può andare separata da una valutazione generale dell’applicazione della Legge 240/2010, nello specifico relativamente all’ ANVUR e alla VQR.
L’ANVUR, di nomina ministeriale, è l’espressione della prospettiva verticistica e dell’ottica utilitaristica di un governo di destra perché tale dichiaratosi, che aveva esplicitamente affermato come con quella legge si archiviasse il ’68 (ormai lontanissimo e dalla ministra Gelmini, in ragione della sua età, conosciuto solo attraverso i racconti di altri o dalle cronache). Non credo fosse un caso che l’ANVUR non contemplasse alcun umanista al suo interno, se l’obiettivo era di obbligare l’Università italiana ad adeguarsi a una visione tecnocratica ed economicistica (non affronto ora il problema dei vari modelli ideologici da cui dipende quella legge). Qualcuno potrà anche dire che l’ANVUR si è corretta cooptando al suo interno il presidente dei GEV di area 11, e cioè lo storico contemporaneo Andrea Graziosi. Persona gentile e cortese, molto disponibile, con il quale ho avuto più di qualche scambio di idee molto civile e costruttivo, sono certo che Graziosi farà del suo meglio per rappresentare gli umanisti italiani. Tuttavia Graziosi non è un umanista, non ne ha la formazione. Il suo curriculum pubblicato sul sito dell’ANVUR è chiaro: ha conseguito una laurea in Economia e le sue specializzazioni vanno tutte in questa direzione. E questo spiega alcune sue prese di posizione, come l’irrigidimento nel voler mantenere a tutti i costi l’impermeabilità tra le riviste di classe A tra area 10 e 11. Divisione areale del tutto priva di senso, da un punto di vista scientifico-culturale, ignorata per la VQR e rigidamente applicata invece nel calcolo delle mediane. Ed ecco allora il paradosso che uno storico delle religioni antiche che per caso pubblichi un saggio sul comportamento rituale ossessivo dei fedeli nel culto di Cibele e Attis su SOCIETÀ E STORIA, si vede riconosciuto il suo contributo su rivista di classe A, ma se lo pubblica su MYTHOS, dove avrebbe certo più senso e sarebbe verificato con maggiore competenza, non se lo vede riconosciuto.
Per quanto concerne la VQR, molte sono state ormai le critiche rivolte a questa forma di valutazione, rivelatasi poco utile e poco significativa. Se l’interrogazione di Corsini ha messo in luce l’anomala formazione del macro-settore concorsuale 11/A4 (su cui tornerò tra poco), il modo di procedere dei GEV nella scelta pressoché personale dei valutatori lascia perplessi e alto appare il rischio dell’arbitrio. Assenti erano poi criteri formali che concorressero a fissare la pertinenza scientifica di un’opera (per alcuni miei colleghi l’assenza di note è indice di poca o nulla scientificità). Il fatto che ciascuno studioso dovesse presentare solo tre opere (due i ricercatori) ha impedito ai SSD di nicchia di potersi esprimere e ha impedito che si potesse tenere conto dell’operosità dei soggetti valutati. Del pari non creare un collegamento con la vecchia CIVR, adducendo il motivo che era troppo lontana nel tempo (cinque anni), ha ulteriormente impedito di vedere se vi è continuità nella qualità della produzione. Cinque anni sono pochi per la produzione umanistica, soprattutto se si tiene conto che vi sono opere che richiedono decenni di ricerche e di studi, e non è possibile ritenerle obsolete dopo soli cinque anni. E qui si innesta un’altra critica forte al processo di valutazione avviato con la VQR: l’equivalenza tra articolo su rivista e volume, monografia, commento scientifico, edizione critica, ecc. Ciò porterà inevitabilmente all’abbandono della ricerca di ampio respiro mentre si assisterà al proliferare di piccoli e brevi studi. Per fortuna mi risulta che una riflessione sia in corso.
Venendo infine all’ASN, personalmente condivido e mi sento di sottoscrivere quanto sostenuto da Corsini nella sua interrogazione al Senato, per tutte le ragioni da lui allora esposte, anche se si è soffermato prevalentemente sugli esiti dei candidati del SSD M-STO/07 (Storia del cristianesimo e delle chiese), di molti dei quali ha fatto i nomi. La presenza di un membro pro veritate scelto dalla commissione, perché dichiaratasi incompetente per quel SSD, ancorché consentito dalla legge, è evidentemente una stortura, come ben sottolineato da Corsini e su cui non ritorno, così come distorto è l’accorpamento che ha dato come esito il macro-settore concorsuale 11/A4. Avevo personalmente scritto al presidente del CUN e vi aveva pure scritto l’allora vice-presidente (oggi presidente) della Società italiana di Storia delle religioni perché impedisse questa mostruosità invitandolo a considerare quale era stata la storia scientifica di quello che è oggi il SSD M-STO/06, senza ottenere nemmeno un cortese riscontro. E oggi questo è l’esito. Corsini, nella sua interrogazione, si chiede se Díez de Velasco, il membro OCSE, conosce la lingua italiana. Avrebbe dovuto invece chiedersi come mai i giudizi più impegnativi sono scritti in italiano e i meno impegnativi sono scritti in spagnolo e tutt’al più quali erano e sono tutt’ora i suoi interlocutori italiani, peraltro per gli addetti ai lavori facilmente individuabili considerando il taglio delle pubblicazioni del collega spagnolo. Il macro-settore concorsuale 11/A4, nella sua mostruosità compositiva (Paleografia, Biblioteconomia, Scienze del libro, Storia del cristianesimo e delle chiese, Storia delle religioni), rivela macroscopicamente l’approssimazione ideativa di queste abilitazioni, ma anche l’approssimazione applicativa, consegnando, nel caso della Storia delle religioni, nelle mani di una sola persona e per troppo tempo i destini di molti ricercatori e studiosi, introducendo nel medesimo tempo un altissimo rischio di arbitrio e di alea, oltre al danno che la normativa prevede per coloro che in queste già svantaggiate e discutibili condizioni non hanno conseguito l’abilitazione. Con un ulteriore paradosso: se per ventura hanno ripresentato domanda prima che fossero pubblicati gli esiti, potranno evidentemente ottenere l’agognata abilitazione (forse), ma se per un eccesso di rigore personale o per puro caso non si fossero ripresentati, dovranno saltare una tornata abilitante, se mai ve ne saranno altre. Il vecchio sistema concorsuale avrebbe garantito maggiore equilibrio tra le diverse scuole e metodologie che non questa macchina costosa e poco convincente.
Paolo Scarpi, Prof. Ordinario di Storia delle religioni, Università di Padova
11. Luigi Pellizzoni, Una risposta a ‘Dove va la sociologia parte 2, riflessioni e commenti’
Dopo l’opinione pubblicata il 12 gennaio 2014 sul blog ‘Per la sociologia’, mi ero ripromesso di non intervenire più sulla vicenda delle abilitazioni in sociologia, ritenendo di aver detto tutto quello che avevo da dire. Il post pubblicato da Roars ‘Dove va la sociologia parte 2, riflessioni e commenti’, a firma di Maria Luisa Bianco, Paolo Giovannini, Alberto Marradi, Franco Rositi, Loredana Sciolla e Giovanni Battista Sgritta, mi obbliga a un nuovo intervento.
Mi obbliga, innanzitutto, a una precisazione, a tutela della mia onorabilità. Nel testo gli estensori mi accusano di menzogna e di spargere fango, in quanto avrei loro attribuito riferimenti a ‘nemici, cordate, epurazioni, regolamenti di conti’, riferimenti assenti dal loro documento ‘Dove va la sociologia italiana’, del 3 gennaio 2014. Invito tutti a (ri)leggere il mio post per verificare se ho attributo specificamente al loro documento queste espressioni. In realtà, com’è facile costatare scorrendo gli interventi precedenti al mio, mi riferivo ad alcuni dei commenti usciti successivamente a quello di Bianco & C. Accusare pubblicamente qualcuno di menzogna senza nemmeno controllare a cosa si riferisce il testo incriminato è un comportamento diffamatorio e moralmente riprovevole, che oltre a indignarmi mi rattrista in quanto, pur senza esserne stato direttamente allievo, consideravo maestri alcuni degli estensori del documento; maestri non solo di sociologia ma anche e soprattutto di civiltà. Voglio dare a Bianco & C. il credito della superficialità, altrimenti devo pensare che sono loro a voler gettare fango su di me con la menzogna, forse perché nel mio intervento ho toccato tasti cui sono particolarmente sensibili. Li invito pertanto a scusarsi pubblicamente e ritirare l’ingiuria rivoltami.
Detto questo, nel nuovo documento Bianco & C. volano alto. Ribadiscono sostanzialmente la tesi di un orientamento se non doloso perlomeno ideologico della commissione, che avrebbe privilegiato una concezione ‘scientista’ o dogmatica, piegata a ossequiare supposti standard internazionali che non farebbero che umiliare la ricchezza e varietà dei contributi italiani alla disciplina. Rispetto al documento precedente in questo testo il fuoco del ragionamento si sposta dai concorsi in quanto tali alle sorti della disciplina – intellettuali prima ancora che accademiche. Sembrano considerazioni serie, su cui svolgere una attenta riflessione.
Nel mio post – i cui elementi sostantivi Bianco & C. evitano accuratamente di prendere in considerazione – mi sforzavo, credo in modo pacato, di collocare la discussione sul suo sfondo storico: ciò che è avvenuto nella sociologia italiana degli ultimi trent’anni. La cosa è a mio avviso cruciale per comprendere l’esatto significato degli interventi di Bianco & C. e altre prese di posizione dello stesso segno. Il punto qui non è quello dei problemi e delle mancanze del sistema delle abilitazioni o della VQR, su cui altri più competenti di me hanno detto e possono dire. Il punto è rispetto a quale scenario precedente tale sistema va valutato. Quello che sto per dire i sociologi lo sanno molto bene, quindi mi rivolgo principalmente agli altri lettori.
Per circa trent’anni la sociologia accademica è stata dominata da tre gruppi, detti le ‘componenti’, divisi inizialmente su basi ideologiche e poi secondo pure logiche di potere. I gruppi dirigenti di queste tre ‘componenti’ hanno di fatto deciso le sorti di tutto e di tutti, secondo criteri di spartizione feudale. Bianco & C. hanno svolto ruoli di primo piano all’interno della sociologia italiana. Alcuni di loro, se ben ricordo, hanno a suo tempo mosso alcune critiche, ma non mi risulta abbiano mai compiuto passi concreti al riguardo – ossia votare in commissione di concorso a favore di un candidato appartenente a una ‘componente’ diversa dalla propria.
Come in tutti gli ordinamenti feudali, in questo sistema la fedeltà e l’obbedienza sono state sistematicamente premiate rispetto all’autonomia e alla qualità scientifica. L’indicazione era di pubblicare solo nei posti gestiti dai ‘docenti di riferimento’ (spesso assolutamente ignoti al di fuori dei confini nazionali), sui temi decisi e con le bibliografie gradite a questi ultimi. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la sociologia italiana è largamente assente dal panorama internazionale. Le eccezioni, che ovviamente ci sono, non modificano il quadro complessivo. In questo contesto qualcuno ha deciso di cercare di confrontarsi con il dibattito internazionale e ha cominciato a mandare articoli a riviste qualificate, a partecipare a convegni, a inserirsi in circuiti scientifici rilevanti. Di solito senza l’aiuto di nessuno e senza santi in paradiso. Piano piano si è iniziato a risalire la china e adesso ci sono molti, in particolare delle generazioni più giovani, che sono veramente in gamba, hanno fatto esperienze significative e sono capaci di confrontarsi ad armi pari con il mondo fuori dai confini nazionali. Non pochi di costoro tali confini li hanno superati anche fisicamente, trovando collocazione lavorativa all’estero. Questi sociologi ‘indisciplinati’ sono verosimilmente quelli che per Bianco & C. sono colpevoli di ossequiare restrittivi standard internazionali, decisi da burocrati del sapere e tesi a reprimere gli ‘spiriti irrequieti dell’innovazione’. Spiriti talmente irrequieti, questi ultimi, che in genere privilegiano collane e riviste gestite dai suddetti ‘docenti di riferimento’ con i criteri di cui sopra. Provare a dialogare con il vasto mondo non rientra negli orizzonti di tali irrequieti spiriti.
In questo quadro spicca un dato che, a quanto mi consta, non è finora emerso nelle discussioni sulle abilitazioni: nessuno ha avuto niente da obiettare a proposito degli abilitati. Può sembrare poco ma in realtà è molto, se si considerano le polemiche che regolarmente hanno circondato le precedenti tornate concorsuali, dove appunto la fedeltà veniva molto spesso privilegiata all’autonomia e alla qualità scientifica – dove insomma era tranquillamente possibile fare senatore il proprio cavallo. La cosa è importante in quanto indica che, per quanto concerne la sociologia, almeno un risultato il sistema dell’abilitazione nazionale l’ha ottenuto: ha spezzato il sistema feudale precedentemente vigente, cosa che senza questo intervento dall’esterno – le nuove regole concorsuali – non sarebbe forse avvenuto mai; certo non in tempi brevi.
Mi rivolgo a questo punto ai colleghi che non sono stati considerati idonei all’abilitazione, pur a fronte di curriculum e pubblicazioni pregevoli. Diversi di loro li conosco personalmente e credo ci sia fra noi stima reciproca. Portiamo il ragionamento all’estremo e supponiamo che Bianco & C. e sostenitori di analoghe posizioni abbiano pienamente ragione. Supponiamo che la commissione abbia davvero agito in modo ideologico e ingiustamente punitivo. E supponiamo anche che la VQR sia talmente piena di difetti da ingenerare forti distorsioni dei valori in campo. Io non lo penso, ma supponiamolo. Chiedo: è questa una buona ragione per delegittimare tutto? Vogliamo tornare al vecchio sistema feudale, dove il libro stampato sotto casa valeva di più di un articolo approvato da referee realmente anonimi sparsi per il mondo? O è un’occasione forse unica per liberarcene una volta per tutte, lavorando semmai per migliorare i meccanismi di valutazione? Certo, si può obiettare che altrove la selezione avviene in modi molto diversi, più flessibili e pragmatici, per esempio con bandi aperti seguiti da short list e colloquio. Ma ve lo immaginate qui da noi? Se già le valutazioni comparative si prestavano all’arbitrio, con un sistema del genere finirebbe assunta la cognata del nipote del portiere del palazzo dove abita il ‘docente di riferimento’. Considerate poi che l’abilitazione non è una pietra tombale sulla qualità scientifica di una persona. E’ semplicemente una valutazione fatta da qualcuno, in un certo momento, con dati criteri e a proposito di un certo numero di pubblicazioni e attività. Fra due anni – se il sistema non viene scardinato, che è quello cui molti puntano – ci si potrà ripresentare con le nuove pubblicazioni e attività a una nuova commissione.
Ai colleghi che si ritengono ingiustamente puniti dico: proprio chi è uno studioso di valore ha tutto da perdere e niente da guadagnare dalla delegittimazione delle nuove procedure. Se si torna indietro, in qualsiasi forma, fedeltà e vassallaggio riprenderanno il sopravvento. Non ce ne libereremo più. Non fatevi affascinare dalle sirene di chi intende cavalcare il vostro scontento. Quelli che stanno a cuore a costoro, temo, non siete voi, ma loro stessi. In un sistema in cui l’autorità si misura più sul potere di distribuire posti che sull’autorevolezza scientifica, nel momento in cui questo potere viene meno anche l’autorità si squaglia come neve al sole. E’ questo, ho l’impressione, ciò che fa più paura nel paesaggio inaugurato dai nuovi concorsi. Presto – forse sta già avvenendo – si andrà a bussare alla porta del ‘docente di riferimento’, chiedendogli conto del perché l’aver seguito con fedeltà quanto costui chiedeva non ha prodotto i risultati attesi.
Ricordate la vicenda delle elezioni americane del 2000? Bush vinse su Gore grazie a conclamati brogli elettorali. Gore però decise di accettare il risultato evitando così di delegittimare l’intero sistema. Accettare un verdetto, anche se lo riteniamo profondamente ingiusto, è a volte la cosa migliore da fare se si ha a cuore il bene collettivo. In questo caso il bene collettivo – per tutti salvo coloro che nel vecchio sistema hanno prosperato – è di voltare finalmente pagina e cominciare una nuova fase per la sociologia italiana.
Luigi Pellizzoni (Università di Trieste)
10. Loriano Zurli, Abilitazione Scientifica Nazionale: Commissari marziani, senza pubblicazioni
Settore scientifico disciplinare 10/D3, Lingua e letteratura latina, numero di candidati II fascia: 137, numero candidati I fascia: 63; numero dei candidati che hanno presentato domanda sia per la II che per la I fascia: 20 (di cui 8 risultati non idonei già in sede di valutazione – effettuata per prima – della II fascia).
Considerato il numero ‘massimo’ di pubblicazioni che i candidati potevano presentare, a seconda della fascia (e sottratte dodici pubblicazioni pro capite degli 8 non idonei alla II fascia che avevano presentato domanda anche alla I): 1644 pubblicazioni i candidati di II fascia, 1038 pubblicazioni i candidati di I fascia. Totale massimo 2682 pubblicazioni (se ho commesso qualche erroruccio nel computo, lo correggerete).
Nessun escamotage: quand’anche un commissario avesse letto, precedentemente alla tornata di valutazione, un buon numero di pubblicazioni, avrebbe dovuto ri-leggerle alla luce dei criteri valutativi che la commissione si è data.
Verbali alla mano, quattro quinti della Commissione giudicatrice del settore ha lavorato dal 29 gennaio al 14 settembre (196 giorni). Ammettendo che abbiano lavorato tutti i giorni (senza fare altro), esclusa la sola domenica, ciascuno dei commissari ha letto piú di 13 pubblicazioni al giorno.
Il quinto commissario – che ha sostituito il precedente dimissionario – ha lavorato dal 29 luglio al 14 settembre (41 giorni). Ammettendo che si sia preso libere solo le domeniche (e non abbia fatto altro), ha letto qualcosa come 65 pubblicazioni al giorno.
La Commissione non si è valsa della proroga ministeriale al 30 novembre.
Dei veri marziani (il commissario subentrato non è neppure della nostra galassia). Giulio Ossequente li avrebbe ricordati nel suo Liber prodigiorum.
Stessa Commissione (10/D3, Lingua e letteratura latina), giudizio collegiale: «La produzione scientifica è parzialmente coerente con il settore». La produzione scientifica del candidato superava, abbondantemente, qualsiasi mediana. Bocciato.
Per esser ammessi al sorteggio e divenire commissari, l’ANVUR aveva fissato tre mediane e relativi indicatori numerici (ovviamente questi indicatori numerici andavano raggiunti e superati).
Ecco i valori delle tre mediane del settore 10/D3:
#libri #articoli su rivista e capitoli di libri #di articoli in riviste di fascia A
1 13 3
Accertamento della qualificazione scientifica degli aspiranti commissari da parte dell’ANVUR (nel cui sito si trovano pubblicati i curricula degli aspiranti commissari sorteggiabili).
Si veda il Curriculum Vitae del commissario subentrato (Luigi Munzi). Presenta le seguenti pubblicazioni pertinenti al settore: tre contributi in Atti di convegno (nn. 4, 5, 6), un contributo in volume (n. 1), otto articoli in rivista (nn. 1, 5, 7, 10, 12, 13, 17, 20). Riguardano, eccetto due o tre, i grammatici latini (operanti nel periodo oggetto del settore disciplinare). Tutte le altre «non sono coerenti con il settore».
E se si va a vedere la normativa vigente (“Procedura per la formazione delle commissioni nazionali etc.”, art. 5, comma 1 b, rinviante al DM 76/2012, art. 8, comma 3 e bla bla bla), con riguardo alla «coerenza» accertata sulla base degli indicatori di attività scientifica – al fine della valutazione della qualificazione degli aspiranti commissari (DM 76/2012, Allegato B, 6 a, b) –, le pubblicazioni coerenti con il settore disciplinare, appena sufficienti per adire il sorteggio, si riducono, «nei dieci anni consecutivi precedenti la data di pubblicazione del decreto …», indicati dal legislatore, a un contributo in volume e quattro articoli in rivista.
Insomma, spalmate sulle tre mediane:
#libri #articoli su rivista e capitoli di libri #di articoli in riviste di fascia A
0 1 4
Com’è che è divenuto commissario?
Regole demenziali (alla faccia di professori – senza articoli in fascia A – non ammessi al sorteggio).
Addendum. Lo stesso commissario ha ritenuto ‘non convincente’ la produzione scientifica di piú di 10 candidati alla I fascia che superavano tutte e tre queste mediane. In verità nei bocciati per la I fascia (50%) non c’era un solo candidato che avesse meno pubblicazioni di lui «coerenti con il settore» (pare non ce ne fossero neanche tra i candidati alla II fascia, che ha registrato una percentuale di bocciati del 60%).
Loriano Zurli, Ordinario di Filologia latina, Università di Perugia.
9. Maria Luisa Bianco, Paolo Giovannini, Alberto Marradi, Franco Rositi, Loredana Sciolla, Giovanni Battista Sgritta, Dove va la sociologia parte 2, riflessioni e commenti
- Benché tirati da tutte le parti, con grazia o con malanimo, vorremmo cercare di mantenerci sul terreno che avevamo scelto fin dall’inizio, quello di una seria e pacata discussione su cosa attenda la sociologia italiana e sulle trasformazioni che non da oggi la stanno investendo. Naturalmente non abbiamo evitato, e non lo faremo nemmeno in questo secondo documento, di confrontarci con quell’evento che è l’Abilitazione Scientifica Nazionale, vuoi per la nettezza con la quale si presenta, vuoi per la forte accelerazione che potrebbe imprimere ai processi in corso, vuoi infine per limitarne e contrastarne, se possibile, gli effetti a nostro parere più dannosi e ingiusti – per i singoli e per la comunità sociologica.
Dove va la sociologia è uscito il 3 gennaio 2014 a pochi giorni di distanza dalla pubblicazione dei risultati dell’ ASN. È stato il primo documento a prendere posizione su questa infelice vicenda. Da allora, gli interventi sono stati numerosissimi e hanno coperto tutto il continuum espressivo tollerato da chi li ospitava: da rapidi commenti di poche righe a scritti a forte valenza interpretativa (vedi Borrelli, Campelli e altri) fino a contributi disciplinarmente strutturati e ben documentati (Chiesi; Freschi, Mete e Sciarrone; Di Franco; Anzera e Pintaldi; ecc…).
Oggi, quindi, il materiale su cui riflettere è molto più ricco e dunque le posizioni possono essere più variegate e anche poggiare su basi più solide. Noi co-firmatari, in fondo, siamo partiti semplicemente da un dato di straordinaria chiarezza: e cioè l’inspiegabile differenza percentuale di abilitati del settore di Sociologia generale (tra il 16.7 e il 19.6%) rispetto alle altre discipline (che si collocano in media tra il 43.5 e il 44.6%). E ancora oggi, a distanza di qualche settimana, continuiamo a pensare che questo, nella sua rozzezza numerica, sia il dato fondamentale. È da questo dato che già nel primo documento abbiamo fatto derivare tutta una serie di altre analisi: ed è da esso che anche questa volta vogliamo partire confrontandoci per quanto possibile con un dibattito che ha avuto toni e contenuti non facilmente governabili.
La ragione è semplice. Da qualunque parte lo si guardi, quella incredibile differenza percentuale è un dato fortemente anomalo. Sostenere, come fanno i difensori d’ufficio della commissione, che è semplicemente il risultato oggettivo di una valutazione meritocratica nasconde l’incapacità di rispondere o, peggio, la volontà (consapevole o meno) di nascondere le vere determinanti di quella selezione. Un’azione di occultamento che fa classicamente uso della denigrazione (“siete dalla parte dei lassisti”, “volete l’ope legis per tutti”, “rifiutate il merito”, “mirate ad un ritorno al passato”, eccetera) e qualche volta della menzogna[1]. Purtroppo, alla statura intellettuale (quando c’è) non sempre corrisponde una statura morale, perché a queste pratiche si sono uniti anche colleghi e studiosi per altri versi stimabilissimi.
- Ciò che colpisce, trattandosi di un confronto tra persone che fanno un lavoro intellettuale, è la generale difficoltà di capire le argomentazioni dell’altro – o, forse, il rifiuto di capirle. È il caso (non l’unico purtroppo) della puntuale (e puntigliosa) replica di Barbera e Santoro (6 gennaio 2014) al nostro documento. La negazione delle ragioni da noi espresse è totale: punto per punto, e con crescente animosità, i due si affrettano a demolire ogni minima critica possa essere fatta all’operato della Commissione di Sociologia generale, politica e del diritto. Non scenderemo su questo terreno, né vogliamo imitare il loro stile totalizzante di polemica. Cominceremo anzi col riconoscere che ci sono buone ragioni nella loro critica alla diagnosi di scientismo con cui il nostro documento tende a caratterizzare l’operato di quella Commissione. In parte, a nostra scusante (ma come accade normalmente in queste occasioni) la nettezza del taglio interpretativo è dovuta allo stile dialogico (o dialettico se volete), che lascia da parte sfumature, precisazioni o eccezioni (che si danno per scontate). Ma in ogni caso è vero che non abbiamo documentato a sufficienza la nostra critica. Cercheremo in seguito di fare un’analisi per quanto possibile accurata degli orientamenti metodologici dei candidati (e il confronto fra i due gruppi: idonei e non idonei), per quel che se ne può dedurre dall’elenco delle pubblicazioni – e immaginiamo che il numero dei casi incerti non sarà piccolo e che comunque una stima di massima resterà possibile. Ma anche se l’accusa di scientismo apparisse alla fine fondata o comunque non infondata, ora bisogna ammettere che essa è stata formulata per lo meno prematuramente. Per alcuni di noi, ciò che ha portato a sottoscrivere l’accusa è l’idea di una equivalenza fra scientismo (nelle nostre “scienze”) e atteggiamento dogmatico, tendente all’intolleranza e al settarismo, atteggiamento ben rappresentato nella commissione. Tutto ciò sia detto, ben inteso, nella finzione che noi si abbia una comune nozione di scientismo, un concetto di per sé molto nebuloso; ma anche Barbera e Santoro lo trattano come se il significato ne fosse chiaro (cioè non ne discutono l’intensione, ma solo l’estensione), e quindi noi ci adeguiamo. Chiudendo comunque su questo punto: se l’accusa di un bias scientista non reggesse (e non stiamo dicendo che non regga), allora eventuali comportamenti ingiustificati di quella commissione dovrebbero attribuirsi a ragioni per così dire peggiori di quelle ideologiche.
Altro esempio. Barbera e Santoro sostengono che quella commissione è stata semplicemente e meritevolmente rigorosa, e che perfino eccessi di rigore (i giudizi sbrigativi di un commissario che essi stessi ricordano, e qualche errore di valutazione che essi stessi ammettono e considerano cosa comprensibile quando i candidati siano così numerosi) sono da considerare perdonabili davanti alla grande opera che quella commissione avrebbe compiuto con l’aver decretato la fine del lassismo scientifico nella nostra disciplina. Lasciamo da parte certo tono trionfalistico con cui è salutato questo nuovo presunto inizio e attribuiamolo semplicemente alla evidente vocazione leaderistica che i due vanno da qualche anno esprimendo. Resta il fatto davvero spiacevole che nella loro polemica Barbera e Santoro (come non pochi altri intervenuti posteriormente) vogliono far intendere (con il chiaro intento di screditarci) che noi estensori del documento Dove va la sociologia si sia schierati per valutazioni alla “todos caballeros”: quando in realtà nel nostro documento non si dice mai che ci saremmo attesi una percentuale di “promossi” a livello della media (intorno al 44%) rilevata nelle procedure di valutazione finora esperite in altre discipline. Si dice semplicemente, torniamo ancora una volta al punto cruciale, che percentuali del 19.6% nella prima fascia e del 16.7% nella seconda in termini statistici sono abnormi outliers. Né vale invocare genericamente la particolare base dei dati di partenza, cioè certa debolezza che nella nostra disciplina si è accumulata con qualche decennio di cattive pratiche gruppettare: abbiamo richiamato più volte, nel documento, questa nostra storia infelice. Ciò che però andrebbe giustificato è che la distanza fra la sociologia e le altre discipline sia davvero così enorme (quasi intorno a un terzo!). Chiunque non si sia rinchiuso in un dipartimento di sociologia dovrebbe aver agevolmente constatato che, quanto a povertà intellettuale e a semplificazioni di comodo entro recinti di comodo, molti colleghi di altre discipline umanistiche (e non solo) non scherzano affatto, e che davvero non varrebbe la pena ancorare i nostri ideali di sviluppo disciplinare a confronti generici con corporazioni accademiche meglio assestate che la nostra.
Ugualmente per il confronto Nord-Sud. Nel nostro documento non si dice affatto che la percentuale di promossi del Nord e di promossi del Sud avrebbe dovuto corrispondere alle loro rispettive basi di partenza. Si dice soltanto che la sproporzione è eccessiva. Se davvero la commissione si fosse comportata con equità sulle differenze Nord-Sud, dovremmo concludere in modo molto più drammatico le nostre considerazioni sulla sociologia italiana: non può che essere colpa di tutti, e certamente anche insediata in qualche frame inconscio della nostra cultura e della nostra moralità, se il divide sociologico Nord-Sud fosse davvero così grande.
Abbiamo pochi dubbi, infine, su una delle nostre conclusioni: la commissione non ha ubbidito al suo mandato pubblico. Il mandato pubblico che le è stato affidato è quello di rispondere, per ogni candidato, alla domanda se egli fosse o meno “abilitato”. Interpretare unilateralmente questo mandato in termini concorsuali (vale a dire come selezione dei migliori concorrenti per un numero di posti limitato) significa, semplicemente, sostituire un mandato pubblico reale con un compito ideale che qualcuno arbitrariamente e con arroganza ha assegnato a se stesso, e peraltro, come continuiamo a constatare in questi giorni di polemica, senza neppure una rigorosa indagine dei meriti.
Questo non significa da parte nostra legittimare la macchina abilitativa. Al contrario. Se è vero che in certi climi può funzionare (per esempio, ha funzionato abbastanza bene e a lungo in Italia – con l’eccezione di medicina – nel caso della libera docenza), nelle condizioni odierne questa forma di selezione del ceto accademico va probabilmente incontro a molte critiche: alcuni di noi, va detto, la ritengono una nuova grave iattura. Ma considerazioni di questo tipo non autorizzano nessuno a sostituire regole pubbliche con regole private. È inevitabile, per chi si arroga il diritto di seguire regole private, immettere nelle sue pratiche valutative qualche senso di onnipotenza. Da questo non può venire nessun bene per la nostra disciplina, la quale, come tutte le discipline della conoscenza, ha bisogno anche di una responsabile assunzione di compiti organizzativi e fiduciari collettivi, scevra da puntigli personali.
- Un altro intervento, quello di Emilio Reyneri (Per una seria riflessione sullo stato della sociologia italiana del 18.1.2014) si presta bene a documentare alcune delle affermazioni avanzate nel nostro primo documento. Reyneri manifesta una così tranquilla coscienza di essere nel giusto e nel certo che non si accorge neppure di ciò che gli sfugge dalla penna. Le sue analisi diventano facilmente dimostrazioni di ciò che vuole confutare. I due punti intorno ai quali si articola tutto l’intervento di Reyneri sono: 1) l’esito della VQR e 2) il confronto sistematico tra Sociologia generale e Sociologia economica.
Sul primo, la sua posizione è netta. Si può escludere “almeno sui grandi numeri, ogni vizio di parzialità” (corsivo nostro). Affermazione apodittica, ci pare, che azzera di un colpo tutto il dibattito sulla valutazione nelle scienze sociali, i suoi limiti e le sue criticità[2]. E peraltro, a ben vedere, affermazione contraddetta subito dopo, quando “giustifica” la bassissima percentuale di abilitati in Sociologia generale con il richiamo agli esiti dei precedenti concorsi locali, che l’avevano già “premiata” in termini di posti. Il confronto, francamente improprio, è con il suo ex settore di appartenenza, l’SPS/09 (che aveva acquisito meno posti) quasi che fossero entità paragonabili per dimensione e centralità.. Non diversamente per lo squilibrio Nord-Resto di Italia. “Ma che colpa abbiamo noi” – sembra dire – visto che la VQR aveva già registrato una oggettiva differenza di qualità sociologica tra le due aree del paese? In realtà, nelle stesse tabelle riportate da Reyneri le gerarchie territoriali sono più sfumate di quanto emerge dall’abilitazione[3]. Per esempio, nella VQR Roma Tre e Catanzaro hanno punteggi più elevati di Torino e Milano Statale, e Palermo è alle loro spalle con un distacco veramente contenuto.
Alle ragioni storiche delle differenze Nord-Sud, che pure ci sono, Reyneri accenna rapidamente, anche se con varie imprecisioni, qui comunque poco importanti. Ciò che non fa è interrogarsi sul senso di questi processi e su quali fisionomie veniva via via assumendo di conseguenza l’intera sociologia italiana. Non si venivano perdendo tradizioni culturali e metodologie di lavoro tipiche della sociologia europea? Per fare un solo ma importantissimo esempio: non è che da un generico processo di “modernizzazione” esce impoverito il panorama complessivo della sociologia italiana? Che fine hanno fatto la pratica e il gusto dell’interdisciplinarietà? Dove si è perso il legame con la storia? A quali rinunce di libere analisi e riflessioni ha costretto l’adeguamento al mainstream sociologico internazionale? Sia chiaro che nessuno sottovaluta la ricchezza e le aperture che possono derivare dal processo di internazionalizzazione della nostra disciplina. Ma sostenere – come scrive Reyneri – che arretratezza e provincialismo delle scienze sociali italiane sono dovuti allo scarso numero di pubblicazioni in inglese e alla scarsa presenza di articoli pubblicati in riviste internazionali è di una superficialità sconcertante. Si aggiunga che ad apporre il timbro della “giusta” internazionalizzazione sono nei fatti – secondo le valutazioni espresse nei giudizi abilitativi da uno dei Commissari – pochissime riviste sociologiche di lingua inglese e che la qualità scientifica è garantita solo dalla pubblicazione in un paio o poco più di case editrici (naturalmente di lingua inglese): nessuno si chiede l’effetto omologante che può avere sulla sociologia una simile pratica quasi-monopolistica?[4]
Siamo certi che Reyneri sia ben consapevole di tutto questo. Ma (e qui non è solo), avverte per la nostra disciplina un profondo bisogno di legittimazione che evidentemente non gli può che venire dall’esterno. Un esterno dove tutte le scienze sociali ormai da quasi un secolo – un secolo, caro Emilio – hanno via via smarrito la loro natura unitaria, dividendo ciò che è indivisibile, fino a quelle estreme semplificazioni delle domande di ricerca alle quali si possono “finalmente” applicare le raffinate tecniche delle scienze dure. Se senza o con ovvi risultati, come accade spesso, non ha molta importanza: l’importante è che ci sia comunicazione, trasmissibilità, internazionalizzazione, un linguaggio condiviso – matematica o inglese che siano. Ciò che conta è che si rispettino gli standard internazionali (standard, già, è parola che dice tutto), che un esercito di burocrati del sapere sorvegli gli spiriti irrequieti dell’innovazione, che solo chi ha accesso ai pochi templi della scienza (riviste o collane che siano) può essere legittimamente tra gli eletti.
Quanto al secondo punto, le valutazioni di Reyneri risentono fortemente – come è giusto ed umano che sia – della sua lunga appartenenza alla Sociologia economica, che per ragioni che potremmo definire semantiche se non terminologiche ha avuto maggiori occasioni di confronto con le scienze economiche. Ne ha subito, come molti colleghi di settore, il fascino indiscreto (a dire il vero, l’innamoramento non è stato reciproco): convincendosi evidentemente che metodi di lavoro, paradigmi interpretativi, strumentazione tecnica, concetti e categorie largamente dominanti, e ormai da tempo, nella scienza sociale sorella, si potessero/dovessero applicare anche alla nostra disciplina. E che certe modalità di lavoro scientifico, di valutazione dei suoi prodotti, e persino di usi e pratiche accademiche fossero un buon modello cui fare riferimento. Convinzione del tutto legittima, è ovvio: che però lo porta quasi inevitabilmente – nel suo intervento – a valutare ciò che è accaduto nel settore di Sociologia generale dall’angolo visuale del frequentatore di ricerche e studi di sociologia economica. Con due conseguenze: 1) un misconoscimento della centralità oggettiva della sociologia generale, vista complessivamente come un settore attardato su interessi e metodi di lavoro obsoleti e sostanzialmente fuori dal circuito internazionale[5]; 2) una valutazione degli output (persone e cose) di questo settore messi meccanicamente a confronto con gli output della sociologia economica: con tutte le distorsioni che derivano da logiche di appartenenza e consuetudini di lavoro. Per rovesciare il detto di cui fa uso Reyneri: “è come chiedere all’oste quanto è buono il vino del vicino”.
1. Abbiamo selezionato, nel dibattito che è andato via via crescendo nei giorni successivi alla pubblicazione del nostro documento, solo alcune delle questioni che sono più vicine al nostro testo. Che il dibattito continui. Ma non vorremmo che si disperdesse semplicemente in nuove faticose ingegnerie a riguardo di regole concorsuali, di metodi per organizzare la sociologia italiana, di tecniche di misurazione standard e via dicendo. Noi abbiamo voluto sottolineare specifiche responsabilità. Riteniamo infatti che almeno una parte dei destini di un gruppo disciplinare dipenda da come si comportano i suoi membri, soldati semplici o leaders. Non ci sono alchimie regolamentari. Dovrebbe essere vietato, almeno fra sociologi che si ispirano all’individualismo metodologico, di buttarla sempre in politica, evadendo la questione delle responsabilità personali. Entro uno stesso sistema di regole può essere molto grande la variabilità dei comportamenti, dall’uso opportunistico ed egotista delle stesse regole al loro uso ragionevole e spassionato. Ma una deontologia comune o diffusa, aggiungiamo infine, non può formarsi senza una visione comune o diffusa dei valori ultimi cui occorre mirare. È per questo che in questo documento abbiamo almeno accennato, più che all’urgenza di nuove regole concorsuali, al compito di definire cosa sia una sociologia ben fatta.
Co-firmatari (in ordine alfabetico): Maria Luisa Bianco, Paolo Giovannini, Alberto Marradi, Franco Rositi, Loredana Sciolla, Giovanni Battista Sgritta
[1] Un solo esempio: Luigi Pellizzoni afferma con tranquilla sicurezza che nel nostro documento del 3 gennaio 2014 “… Si parla di nemici, cordate, epurazioni, regolamenti di conti”. Come chiunque può facilmente verificare, non una di queste parole è presente nel nostro documento. La vecchia pratica di gettare fango evidentemente non passa mai di moda.
[2] La dubbia affidabilità e la scarsa trasparenza del processo di valutazione sono peraltro confermate con una certa ingenuità dallo stesso Reyneri il quale, non rendendosi evidentemente conto del gravissimo illecito, svela che il GEV14 ha di fatto manipolato la valutazione accoppiando opportunamente i prodotti (e i loro autori) ai valutatori
[3] Anche la differenza fra atenei grandi e piccoli è molto meno netta nella VQR e un’università piccola e recente come il Piemonte Orientale ha il punteggio di gran lunga più elevato.
[4] Per esempio, questo processo avvia al definitivo tramonto anche un’importante tradizione della sociologia come pensiero critico sulla propria società, che più di comunicare in lingua inglese ha bisogno di diventare voce nel dibattito pubblico.
[5] Detto tra parentesi, perché si tratta di altro problema: non è che le responsabilità di certe derive del settore di Sociologia generale siano anche imputabili all’aureo isolamento e alla deresponsabilizzazione dei colleghi di SPS/09 (per esempio nelle politiche dell’AIS)?
8. Abilitazioni Scientifiche Nazionali. Primo bilancio e proposte di lavoro dell’Associazione Italiana di Sociologia
I risultati della VQR e gli esiti delle abilitazioni nazionali fin qui pubblicati, dai quali la sociologia esce indebolita rispetto agli altri settori scientifico-disciplinari, impongono al Direttivo AIS di anticipare, in attesa del completamento della pubblicazione degli esiti delle abilitazioni in tutti e tre i settori disciplinari di area sociologica, alcune riflessioni. Queste sono sollecitate per altro da numerosi documenti giunti all’AIS e pubblicati nel forum del nostro sito.
La pubblicazione sul sito del Ministero di curriculum e giudizio di ogni candidato ha reso accessibili a tutti gli interessati le valutazioni dei commissari in relazione a curriculum e prodotti della ricerca, secondo i criteri ministeriali e quelli definiti dalle stesse commissioni al momento dell’inizio dei lavori.. Ricordando che il giudizio delle commissioni è nel merito insindacabile, la pubblicità degli atti ha tuttavia reso evidente, al di là di ogni interpretazione di parte, che l’articolazione e la qualità di alcuni giudizi sollevano non solo problemi di forma (indubbiamente dovuti anche al poco tempo a disposizione per valutare un elevatissimo numero di candidati), ma rinviano altresì ad alcuni problemi di sostanza.
Nel momento in cui la prima tornata delle abilitazioni nazionali si è conclusa e in cui sta predisponendosi la seconda tornata con le stesse regole e con gli stessi commissari, spetta a noi, come esponenti della comunità sociologica, non solo il compito di esprimere le più vive congratulazioni a tutti coloro che sono stati abilitati, ma anche quello di riflettere sull’impatto che questi risultati avranno sulla presenza complessiva della sociologia nell’Università italiana, sull’assetto degli organici dei vari Dipartimenti e sulla tenuta della loro offerta formativa. Come Direttivo di una comunità scientifica, ci spetta il compito di accompagnare il dibattito per comprendere cosa ha funzionato e cosa non ha funzionato, con l’obiettivo di individuare strategie ed azioni tese a migliorare le attuali procedure di reclutamento e di valutazione, cercando e creando sinergie con altre associazioni accademiche e disciplinari.
Ripercorrendo i punti della discussione che si è aperta nella comunità scientifica, gli elementi sui quali come AIS intendiamo assumere posizione e lanciare iniziative concrete sono i seguenti:
1. I processi di valutazione. Sul tema della valutazione in ambito universitario molto si è detto e scritto, specialmente a partire dal momento della costituzione dell’ANVUR. Anche in questo caso, alcune cose hanno funzionato, altre no. Gli esiti della VQR per la sociologia sono stati altamente problematici. Poiché ci sembra plausibile ritenere che eccellenza e mediocrità siano casualmente distribuite tra i diversi settori scientifici disciplinari, il fatto che la sociologia ne sia uscita fortemente penalizzata deve interrogarci sulle capacità della nostra comunità di attivare virtuosi processi di valutazione e sulla adeguatezza degli indicatori selezionati nell’intercettare la qualità della produzione scientifica nella nostra area.
Il Direttivo ritiene che la valutazione sia una componente essenziale dei processi che mirano a un miglioramento della qualità delle strutture e della produzione scientifica dei ricercatori, ma ritiene altrettanto importante sottolineare che la qualità delle strutture non sia riducibile alla sola valutazione dei prodotti della ricerca e che la valutazione dei prodotti della ricerca non sia criterio esaustivo per la valutazione dei profili curriculari di chi svolge la propria attività scientifica, didattica e di “terza missione” all’interno dell’Università. In generale, “razionalizzazione”, “competitività”, logica premiale nell’allocazione delle risorse sono state le fuorvianti parole d’ordine che hanno guidato le dinamiche di riforma del sistema universitario, la cui ri-configurazione è stata spesso affidata a meccanismi troppo semplici, lineari (sulla carta) e poco adatti a gestire tanto la varietà delle discipline scientifiche quanto le nuove complessità dei compiti che l’Università è chiamata a svolgere nel Paese e nel più ampio scenario europeo e internazionale.
Facendo dunque tesoro dell’esperienza maturata in relazione ai lavori dell’ANVUR e dei referee espressione delle comunità scientifiche di appartenenza, l’AIS intende promuovere gruppi di lavoro e di confronto, aperti a quanti pensano di poter dare un contributo costruttivo sui molteplici aspetti e sulle diverse finalità della valutazione. L’obiettivo è che la nostra comunità scientifica esprima una sua chiara e condivisa posizione sulla valutazione e le sue procedure di attuazione, che si traduca in proposte concrete di revisione anche culturale del quadro complessivo, all’interno del quale essa si è sin qui svolta, restituendo all’Università una dimensione istituzionale più coerente con la complessità delle missioni cui essa è chiamata e delle conoscenze che al suo interno si elaborano e si rendono disponibili.
2. L’abilitazione nazionale.Non intendiamo qui ricostruire, ovviamente, il percorso politico che ha portato all’abolizione delle idoneità svolte a livello locale e all’introduzione delle liste nazionali di abilitati: percorso nato con l’obiettivo positivo di introdurre, nei processi di reclutamento, criteri trasparenti e chiaramente confrontabili di valutazione, per correggere errori e storture dovute ai precedenti meccanismi. Come Direttivo dobbiamo però evidenziare come i primi risultati delle abilitazioni e i primi commenti, provenienti da numerosi esponenti dell’area sociologica, ma non solo da questa, mostrino che molte cose non hanno funzionato. Il problema non è solo dato dalla qualità dei giudizi formulati sui singoli candidati, ma dal più ampio quadro di riferimento normativo al cui interno le commissioni hanno operato. La qualità stessa dei giudizi, nel bene e nel male, è una conseguenza diretta del meccanismo delle abilitazioni per come è stato costruito, che ha penalizzato non solo i candidati, ma gli stessi commissari.
Costituiscono elementi critici a riguardo:
a) l’accorpamento dei settori disciplinari, tale in molti casi da mettere i commissari nella condizione di valutare prodotti in ambiti non di propria specifica competenza;
b) la non commisurazione del numero dei commissari a quello dei candidati e il mancato collegamento della loro nomina per sorteggio con qualche forma procedurale di responsabilizzazione delle comunità disciplinari di riferimento;
c) l’anomalo requisito di maggioranza (4/5), a cui si è affidata la determinazione dei singoli risultati;
d) l’attribuzione a un’unica commissione della responsabilità di valutare i candidati all’abilitazione sia per la prima che per la seconda fascia e di espletare due tornate consecutive, con l’effetto di caricare pochi commissari di un onere, un potere e una responsabilità gravosissimi;
e) il divieto per i non abilitati di partecipare alla tornata immediatamente successiva;
f) il carattere non obbligatorio, per le commissioni, della specificazione, in relazione agli specifici ambiti scientifico-disciplinari, dei criteri richiamati nel bando per la valutazione dei titoli utili all’abilitazione (ivi compreso quello della internazionalizzazione, la cui interpretazione era già apparsa un punto critico nella determinazione degli esiti della VQR);
g) la formulazione non adeguatamente stringente, all’interno del quadro normativo complessivo, dei criteri rilevanti e delle forme procedurali conseguenti, che consentano di distinguere con chiarezza tra abilitazioni e valutazioni comparative e tra abilitazione scientifica nazionale e concorso per la chiamata nei ruoli;
In relazione a tutto ciò, l’AIS, si impegna a richiedere una revisione del meccanismo dell’Abilitazione nazionale, concordata con le altre comunità scientifiche, con il CUN e con le Conferenze Dipartimentali. In particolare, l’AIS intende proporre, come base di partenza sulla quale costruire proposte condivise, di:
– elevare il numero dei commissari;
– nominare commissioni distinte per prima e seconda fascia e per ogni tornata;
– consentire ai candidati non abilitati di partecipare, se ne valutano l’opportunità, anche alla tornata immediatamente successiva;
– individuare nuovi meccanismi per la formazione delle commissioni, attribuendo alle comunità disciplinari la possibilità di definire l’universo dei commissari sorteggiabili, tra quanti superano il filtro delle mediane;
– esonerare i commissari impegnati nei lavori concorsuali dall’obbligo didattico;
– vincolare le commissioni alla specificazione in termini scientifico-disciplinari dei contenuti dei criteri richiamati nel bando;
– richiedere alle commissioni, nella formulazione dei giudizi, di contestualizzare la valutazione della produzione scientifica dei candidati entro il quadro complessivo delle attività proprie della carriera accademica (ricerca, didattica e “terza missione”).
3. Impatto degli esiti dell’Abilitazione nazionale sugli organici dei Dipartimenti. Come da molti è stato sottolineato, due sono i punti maggiormente critici negli esiti finora pubblicati nell’area sociologica: il basso numero degli abilitati e la loro concentrazione in alcune aree territoriali e sedi. Questo significa che in prospettiva il turnover sarà difficilmente garantito e che in alcune sedi (specialmente del Centro-Sud, ma non solo) la tenuta dell’offerta formativa in ambito sociologico sarà seriamente compromessa. Tali esiti esasperano (specie per il raggruppamento disciplinare della Sociologia generale, politica e giuridica), le differenze territoriali emerse dai dati prodotti dalle procedure relative alla VQR, peraltro già ampiamente messi in questione in innumerevoli sedi e comunque non utilizzabili fuori dal loro contesto. A chi non vede in questi risultati una sconfitta per tutta la comunità sociologica, facciamo notare che essi avranno come ricaduta il ridimensionamento complessivo della presenza della sociologia negli Atenei italiani, i quali faranno le loro scelte in termini di attribuzione delle risorse anche sulla base di tali risultati.
Come sociologi dobbiamo fare i conti con lo scenario che i primi risultati delle abilitazioni ci prospettano e come AIS chiediamo alla costituita Conferenza Dipartimentale dell’area sociologica di elaborare strategie comuni per affrontare le problematiche che ne derivano nell’ambito dell’offerta formativa di ciascun Ateneo. Dal canto nostro ci impegniamo a portare all’attenzione pubblica le conseguenze che l’impoverimento del contributo dell’analisi sociologica potrà avere sulla sfera pubblica e sulla cultura italiana.
L’AIS è consapevole delle proprie responsabilità in quanto unica associazione accademica dell’area sociologica e di soggetto interlocutore di CUN e ANVUR, a loro volta interlocutori istituzionali del MIUR su questi temi. Forte di questa responsabilità, il Direttivo ha ritenuto opportuno verificare le condizioni per promuovere azioni congiunte con altri soggetti: a tal fine ha aderito ad un tavolo di lavoro promosso dal CUN-Area 14, per formulare proposte di correttivi e miglioramenti degli attuali meccanismi di valutazione, da sottoporre al Ministero.
Nello spirito delle nostre lettere precedenti, vorremmo tuttavia aggiungere due considerazioni ulteriori.
La prima riguarda un problema specifico della sociologia, emerso in molti interventi in questi giorni pubblicati, che essa tuttavia condivide con altri settori scientifico disciplinari di area 14 e non solo. Tale problema risiede nella varietà degli approcci teorici e metodologici che la contraddistingue. Come Direttivo, riteniamo vitale che le nostre pratiche di confronto e di valutazione reciproca, ad ogni livello, siano capaci di rispettare tale varietà e, se possibile, di valorizzarla. Il problema non è di facile soluzione per nessuno (anche se, in ciascuno, senso di responsabilità e consapevolezza dei propri inevitabili limiti possono aiutare): a parità di rigore teorico, argomentativo e metodologico, i nostri lavori rispondono a logiche non sempre confrontabili; ma nel dialogo fra queste logiche sta una parte importante del nostro patrimonio. Così come è parte del nostro patrimonio la capacità di guardare a temi e a oggetti diversi, legati alle problematiche sociali, alle relazioni fra territori, ai confronti interdisciplinari che di volta in volta emergono e che richiedono attenzioni e valorizzazioni adeguate. Ciò su cui vorremmo che tutti si potesse convenire è la necessità di promuovere una visione della sociologia non angusta, capace di dialogare efficacemente, con altre discipline e con la società nel suo insieme, e abile tanto nel proporre risultati di ricerche accurate quanto nel criticare visioni del sociale parziali o ideologiche.
La seconda prende le mosse dalla lettera dei Soci aggregati, che apparve sul nostro sito immediatamente a ridosso dell’insediamento di questo Direttivo. Le preoccupazioni sollevate da quei Soci, al momento, paiono confermate. Quello che si configura è uno scenario che rende più difficili che mai le procedure di reclutamento per valutazione comparativa che gli Atenei – quelli che avranno risorse – potranno avviare. Che i fondi per il reclutamento siano miseri è un fatto, ma che sia esiguo il numero dei giovani meritevoli ci permettiamo di considerarlo, almeno sulla base della nostra esperienza, più dubbio. Da parte nostra, ci auguriamo che i giovani non ancora “strutturati” non traggano da questa situazione elementi di demotivazione: li esortiamo a continuare a produrre e a far circolare nazionalmente e internazionalmente i loro lavori, consapevoli come siamo che l’innovazione della sociologia dipende largamente da loro. Come AIS ci impegniamo a sostenere la loro attività di studiosi/e con iniziative concrete che responsabilizzino la comunitità disciplinare ad assumere un ruolo attivo nella costruzione del proprio futuro e, per quanto sta nelle nostre possibilità, ad adoperarci a livello nazionale per una riorganizzazione e un potenziamento dei processi attuali di reclutamento che l’Università, se vuole vivere, deve consentire.
7. Lettera di protesta inviata al Ministro Carrozza da un gruppo di candidati all’Abilitazione Scientifica Nazionale nel settore concorsuale 11/A4
22 gennaio 2014
Alla Onorevole Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Scientifica
Agli Onorevoli Senatori e Deputati
Alle OO. SS. di categoria: FLC CGIL, Cisl Università, Uil Università, SNALS, FGU GILDA UNAMS, CISAL, CONFSAL.
e p.c.: ai principali organi di informazione nazionale.
Onorevole Ministro, Onorevoli Senatori e Deputati,
noi sottoscritti candidati all’Abilitazione Scientifica Nazionale nel settore concorsuale 11/A4, Scienze del libro e del documento – comprendente Archivistica, Bibliografia e Biblioteconomia (M-STO/08) e Paleografia (M-STO/09) -, che ha accorpato in itinere le discipline delle Scienze storico-religiose, cioè Storia delle religioni (M-STO/06) e Storia del cristianesimo e delle Chiese (M-STO/07), intendiamo con la presente protestare contro l’operato della commissione composta da quattro docenti di Storia del libro e dell’editoria e di Bibliografia e biblioteconomia, Storia del libro manoscritto, Paleografia e Paleografia latina, nonché da un commissario di istituzione straniera, docente di Storia delle religioni.
I risultati del concorso, eseguito con le nuove modalità stabilite dalla riforma del reclutamento universitario, sono stati proclamati il 28/11/2013 e pubblicati nel sito Internet ministeriale il 3/12/2013. Come gran parte dei nostri colleghi, noi avevamo riposto molte speranze in questa innovazione, anche perché, trattandosi di un esame di idoneità, il successo di un candidato non sarebbe stato in alcun modo preclusivo per gli altri. Oltretutto ritenevamo che la maggiore trasparenza telematica, caratterizzazione positiva di questa iniziativa ministeriale, avrebbe dissuaso dal ripetere quegli abusi di potere che hanno frequentemente oscurato nel passato l’equa ricerca di abilità, competenze e professionalità nel mondo universitario, inducendoci frequentemente a disertare tali concorsi pilotati.
Purtroppo così non è avvenuto nel nostro settore concorsuale, almeno a giudicare da quanto denunciato dall’interrogazione parlamentare del senatore Paolo Corsini (Legislatura 17, Atto di Sindacato Ispettivo, n. 4-01454, pubblicato l’ 8 gennaio 2014, nella seduta n. 162), sia per l’esasperato spirito selettivo più confacente ad un concorso a cattedre, che per constatazioni che sembrano configurare vere e proprie violazioni della legalità.
La gravità di fatti, che si commentano da soli, è stata portata alla ribalta grazie all’intervento del sopracitato senatore, docente universitario di Storia moderna, laddove esplicitamente afferma:
- “…nel verbale n. 1 del 7 marzo 2013 la commissione, dopo aver elencato i criteri ministeriali per la valutazione dei candidati (siglati a, b, c, eccetera), li ha integrati con criteri propri (siglati A, B, C, eccetera), a volte apertamente in contrasto con quelli ministeriali. Questi criteri sono stati prima enunciati in maniera perentoria e immediatamente dopo smentiti qualora la commissione avesse ritenuto di non doverli seguire. Per esempio, in un impeto di severità la commissione decide di ‘fissare, come prerequisito aggiuntivo per il conseguimento dell’abilitazione, la produzione nei 10 anni anteriori alla scadenza del bando, di almeno una monografia, edizione critica o edizione di fonti oppure di una raccolta consistente ed internamente coerente di saggi’ (p. 8), incredibilmente smentendo se stessa nel paragrafo successivo, perché la commissione ‘si riserva comunque di prendere in considerazione (…) anche Candidati che non posseggano questo prerequisito’. Si veda l’arbitrio espresso nella conclusione del verbale (primo paragrafo di pagina 9): ‘la commissione ritiene che il Candidato, oltre a soddisfare il parametro A), debba possedere almeno tre degli elementi di valutazione (B-M) sopra elencati’. Vengono quindi considerati solo i ‘criteri’ elencati in lettera maiuscola, cioè quelli che ha definito la commissione, e non quelli in minuscola, che sono quelli fissati dal decreto ministeriale per la valutazione. E dopo segue un paragrafo nel quale si dice che la commissione si riserva comunque la libertà di abilitare anche chi non soddisfi questi criteri…” Esempio emblematico dell’eterodossia, perseguita talvolta dalla commissione, si avrebbe nell’accoglienza, come monografia, di un volume semplicemente curato nel 1994 da una candidata per la I fascia che nel suo curriculum complessivo non ha mai prodotto una monografia e nonostante ciò è stata regolarmente abilitata dalla commissione. Inoltre è ovviamente non regolare che la commissione abbia accettato per diversi candidati – poi abilitati – l’inclusione tra le pubblicazioni valutabili, allegate in pdf, monografie precedenti il limite dei dieci anni previsto dal bando.
- “…la commissione nel verbale del 7 marzo, dopo avere elencato i criteri aggiuntivi, afferma che ‘il soddisfacimento dei suddetti requisiti indica che l’abilitazione è possibile, non che ne consegua automaticamente, essendo essa il prodotto del giudizio di merito formulato dalla commissione’, mentre proprio i giudizi di merito sono carenti da ogni punto di vista di analisi dettagliata e completa dei titoli…”
- “…si è verificato il caso di candidati in possesso di una sola mediana su 3 e senza monografie negli ultimi 10 anni che sono stati abilitati d’ufficio dalla commissione … o comunque senza monografie negli ultimi 10 anni…, in un caso con zero mediane su 3 si è concessa l’abilitazione…;…si è verificato il caso di candidati che, pur in possesso di una sola mediana su 3 sono stati abilitati d’ufficio dalla commissione…. Il caso della candidata … è esemplare poiché tutta la produzione scientifica della candidata corrisponde esattamente alle 12 pubblicazioni presentate, produzione scientifica che la commissione definisce ‘non abbondante’, mentre tra i titoli aggiuntivi definiti come ‘non molti titoli valutabili’ si ricorre ad una generica ‘esperienze di didattica universitaria’, in realtà relativa ad alcuni giorni di docenza pari a non più di 5, che le vale comunque l’ottenimento dell’abilitazione di II fascia;…in altri casi sono state incredibilmente considerate oggetto di specifica valutazione, tra le 12 pubblicazioni previste per la II fascia, monografie pubblicate in anni precedenti il limite di anni 10 e inserite per la valutazione dai candidati..;…candidati con 3 mediane su 3 e con tutti requisiti aggiuntivi necessari e con giudizi ampiamente positivi sulle pubblicazioni sono stati esclusi adducendo il motivo di essere ‘estraneo ai ruoli dell’Università’… o ancora …con 2 mediane su 3 con giudizi positivi sulla produzione scientifica ma “estraneo ai ruoli dell’Università”…”
- “…i criteri aggiuntivi stabiliti dalla commissione appaiono addirittura aver preso il sopravvento nei giudizi finali sulle mediane facendoli diventare di fatto decisivi lasciando campo libero all’arbitrio da parte dei commissari che contraddittoriamente li applicano in alcuni casi e non li usano in altri;…tali criteri aggiuntivi sono stati in alcuni casi ritenuti indispensabili per ottenere l’abilitazione e in caso di mancanza degli stessi l’abilitazione non è stata concessa, in altri casi la commissione ha palesemente sbagliato non conteggiandoli a taluni candidati e quindi non abilitandoli, in altri casi la commissione ha concesso l’abilitazione anche in palese assenza del possesso di questi elementi aggiuntivi … o della loro mancata dichiarazione …”
- “…il criterio della presunta mancata internazionalizzazione è stato usato per negare l’abilitazione a molti candidati meritevoli, mentre per altri che sono stati abilitati le relazioni dei commissari tacciono totalmente o ritengono internazionalizzazione la generica partecipazione ad alcuni convegni tenuti all’estero o ritengono l’assenza di internazionalizzazione irrilevante ai fini dell’abilitazione concessa…”
- “…indicativo di quanto siano contraddittori i giudizi della commissione è quanto espresso nei confronti del candidato…che presenta a giudizio solo 11 testi sui 12 previsti, avendo un curriculum totale di solo 15 pubblicazioni e raggiungendo solo una mediana su 3, ma risultando comunque abilitato…;…a fronte di abilitazioni ottenute con poche pubblicazioni e con curriculum ridotti corrispondono esclusioni non motivate nei giudizi come quelle di studiosi di provata esperienza e con curriculum solidi e di riconosciuta competenza e lunga attività didattica anche in istituzioni straniere …e altri ancora cui l’abilitazione è stata negata, o giovani studiosi di valore …non certo inferiori ai tanti abilitati con curriculum poveri e forzati…”
- Il senatore Corsini evidenzia poi i tempi di valutazione discutibili e improbabili, incapaci di giustificare in alcun modo una valutazione seria dei titoli dei candidati, come dimostra con dovizia di dettagli, affermando che “appare evidente quanto siano non credibili i tempi utilizzati dalla commissione per analizzare i curricula o stendere i giudizi su 111 candidati di I fascia e su 323 candidati di II fascia. Infatti il giorno 8 aprile 2013 la commissione (verbale n. 3), oltre a vari altri adempimenti, ‘procede ad un’attenta valutazione dei curricula dei candidati’ di I fascia in un tempo compreso al massimo nelle 3 ore che dura la seduta (dalle ore 10,30 alle ore 13,30). Anche volendo attribuire tutto il tempo disponibile (nel verbale la commissione procede anche per ogni candidato ‘alla verifica degli indicatori calcolati dal CINECA’) per 111 candidati di I fascia l’attenta valutazione dei curricula e la verifica degli indicatori è avvenuta in 180 minuti cioè circa un minuto e mezzo a candidato, dato, questo, inverosimile;…il giorno 29 aprile 2013 la commissione (verbale n. 4) dalle ore 10,30 alle ore 13,30 procede ‘alla lettura e al confronto dei giudizi individuali redatti per i candidati all’abilitazione a professore universitario di I fascia (…) e procede alla stesura dei giudizi collegiali’ esamina anche 18 pareri pro veritate. Tutto questo è compiuto in 180 minuti, cioè per ogni giudizio collegiale la commissione dichiara di avere impiegato un minuto e mezzo…passa poi all’individuazione dei candidati che si collocano chiaramente al di sotto della soglia minima dei criteri e dei parametri definiti dalla commissione e che risultano all’unanimità non valutabili positivamente ai fini del giudizio di abilitazione, e la commissione compie tutto questo lavoro sui curricula di 323 candidati in 210 minuti pari a 39 secondi a candidato;…considerato che in questi 3 verbali si attesta che la commissione ha fatto una verifica formale dei 111 giudizi di professore di I fascia e che per ognuno dei 323 candidati di II fascia sono stati letti 5 giudizi individuali, uno per ogni commissario, in più è stato scritto un giudizio collegiale per ogni candidato, si è trattato quindi di leggere 111 giudizi collegiali, discutere in modo “ampio e approfondito”, come dichiara la commissione, 1615 giudizi individuali e scrivere 323 giudizi collettivi utilizzando complessivamente poco meno di 14 ore pari a circa 27 secondi per ogni giudizio da leggere o da scrivere”.
- “…il giorno 30 maggio 2013 la commissione (verbale n. 6) polemizza sulla indicazione pervenuta dal Ministero (nota direttoriale n. 12477 del 27 maggio 2013) che indicava alle commissioni come occorresse ‘una valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche presentate da ciascun candidato’, indicazione che la commissione rifiuta dal momento che afferma di ritenere che essa sia ‘concettualmente estranea agli obiettivi dell’abilitazione nazionale’; incredibilmente solo nella riunione del 13 novembre 2013 (verbale n. 10), durata dalle ore 10,30 alle ore 15,30, a lavori quasi conclusi la commissione prende atto di quanto vanamente il Ministero aveva comunicato il 27 maggio 2013 e ribadito nella nota del 9 luglio 2013 circa l’obbligo di inserire nei giudizi collegiali la sintetica descrizione del contributo individuale del candidato alle attività di ricerca svolte e la valutazione analitica di titoli e pubblicazioni scientifiche. La commissione, quindi, preso atto di quanto il Ministero chiedeva, riformula i 111 giudizi di abilitazione a professore di I fascia, pur mantenendo in essere contemporaneamente i giudizi a suo tempo formulati, e compie questo lavoro di analisi dei titoli scientifici di ciascun candidato in appena 5 ore pari a 2 minuti e 42 secondi a giudizio…”
- “nonostante questi interventi correttivi i giudizi dei singoli commissari si segnalano per estrema concisione (2 o 3 righe per complessivi 200-300 caratteri, spazi compresi) e genericità, per ripetitività di modelli-tipo (un’interessante prova si può rinvenire nei giudizi del commissario” di Paleografia Latina “dove si evince un unico calco dal quale derivano centinaia di giudizi in cui muta soltanto qualche aggettivo) e per la totale assenza di motivazioni e soprattutto per l’assenza di valutazioni sulle singole pubblicazioni, mentre i giudizi finali appaiono rabberciati, ispirati ad alcuni modelli-tipo e complessivamente non motivati e non supportati da un’analisi puntuale delle pubblicazioni presentate dai candidati; infatti negli stessi giudizi le singole pubblicazioni presentate sono solo sporadicamente citate, quasi sempre in modo solamente e banalmente ripetitivo dei semplici titoli, mentre sulla quasi totalità delle pubblicazioni la commissione non scrive nulla e quindi non si esprime lasciando intendere che delle pubblicazioni la commissione ha letto al massimo titolo e luogo di pubblicazione ignorando quindi il reale contenuto degli scritti presentati dai candidati. Gli stessi altri titoli previsti nei criteri aggiuntivi sono spesso dimenticati nei giudizi finali, tanto dimenticati che candidati che li possiedono non li vedono né citati né riconosciuti dalla commissione.”
Quanto dianzi sostenuto dal senatore Corsini è confermato da tre significativi incidenti di percorso in cui è incappata la commissione: viene definito ‘collaboratore’ di un candidato uno studioso defunto il 3 marzo 1900, certo Bartolommeo Capasso, le cui opere, in seguito a una iniziativa promossa dal Ministero per i Beni Culturali e le Attività Culturali, sono state oggetto di una riedizione critica da parte del candidato stesso; viene attribuita a un candidato una monografia sulla peste che non esiste, probabilmente con errato riferimento a due opere su colera e tubercolosi in Puglia, realizzate con taglio bibliografico-archivistico e bibliografico-letterario; per i titoli di una candidata non si fa cenno agli anni di insegnamento universitario, come titolare a contratto, del corso di Codicologia all’Università degli Studi di Torino, nel 2003/04 , e del corso di Paleografia presso l’Università degli studi di Ferrara, dal 2004 al 2011, nel cui anno ha ricevuto anche l’incarico del corso di Codicologia per la Laurea specialistica.
In conclusione il senatore Corsini, tirando le somme delle sopracitate argomentazioni, rivolge al Ministro, fra le altre, le seguenti istanze, che facciamo senz’altro nostre allo scopo di veder tutelati i nostri diritti ad una seria, competente e motivata valutazione che tenga realmente conto dell’effettività dei diversi curricula e che sia adeguatamente rispettosa, in primis, della personalità dei singoli studiosi e della loro produzione scientifica:
“si chiede di sapere
- se il Ministro in indirizzo intenda intervenire con urgenza per verificare quanto evidenziato e procedere all’annullamento dei risultati del settore concorsuale 11/A4 per le ragioni sopra addotte;
- se intenda aprire un’inchiesta sul censurabile comportamento dei commissari riguardo ai verbali e a loro contenuto, al rifiuto da parte dei commissari di leggere e giudicare le pubblicazioni, alla stesura di giudizi non motivati e arbitrari e a verbali che non possono corrispondere nei tempi dichiarati alla realtà che viene descritta; se intenda tutelare lo stesso Ministero dalle dichiarazioni dei commissari rispetto ai tempi di compilazione dei giudizi e se nella loro formulazione e nell’andamento dei lavori della commissione non si evidenzino fatti suscettibili di rilevanza anche penale;
- se intenda verificare le incongruenze nei giudizi espressi dalla commissione che ha abilitato candidati privi di mediane o privi di titoli aggiuntivi, anche in relazione alla presunta internazionalizzazione, e ha negato l’abilitazione a candidati in possesso di detti titoli”.
In aggiunta a quanto sopra esposto, noi sottoscrittori sottolineiamo la perplessità, verbalizzata dagli stessi commissari l’8 aprile 2013 (verbale n. 3), nel momento in cui sono stati chiamati a dividere le domande dei candidati nei diversi settori disciplinari di afferenza, in quanto ciò avrebbe comportato un differente calcolo delle mediane, cioè dei prerequisiti, introdotti dal bando come condizione necessaria ma non sufficiente per l’idoneità. Pur volendo sorvolare sulla grave constatazione che tale necessità, preclusiva della stessa iscrizione per molti potenziali candidati non in regola, sia stata poi in corso d’opera annullata dallo stesso Ministero, si evince dalle suddette difficoltà un altro vulnus che ha fortemente condizionato i risultati di questo settore concorsuale: cioè non era previsto che all’atto dell’iscrizione il candidato dichiarasse per quale settore disciplinare volesse partecipare, cosicché qualcuno – confidando in un’omogeneizzazione ministeriale o regolamentazione delle mediane di questo nuovo settore – ha interpretato tale omissione come una valorizzazione dell’interdisciplinarità o pluridisciplinarità del settore, considerato che le opere di paleografia, frequentemente attinenti direttamente o indirettamente ad argomenti o fonti di storia ecclesiastica, si basano su una preliminare e sistematica ricerca bibliografica e archivistica, che ne illumina poi il percorso. Così è avvenuto che quegli stessi candidati abbiano presentato opere complete dei vari settori disciplinari, in formato PDF, salvo poi amaramente accorgersi di essere stati inglobati ex post in un circoscritto ambito disciplinare, dove le loro pubblicazioni sarebbero state solo in parte considerate attinenti alla disciplina alla quale erano stati successivamente abbinati.
Come tutti i cultori delle fonti paleografiche sanno, l’interdisciplinarità è infatti una imprescindibile prerogativa del pluriennale lavoro occorrente per una normale pubblicazione di codici o carte, con articolata introduzione, adeguato corredo di note critiche e storiche, 5 categorie di indici analitici provvisti dei relativi rinvii, cioè notai, scrittori e sottoscrittori, toponimi, antroponimi, enti laici ed ecclesiastici, cose notevoli con eventuale glossario. Dal cui elenco si comprende immediatamente non solo come la paleografia interagisca con un Medioevo profondamente impregnato di valori religiosi, ma altresì come un vero paleografo non possa prescindere da un’adeguata conoscenza di toponomastica e antroponimia, sia per arricchire le note storiche ma soprattutto per ridurre l’alta potenzialità di errori che si annida nella trascrizione dei più svariati e inusitati nomi di luogo o di persona: ma tali competenze, applicate all’edizione di fonti e alla paleografia o interagenti con essa, sono state considerate – in taluni giudizi probabilmente distratti e fugaci della commissione – studi propri della linguistica, senza individuarne il valore altamente interdisciplinare. D’altra parte la declaratoria concorsuale, riferita a paleografia e diplomatica, testualmente recita: “le competenze…si applicano alle testimonianze grafiche del mondo classico, greco e latino, e medievale con particolare riferimento agli ambiti filologici e storici e all’esegesi storico giuridica dei documenti”.
Questi giudizi, che penalizzano i candidati per la mancata congruenza col settore concorsuale o per la presunta afferenza ad altri settori, sono stati emessi – frequentemente all’unanimità – da una commissione formata altresì da un membro – l’esperto di paleografia latina – che aveva presentato nella sua domanda per la candidatura commissariale, perequata dal bando alla docenza di I fascia, pubblicazioni per nulla attinenti al settore concorsuale 11/A4. Si veda ad esempio il saggio, Il filo di Arianna. Adriano Giannotti nel labirinto della malattia mentale, AA.VV., Udire con gli occhi, Viterbo, Sette Città, 2010, la cui opera viene altresì presentata come curatela dello stesso commissario, o le monografie degli ultimi 10 anni: Futuro anteriore. Cronache di un’età alessandrina. Roma, Onyx, 2009; Il segreto del Gattopardo. Il delitto Paternò: storia d’amore, mafia e politica, N. Progr. 968, 2007; La Felicità lontana, Roma, Lepisma, 2007; Il pane degli angeli. Storia, cinema, psicoanalisi in cerca di una saggezza possibile, Roma, Aracne, 2005; Cogitatio mentis. L’eredità di Boezio nell’alto medioevo, Napoli , D’Auria M., 2003; Francis Drake. La pirateria inglese nell’età di Elisabetta, Roma, Salerno 2002.
Contraddittorio è stato poi il comportamento della commissione in ordine ai candidati di cristianistica, per la quale i commissari erano quasi totalmente incompetenti e nonostante ciò – come scrive il senatore Corsini: – “candidati i cui curriculum sembravano a parere della commissione riferibili a SSD M-STO/07 hanno ricevuto un trattamento palesemente differenziato: infatti, numerosi non sono stati sottoposti a parere pro veritate e sono stati abilitati direttamente dalla commissione […], mentre numerosi altri non sono stati sottoposti a parere pro veritate e non sono stati abilitati dalla commissione”. La palese incompetenza sulla cristianistica da parte della commissione è apparsa più evidente con l’analisi delle pubblicazioni dei candidati, che sarebbero state citate in modo approssimativo attraverso la sola lettura dei titoli, dai quali la commissione ha evinto la congruenza o l’incongruenza con l’ambito concorsuale, incorrendo in errori e dimostrando di ignorare diffusione e scientificità di collane e case editrici. D’altra parte la commissione ha sostanzialmente assunto il parere pro veritate, come unico elemento di giudizio per 18 candidati di ambito storico-cristiano, e tale parere, sempre generico e breve, quasi mai analizza i contenuti delle pubblicazioni. Così di fatto i candidati sottoposti al parere pro veritate sono stati giudicati pressoché esclusivamente dal consulente incaricato dalla commissione. D’altra parte la stessa composizione della commissione alla ASN-11/A4, il cui giudizio per legge dipende dall’approvazione dei 4/5 dei componenti della medesima, ha determinato infine una più forte sperequazione a carico dei candidati in studi storico-religiosi, in quanto la commissione in oggetto è composta per i suoi 4/5 da studiosi di Scienze del libro e del documento. Nella migliore delle ipotesi quindi i candidati di studi storico-religiosi sono stati giudicati idonei o meno da commissari non ‘esperti’.
E’ oltretutto inaccettabile la totale assenza nella commissione di docenti di Archivistica, con la conseguente inadeguatezza di giudizio sulla qualità delle pubblicazioni e delle esperienze scientifiche dei candidati in materia.
Tutto questo senza considerare la ripetitività nella formulazione dei giudizi, soprattutto da parte del suddetto esperto di Paleografia Latina – come evidenziato dal senatore Corsini – , che non solo sembrerebbero ripetere un ricorrente stereotipo, ma, nel caso del commissario straniero, sono formulati in molti casi in lingua spagnola da un docente che dovrebbe avere una padronanza dell’italiano tanto valida da saper cogliere le sfumature e le sottigliezze del linguaggio accademico e invece nel suo curriculum vitae è esplicitamente scritto, sotto la dicitura “Conoscenza lingue straniere”: “inglese, francese”! Il giudizio collegiale sintetico, diffusamente adottato dalla commissione, è poi comunque contrario alle disposizioni previste dal bando di concorso (art. 8, c. 4 del DPR 222/11) che prevedevano un giudizio analitico sulle pubblicazioni e sui titoli presentati. Sembra altresì che sia stato applicato un metro valutativo a geometria variabile, ad esempio nella considerazione o valutazione diversa riservata alla cosiddetta ‘monotematicità’, giudicata in alcuni casi come attestazione di scarsa maturità, ottica localistica, mancanza di ampio o elevato respiro,. in altri come prova di coerenza, concretezza e di adeguato approfondimento e, dunque, come nota di merito.
Ma la disparità di giudizio sarebbe rilevabile anche nell’uso arbitrario delle mediane, per cui in alcuni casi risultano prevalenti fino ad essere determinanti, mentre in altri sono quasi completamente ignorate, in un contesto valutativo in cui, non essendo stato dichiarato il valore conferito alle stesse, il ricorso ‘discrezionale’ al loro peso ha potuto dare adito ad arbitrii o errori, più o meno volontari.
Per le suddette ragioni, condividendo la meritoria iniziativa del senatore Paolo Corsini, i sottoscrittori si chiedono se i lavori di una commissione che sembrerebbe incappata in svariate disparità di giudizio, contraddizioni e difficoltà valutative, evidenziabili nelle stesse verbalizzazioni, non debbano essere ripetuti o quanto meno attentamente revisionati da altri esperti incaricati dal Ministero, con un’iniziativa politico-amministrativa che eviti incresciosi e dispendiosi ricorsi agli organi giudiziari per inadempienze attribuibili agli stessi commissari.
I sottoscrittori fanno pertanto istanza affinché si proceda a revocare la commissione indicata e ad incaricare una nuova commissione di rivederne i giudizi, fermo restando quanto altre autorità dovranno valutare, nelle dichiarazioni presentate, circa la violazione della normativa vigente, e in particolare dell’art. 76 del DPR n. 445 del 28 dicembre 2000.
Firme (ordine alfabetico)
Ettore Baldetti (ordinario di Storia – Liceo Scientifico Statale, Senigallia); Nicola Barbuti (ricercatore confermato in M-STO/08 – Dipartimento di Scienze dell’Antichità e del Tardo antico – Università degli Studi, Bari); Elena Lea Bartolini (docente di Giudaismo presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (ISSR-MI) e docente invitata presso l’Università degli Studi, Milano-Bicocca); Ernesto Borghi (ordinario di Esegesi e filologia del Nuovo Testamento, Facoltà teologica dell’Italia Meridionale/ISSR, Nola); Gaetano Calabrese (associato di Archivistica – Università degli Studi, Catania; direttore dell’Archivio storico dell’ateneo catanese); Martina Cameli (borsista, Istituto storico italiano per il Medio Evo, Roma); Tessa Canella (ricercatrice settore M-STO/07, Università La Sapienza, Roma ); Anna Carfora (incaricata di Storia della Chiesa- Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Napoli); Antonio Caroccia; Maria Cassella; Federica Dallasta (insegnante di materie letterarie e latino – Liceo delle scienze umane, Parma); Concetta Damiani (archivista, Napoli); Carlo Dell’Osso (docente di Letteratura cristiana antica e Storia del cristianesimo – Pontificio Istituto di Archeologia cristiana, Roma); Laura Demofonti; Ferruccio Diozzi; Maria Teresa Dolso (ricercatrice – Università degli Studi, Padova); Massimo Gatta (bibliotecario – Università degli Studi del Molise, Termoli); Maurizio Gentilini (Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma); Michele Pietro Ghezzo (h. research assistant – University of Western Australia, Perth); Giovanni Ibba (contrattista – Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, Firenze); Lorenzo Infante (associato di Storia del Cristianesimo e delle Chiese – Università degli studi, Foggia); Ubaldo Lugli (contrattista di Religioni del mondo classico – Università degli Studi, Genova); Paola Marone (docente -Istituto Faraday ; cultore della materia – Università La Sapienza, Roma); Francesca Medioli (lecturer grade B – University, Reading); Andrea Nanetti (associato – Nanyang Technological University, Singapore); Martina Pantarotto (contrattista di Paleografia – Università telematica E-campus); Maria Alessandra Panzanelli Fratoni (bibliotecaria – Università degli Studi, Perugia); Ulderico Parente (ricercatore confermato di Storia contemporanea, UNINT , Roma); Aleida Paudice; Alessio Persic (ricercatore confermato di Letteratura Cristiana Antica, docente aggregato di Agiografia e di Patrologia e Storia della Chiesa Antica – Istituto Superiore di Scienze Religiose dell’Università Cattolica, Milano); Francesco Pieri; Rosaria Pilone (associata di Archivistica – Università degli Studi di “Federico II”, Napoli); Valerio Polidori (docente invitato, Pontifica Università Lateranense, Roma); Marta Romano (contrattista – Università degli Studi, Trento); Ilaria Sabbatini; Guglielmo Sanna (ricercatore confermato in M-STO/02 e docente aggregato di Storia Moderna e di Storia della Cultura Politica e Religiosa dell’Età Moderna – Università degli Studi, Sassari); Eugenio Susi (membro della redazione di ‘Hagiographica’); Sergio Tanzarella (ordinario di Storia della Chiesa, Facoltà teologica dell’Italia Meridionale, Napoli); Silvia Trani (archivista, Roma); Gianni Vacchelli (Comunita’ di Ricerca “Culture Religioni Diritti Nonviolenza” – Universita’ degli Studi, Bergamo); Stefano Zen (Dirigente scolastico dell’Istituto Superiore “E. De Nicola” , Napoli).
6. Circolare ai Commissari del DG MIUR del 27.5.2013, nella quale si richiama la necessità di una valutazione analitica di titoli e pubblicazioni dei candidati
Circolare-ai-Commissari
5. Ancora sugli esiti dell’ASN nei settori di sociologia
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- Al Presidente del Consiglio di coordinamento dei corsi di studio in Servizio Sociale (L-39) e Servizio Sociale e Politiche Sociali (LM-87) dell’Ateneo di Palermo – Scuola delle Scienze umane e del patrimonio culturale
- Alle colleghe e ai colleghi del Consiglio di coordinamento dei corsi di studio in Servizio Sociale (L-39) e Servizio Sociale e Politiche Sociali (LM-87)
I ricercatori firmatari di questo documento, alla luce dei recenti risultati dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN), quelli finora pubblicati, ovverossia per la sociologia quelli relativi ai settori 14/C1 e 14/D1, che vedono solo un candidato abilitato nell’Ateneo palermitano (e in tutto due nell’intera Sicilia), dichiarano la loro indisponibilità ad assumere qualunque insegnamento o carico didattico sine die. Questa decisione, già comunicata al Presidente del Consiglio di coordinamento dei nostri corsi di studio all’indomani della pubblicazione degli atti dell’ASN, cioè a caldo, viene ribadita dopo attenta ponderazione alla luce di varie considerazioni che di seguito illustreremo.
In primo luogo, ognuno di noi che presta servizio a vario titolo (borse, contratti, assegni di ricerca, immissione in ruolo) e insegna presso l’Ateneo di Palermo da molto tempo – in un range valutabile tra i 13 e i 18 anni – con grande impegno e sacrificio, anche personale, sente profondamente lesa la sua dignità ed è costretto a sentirsi delegittimato ad insegnare, anche se la prassi invalsa, pure in sede di valutazione, separa la valutazione scientifica da quella didattica. Ci si chiede dunque, e chiunque (anche gli studenti) legittimamente potrebbe chiedersi: a che titolo a questo punto insegneremmo (e cosa?) data la nostra qualità non riconosciuta dal punto di vista scientifico?
In secondo luogo, i criteri di valutazione prima dell’ANVUR e poi dell’ASN, ampiamente criticati da vari settori della “comunità scientifica nazionale” e criticabili anche alla luce delle numerose ricerche e riflessioni intorno al tema della valutazione, sono stati adoperati da molte Commissioni dell’ASN, ed in particolare da quelle relative ai settori concorsuali 14/C1 e 14/D1, in maniera arbitraria, spesso contraddittoria, producendo esiti che hanno in alcuni casi dell’incredibile e che stanno determinando in moltissimi colleghi il ricorso al giudizio dei T.A.R. in tutto il paese. Inoltre, come recita un documento nazionale di recente firmato da una parte significativa della “comunità scientifica sociologica”, i lavori delle Commissioni hanno determinato “giudizi stereotipi e frettolosi, incongruenze, arbitri valutativi e veri e propri errori materiali” per cui molti dei candidati all’abilitazione si sentono legittimamente delusi, offesi e lesi nella loro dignità di studiosi. Ad ogni modo, indipendentemente dall’esito che avranno i ricorsi in sede giudiziaria o iniziative di altra natura, delle due l’una: o la quasi totalità dei sociologi siciliani è scarsa, e dunque deve necessariamente mettersi al lavoro per recuperare le lacune (dovute anche all’eccessivo tempo speso in carichi didattici che con spirito di servizio ha svolto per l’Ateneo di Palermo), oppure, anche se così non è, come noi rivendichiamo con orgoglio, poiché la partecipazione ad una tornata dell’ASN inibisce per due anni la possibilità di partecipare ad una successiva tornata dell’ASN, questi studiosi hanno necessità, oltre che voglia, di dedicare il loro tempo principale a ciò per cui il loro status giuridico li chiama a lavorare principalmente, cioè la ricerca scientifica.
Vi sono inoltre alcuni altri problemi rimasti irrisolti dopo l’approvazione della legge cosiddetta “Gelmini” – da noi, come da molti altri colleghi, aspramente combattuta – che forniscono ulteriori ragioni per ribadire l’indisponibilità che annunciamo con questo documento:
– in primo luogo la questione dello status giuridico dei ricercatori: non sono considerati professori (se non a domanda, con quella fictio del professore aggregato) – ed infatti non sono obbligati per legge a svolgere attività didattica – però “contano” per i requisiti minimi di docenza e servono a istituire e reggere i corsi di studio;
– in virtù dello status giuridico dei ricercatori, la legge 240/2010 prevedeva che ogni Ateneo emanasse un regolamento che quantificasse la retribuzione della didattica dei ricercatori; finora solo alcuni Atenei nazionali hanno redatto un simile regolamento e in Sicilia solo quello di Catania, di recente, ma non quello di Palermo;
– ai ricercatori, in particolare, viene chiesto di reggere i corsi di studio con carichi didattici eccessivi, non retribuiti, ovviamente per il “bene dei nostri studenti”, ma i ricercatori vengono poi valutati solo sulla ricerca e non sulla didattica, anche quando ricevono per quest’ultima valutazioni molto buone, e in alcuni casi eccellenti, dagli studenti.
Potremmo continuare con l’elencare tanti altri problemi e distorsioni del nostro sistema universitario nazionale, ma ci fermiamo qui.
Ci sembra di avere molte buone ragioni dunque per prendere la decisione che qui comunichiamo.
Siamo consapevoli dei rischi gravi che corrono i nostri Corsi di studio e che la nostra scelta può fare il gioco di chi vuole il ridimensionamento delle scienze umane e sociali all’interno del sistema universitario nazionale. D’altro canto la soluzione di tutti i problemi non può essere sostenuta solo sulle nostre spalle, le nostre vite, anche personali, le nostre legittime aspirazioni di carriera in quanto studiosi. Confidiamo nel fatto che il sistema di governance, da un lato, trovi opportuni rimedi e, dall’altro lato, gli studenti e le loro famiglie facciano sentire la loro voce quando scopriranno che certi Corsi di studio non vi potranno più essere o sono a rischio.
A differenza di quello che è successo nel 2011, all’indomani dell’approvazione della legge 240/2010, questa volta saremo intransigenti, nei limiti di ciò che la legge consente, senza ascoltare il richiamo delle sirene che ci convinsero a tornare indietro sulle nostre decisioni.
Ignazia Bartholini (SPS\07), Roberta Di Rosa (SPS\07), Gaetano Gucciardo (SPS\07), Michele Mannoia (SPS\08), Marco A. Pirrone (SPS\07), Cirus Rinaldi (SPS\12), Francesca Rizzuto (SPS\08)
4. A proposito dell’Abilitazione Nazionale nel settore di storia medioevale.
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10 gennaio 2013
Alla Onorevole Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Scientifica
Agli Onorevoli Senatori e Deputati
Alle OO. SS. di categoria: FLC CGIL, Cisl Scuola, Uil Scuola, SNALS, FGU GILDA UNAMS, CISAL, CONFSAL.
e p.c. ai principali organi di informazione nazionale
Onorevole Ministro, Onorevoli Senatori e Deputati,
siamo un gruppo di studiosi medievisti italiani, accomunati dall’aver partecipato alla prima valutazione per le abilitazioni nazionali a docente universitario di seconda e prima fascia (settore concorsuale 11/A1), che si è svolto con le nuove modalità stabilite dalla riforma del reclutamento universitario, i cui risultati ufficiali sono stati proclamati il 28/11/2013.
Abbiamo tutti riposto molte speranze in questa nuova forma di reclutamento che – non garantendo oltretutto alcuna immediata promozione – sembrava consentire una maggiore trasparenza e obiettività nella valutazione, in un clima generale che fosse propizio a una reale svolta rispetto a tanti abusi commessi nei decenni precedenti in questo campo. Purtroppo abbiamo dovuto constatare che così non è accaduto, per lo meno nel nostro settore, e per ragioni che sembrano configurare vere e proprie violazioni della legalità.
Infatti, come denunciato purtroppo tardivamente anche dall’articolo di giornale che alleghiamo (allegato 3), almeno tre dei cinque commissari sorteggiati hanno alterato i propri curricula, presentati per essere ammessi nelle liste dei commissari sorteggiabili.
Da una verifica accurata di tali curricula risulta incontestabile, in effetti, che i due commissari in questione hanno dichiarato di essere autori di pubblicazioni non loro e uno ha inserito lavori non attinenti al settore disciplinare (allegato 1). Non solo i suddetti commissari avrebbero commesso tale palese irregolarità, ma risulterebbe persino che i loro titoli reali li pongono, in qualche caso, al di sotto delle mediane richieste per aspirare a diventare commissario; e in diversi casi persino al di sotto delle mediane fissate per essere abilitati alla seconda e prima fascia di docenza universitaria. Tale circostanza avrebbe dovuto essere acclarata dall’ANVUR e non poteva essere oggetto di ricorso preventivo da parte dei candidati.
La gravità di tali fatti, che si commenta da sola, è diventata di pubblico dominio solamente grazie all’articolo-denuncia del “Secolo XIX” (18-12-2013), quando già i lavori della Commissione erano conclusi, perché si era ritenuto, a torto, che almeno i curricula presentati dagli aspiranti commissari al Ministero fossero regolari e si confidava nella buona fede dei nostri colleghi o in un doveroso controllo d’ufficio da parte degli organi competenti. Purtroppo così non è avvenuto e, dunque, ci siamo ritrovati nella condizione umiliante di essere valutati da una commissione la cui autorevolezza è oggi messa in discussione, visti gli accertamenti svolti.
Le considerazioni di merito che seguono confermano l’inadeguatezza dei commissari de quibus agitur.
- In particolare, consideriamo inaccettabile un giudizio di non idoneità motivato dalla limitatezza del contributo rispetto alle tematiche del settore concorsuale, al regionalismo o all’apporto personale, da parte di chi si è candidato al ruolo di commissario con opere di storia contemporanea o basate su argomentazioni regionalistiche oppure addirittura non attribuibili, parzialmente o totalmente, alla sua paternità.
- E’ davvero singolare la concezione restrittiva (ma di una ristrettezza a geometria variabile, secondo i casi) mostrata dai commissari nel definire la pertinenza di un lavoro alla Storia medievale, in aperta contraddizione con la descrizione del raggruppamento, che recita:
«Il settore si interessa all’attività scientifica e didattico–formativa nei campi che riguardano l’ampio arco cronologico che va dal secolo V al secolo XV e che si intrecciano, per contenuti e metodi, con la storia dell’antichità e dei tempi antico e moderno. Il settore è caratterizzato da interdisciplinarità e da un vasto ventaglio di istanze metodologiche che tengono conto della caratteristica connotazione europea e italiana, ma si aprono anche a una indagine sui diversi aspetti dell’espansione europea e quindi di contatto con le altre culture – comprese quelle delle aree orientali e bizantine – che hanno la loro origine proprio nell’età medievale. Il settore è caratterizzato da interdisciplinarietà e da un vasto ventaglio di istanze metodologiche … Include anche le competenze relative allo studio storico dei fenomeni politico-istituzionali, economico-sociali, religiosi, delle relazioni di genere, culturali, militari del periodo considerato. Comprende altresì gli studi relativi alla metodologia, alle fonti, alla storiografia e alla didattica del settore» (DM 29-7-2011, n. 336).
- Che non tutti i commissari fossero preparati per deliberare su tale ventaglio di competenze risulta da valutazioni che stigmatizzano i profili di ricerca più aperti e interdisciplinari, bollati con il marchio infamante della frammentarietà, o rinviati ad altri settori disciplinari. Eppure l’interdisciplinarietà è, oramai, un carattere imprescindibile, richiesto sia in ambito europeo sia extraeuropeo, a chiunque intenda presentare un progetto di ricerca.
- Sorprende anche che pur nei ristretti tempi di lavoro delle commissioni, quella di Storia Medievale (11/A1) avesse già finito i lavori alla prima data utile di scadenza, rivelando tempistiche di giudizio poco realistiche (allegato 2).
Per tutti i motivi sopra esposti ci rivolgiamo innanzitutto a Lei On. Ministro, e a Voi Onorevoli Parlamentari, per chiedere il Vostro aiuto nel far valere, anche nel nostro settore accademico, un serio rispetto dei diritti e dei doveri di ciascun operatore. Oltreché come studiosi che hanno sempre fatto il proprio dovere in assoluta trasparenza, in Italia o all’estero, ci sentiamo umiliati come semplici cittadini davanti a una smentita tanto clamorosa della possibilità di un reale cambiamento negli aspetti più delicati della politica accademica (il reclutamento).
Chiediamo pertanto che si proceda a revocare la commissione indicata e ad incaricare una nuova commissione di rivederne i giudizi, fermo restando quanto altre autorità dovranno valutare, nelle dichiarazioni presentate, circa la violazione della normativa vigente, e in particolare dell’art. 76 del DPR n. 445 del 28 dicembre 2000.
Firme (ordine alfabetico)
Ettore Baldetti (Liceo Scientifico Statale – Senigallia), Irene Barbiera (Università degli Studi di Padova), Marco Bartoli (Università LUMSA Roma), Cristina Belloni (Liceo Scientifico Statale – Bressanone; FBK-isig – Trento), Vito Bianchi (Università degli studi “A. Moro” di Bari), Simona Boscani Leoni (Università di Berna), Caterina Bruschi (University of Birmingham), Martina Cameli (Istituto storico italiano per il Medio Evo), Antonella Campanini (Università degli Studi di Scienze Gastronomiche – Pollenzo), Federico Canaccini (Università LUMSA di Roma), Luigi Canetti (Università degli Studi di Bologna), Angelo Cattaneo (Universidade Nova de Lisboa – I Tatti, Firenze), Paolo Cesaretti (Università degli Studi di Bergamo), Giuseppe Cossuto (Babes-Boliyai University, Cluj-Napoca), Valeria De Fraja (Istituto storico italiano per il medio evo – Roma; – I.C. n. 6 – Verona), Ignazio Del Punta (Università degli studi della Repubblica di San Marino), Marco Di Branco (Deutsches Historisches Institut – Roma), Maria Teresa Dolso (Università degli Studi di Padova), Rolando Dondarini (Università degli Studi di Bologna), Lorenzo Fabbri (Archivio dell’Opera di S. Maria del Fiore – Firenze), Anna Falcioni (Università degli Studi di Urbino), Roberto Farinelli (Università degli Studi di Siena), Laura Fenelli (Università degli Studi, Bologna), Giampaolo Francesconi (Istituto storico italiano per il Medio Evo), Enrica Guerra (Università degli Studi di Ferrara), Giuseppe Ligato (Society for the Study of the Crusades and the Latin East), Matteo Melchiorre (Università Ca’ Foscari, Venezia), Piero Morpurgo (Liceo Giordano Bruno di Roma), Andrea Nanetti (Singapore, Nanyang Technological University), Giuseppe Palmero, LA3M (UMR 7298 • Université d’Aix-Marseille • CNRS), Gianluca Pilara (Istituto Patristico Augustinianum – Roma), Eleonora Plebani (Sapienza. Università di Roma), Enrica Salvatori (Università degli Studi di Pisa), Raffaele Savigni (Università degli Studi di Bologna), Gian Paolo G. Scharf (Università degli Studi dell’Insubria), Marco Stoffella (Università degli Studi di Verona), Marco Vendittelli, (Università di Roma “Tor Vergata”), Corrado Zedda (Università di Corsica)
Allegato 1 – Incongruenze nei CV dei commissari
Si segnala in ordine alfabetico:
Dalena Pietro
Si è attribuito la piena paternità di due monografie, nn. 6, 15, 25 e 26 (nel CV pubblicato sul sito dell’Abilitazione Scientifica Nazionale, n. progr. 1395), scritte assieme ad altri autori e curatele, come si può valutare dal catalogo della casa editrice Adda. Infatti ai nn. 5, 12, 14, 18, 19, 20, 21 ha inserito i suoi contributi facenti parte delle suddette curatele.
Non ha saggi in riviste di fascia A negli ultimi 10 anni.
Greci Roberto
Si è attribuito la curatela di monografie altrui (pubblicazioni nn. 7, 27, 32, 45, 63, 64 nel CV pubblicato sul sito dell’Abilitazione Scientifica Nazionale, n. progr. 8051), come si può valutare dal catalogo della casa editrice Clueb e dall’elenco dei candidati all’abilitazione.
Ha inserito sia la curatela di volumi, sia i contributi in essi presenti (nn. 8 e 9, 13 e 16, 17 e 18, 22, 24 e 25, 31 e 33, 46 e 47, 48, 49 e 58, 51 e 60, 74 e 75, 82 e 85). Si noti che la n. 71 sembrerebbe l’unica monografia degli ultimi 10 anni, ripetuta al n. 76 e identificata come curatela. Altre curatele: nn. 80 e 81
Manca ISBN: nn. 7, 17, 26, 27, 31, 32, 33, 45, 46, 63, 64, 65, 66, 74, 81, 83, 85
Non ha saggi in riviste di fascia A negli ultimi 10 anni.
Meloni Giuseppe
Ha inserito monografie non attinenti al S.S.D. (pubblicazioni nn. 2 e 14 del CV pubblicato sul sito dell’Abilitazione Scientifica Nazionale, n. progr. 7356). Ha inserito un contributo non attinente al S.S.D. (n. 4)
Manca ISBN: nn. 3, 17, 18, 19, 20, 21, 23
Ha inserito sia la curatela di volumi, sia in contributi in essi presenti (nn. 8 e 11, 13, 15 e 16, 17 e 18)
Monografie attinenti al S.S.D. degli ultimi 10 anni: 2 e non 4 come dichiarato.
Contributi con ISBN degli ultimi 10 anni: 6
Non ha saggi in riviste di fascia A negli ultimi 10 anni.
Alla magistratura il compito di valutare se, nelle dichiarazioni presentate, è stata violata la normativa vigente (art. 76 del DPR n. 445 del 28 dicembre 2000).
Allegato 2 – I tempi di lavoro della commissione
Si segnalano qui i tempi di lavoro della commissione per il settore concorsuale 11/A1 – STORIA MEDIEVALE
Primo verbale 19 febbraio: dopo la pubblicazione i candidati avevano 15 giorni di tempo per ritirarsi. L’elenco definitivo dei candidati non è stato disponibile prima del 7 marzo e quindi la commissione si riunisce nuovamente il 4 aprile alle 10, per alcune dichiarazioni di legge.
Dopo di che
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Questo significa che in 28 giorni i membri della commissione dovrebbero avere esaminato 171 curricula di seconda fascia e almeno 38 di prima fascia.
Lavorando tutti i giorni, avrebbero preso in esame 7 curricula al giorno; se questo significa avere analizzato anche le pubblicazioni farebbe 2.508 pubblicazioni in totale, pari a 89,57 pubblicazioni al giorno, tutti i giorni, senza pause. Il che sembra chiaramente confliggere, oltreché con il buon senso, con la recente giurisprudenza concernente i tempi di valutazione dei concorrenti (cfr. ad es. Consiglio di Stato , sez. VI, sentenza 20.06.2006 n° 3668 che richiama la precedente delibera Consiglio di Stato , sez. V, decisione 13.05.2005 n° 2421 ).
Naturalmente è possibile (ma non lo si dichiara a verbale) che l’esame dei curricula e la lettura delle pubblicazioni sia stata fatta solo per una metà dei candidati prima del 4 aprile, e l’altra metà tra il 6 aprile e il 29 maggio: in questo caso sarebbero un totale di 81 giorni: lavorando tutti i giorni 2,58 curricula al giorno e 30,96 pubblicazioni al giorno. Diciamo che dalle 10.30 alle 17 del 4 aprile, valutando 6,30 di lavoro al giorno, e dalle 9.15 alle 13.30 del 30 maggio si ha un totale 645 minuti: dividendo per 171 curricula si ottiene una media 3,77 minuti per curriculum.
Dalle 9 alle 16 del 4 aprile e dalle 14 alle 16 del 30 maggio otteniamo invece invece 510 minuti per 49 curricula di prima fascia e, contando anche i curricula di seconda fascia, otteniamo che ogni candidato viene discusso per 10,40 minuti.
La votazione finale avviene per via telematica dalle 10 alle 12 del 25 luglio per prima e seconda fascia. Ma la stesura dei giudizi collegiali AVVIENE DOPO.
Il 9 settembre dalle 11 alle 13.30 e dalle 14.30 alle 19 si stendono i giudizi collegiali per la prima fascia; il 10 settembre dalle 9 alle 13.30 e dalle 14.30 alle 19 si stendono i giudizi collegiali di seconda fascia.
Il giorno 11 dalle 9 alle 11.45 si ha la revisione dei giudizi di prima e seconda fascia e l’immissione nel portale.
Segue Allegato 3 – Articolo sul Secolo XIX del 18 dicembre 2013, p. 7 (visibile nella versione PDF del documento, allegato QUI)
3. Interrogazione parlamentare di P. Corsini (Senato) sull’ASN del s.c. 11/A4, Scienze del libro e del documento e Scienze storico-religiose
Senato.it – Legislatura 17 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-01454 Legislatura 17 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-01454
Pubblicato il 8 gennaio 2014, nella seduta n. 162
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CORSINI – Al Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca. –
Premesso che, per quanto risulta all’interrogante:
con determina dirigenziale n. 222/2012 del 20 luglio 2012 è stata indetta la procedura per il conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale di professore universitario di prima e seconda fascia; con determina dirigenziale n. 739 del 18 dicembre 2012 e determina dirigenziale integrativa del 4 febbraio 2013 è stata nominata la commissione giudicatrice del settore concorsuale 11/A4, Scienze del libro e del documento e Scienze storico-religiose composta dai seguenti membri: Edoardo Roberto Barbieri, docente di Storia del libro e dell’editoria e di Bibliografia e biblioteconomia all’università Cattolica di Brescia e Milano, Marilena Maniaci, docente di Storia del libro manoscritto all’università di Cassino, Luisa Miglio, docente di Paleografia all’università “La Sapienza” di Roma, Fabio Troncarelli, docente di Paleografia latina all’università della Tuscia e dal commissario di istituzione straniera Francisco Diez De Velasco, docente di Storia delle religioni all’università de La Laguna nelle isole Canarie;
il settore concorsuale 11/A4 accorpa discipline disparate che nulla hanno in comune tra loro (dalla Paleografia, alla Biblioteconomia, fino alla Storia del cristianesimo e delle chiese SSD M-STO/07);
in conseguenza di questi accorpamenti è accaduto quanto era prevedibile, cioè la nomina di una commissione i cui membri non avevano alcuna competenza nell’ambito delle scienze storico-religiose in riferimento alla cristianistica, incompetenza evidenziata sia dalle discipline insegnate sia dalle personali pubblicazioni, sia dal curriculum degli stessi commissari dove in un caso compaiono pubblicazioni che nulla hanno a che vedere con il settore concorsuale 11/A4 come libri di poesia, romanzi, saggi di critica letteraria e cinematografica;
nonostante questa incompetenza i commissari hanno proceduto nei lavori di giudizio sui candidati e sulle loro pubblicazioni come previsto nel decreto ministeriale n. 76 del 2012 utilizzando, tra l’altro, solo in alcuni casi un consulente esterno incaricato di stendere un parere pro veritate sulle pubblicazioni dei candidati di discipline storico-religiose;
nel verbale n. 1 del 7 marzo 2013 la commissione, dopo aver elencato i criteri ministeriali per la valutazione dei candidati (siglati a, b, c, eccetera), li ha integrati con criteri propri (siglati A, B, C, eccetera), a volte apertamente in contrasto con quelli ministeriali. Questi criteri sono stati prima enunciati in maniera perentoria e immediatamente dopo smentiti qualora la commissione avesse ritenuto di non doverli seguire. Per esempio, in un impeto di severità la commissione decide di “fissare, come prerequisito aggiuntivo per il conseguimento dell’abilitazione, la produzione nei 10 anni anteriori alla scadenza del bando, di almeno una monografia, edizione critica o edizione di fonti oppure di una raccolta consistente ed internamente coerente di saggi” (p. 8), incredibilmente smentendo se stessa nel paragrafo successivo, perché la commissione “si riserva comunque di prendere in considerazione (…) anche Candidati che non posseggano questo prerequisito”. Si veda l’arbitrio espresso nella conclusione del verbale (primo paragrafo di pagina 9): “la Commissione ritiene che il Candidato, oltre a soddisfare il parametro A), debba possedere almeno tre degli elementi di valutazione (B-M) sopra elencati”. Vengono quindi considerati solo i “criteri” elencati in lettera maiuscola, cioè quelli che ha definito la Commissione, e non quelli in minuscola, che sono quelli fissati dal decreto ministeriale per la valutazione. E dopo segue un paragrafo nel quale si dice che la commissione si riserva comunque la libertà di abilitare anche chi non soddisfi questi criteri;
la commissione nel verbale del 7 marzo, dopo avere elencato i criteri aggiuntivi, afferma che “il soddisfacimento dei suddetti requisiti indica che
l’abilitazione è possibile, non che ne consegua automaticamente, essendo essa il prodotto del giudizio di merito formulato dalla commissione”, mentre proprio i giudizi di merito sono carenti da ogni punto di vista di analisi dettagliata e completa dei titoli;
il giorno 28 novembre 2013 la commissione ha concluso i propri lavori i cui risultati sono stati resi pubblici nei giorni successivi;
da un’analisi approfondita dei risultati appaiono numerosissime e gravi incongruenze tali da pregiudicare fortemente la bontà della procedura, la
qualità dei giudizi espressi, le stesse abilitazioni riconosciute e quelle negate;
i candidati i cui curriculum sembravano a parere della commissione riferibili a SSD M-STO/07 hanno ricevuto un trattamento palesemente differenziato: infatti, numerosi non sono stati sottoposti a parere pro veritate e sono stati abilitati direttamente dalla commissione (per esempio I fascia: Benedetti, Buffon; II fascia: Barcellona, Bartolomei Romagnoli, Curzel, Colombi, De Fraia, Gagliardi, Giovannucci, Longo, Lugaresi, Marchetti, Michetti R., Mongini, Nicolotti, Parriniello, Pennacchio, Rainini, Rossi, Sardella, Solfaroli Camillocci, Toti, Turbanti), mentre numerosi altri non sono stati sottoposti a parere pro veritate e non sono stati abilitati dalla commissione, la quale ha dunque smentito se stessa entrando nel merito delle valutazioni, altri ancora sono stati sottoposti a parere pro veritate, il quale ha costituito l’unico giudizio espresso dalla commissione la quale si è limitata soltanto a prenderne atto sia nei giudizi personali sia nel giudizio finale dove esso è stato semplicemente copiato, ma con qualche eccezione (in alcuni casi nonostante il parere pro veritate positivo la commissione ha negato l’abilitazione e in altri casi nonostante il parere negativo l’abilitazione è stata concessa);
si è verificato il caso di candidati in possesso di una sola mediana su 3 e senza monografie negli ultimi 10 anni che sono stati abilitati d’ufficio dalla
commissione (per esempio I fascia: D’Aiuto, Signorini, Zito) o comunque senza monografie negli ultimi 10 anni (I fascia: Lupi), in un caso con zero mediane su 3 si è concessa l’abilitazione (II fascia: Letizia);
si è verificato il caso di candidati che, pur in possesso di una sola mediana su 3 sono stati abilitati d’ufficio dalla commissione (per esempio I fascia: Ansani, Cusumano, Gattagrisi, Ruffini). Il caso della candidata Sabba è esemplare poiché tutta la produzione scientifica della candidata corrisponde esattamente alle 12 pubblicazioni presentate, produzione scientifica che la commissione definisce “non abbondante”, mentre tra i titoli aggiuntivi definiti come “non molti titoli valutabili” si ricorre ad una generica “esperienze di didattica universitaria”, in realtà relativa ad alcuni giorni di docenza pari a non più di 5, che le vale comunque l’ottenimento dell’abilitazione di II fascia;
in altri casi sono state incredibilmente considerate oggetto di specifica valutazione, tra le 12 pubblicazioni previste per la II fascia, monografie
pubblicate in anni precedenti il limite di anni 10 e inserite per la valutazione dai candidati (per esempio II fascia: Bartolomei Romagnoli con un libro del 1994, Michetti R. con un libro del 1999, Gorian con un libro del 2002, Rossi con un libro del 2001, Venuda con un libro del 1995);
candidati con 3 mediane su 3 e con tutti requisiti aggiuntivi necessari e con giudizi ampiamente positivi sulle pubblicazioni sono stati esclusi adducendo il motivo di essere “estraneo ai ruoli dell’Università” (I fascia: De Pasquale, Sanzi) o perché appartenenti al ruolo di ricercatore (I fascia: Roncaglia), o ancora Ibba con 2 mediane su 3 con giudizi positivi sulla produzione scientifica ma “estraneo ai ruoli dell’Università” e la cui produzione sull’ebraismo non appare, secondo i commissari, confacente alla classe di concorso. Si consideri ancora il caso di Parente, con 2 mediane su 3, ricercatore di Storia contemporanea con produzione scientifica quasi esclusivamente dedicata alla storia del cristianesimo contemporaneo che viene definita dalla commissione “meglio valutabile, per il suo taglio prevalentemente storico, nel settore di appartenenza” e le cui monografie di centinaia di pagine di documenti e fonti di archivio dedicate a fondatori di istituti religiosi (erroneamente chiamati
“congregazioni monastiche”, prova palese, questa, dell’incompetenza della commissione) sono definite “medaglioni biografici”. Ci sono poi i casi dove pur in presenza di 3 mediane su 3 o 2 su 3 e in presenza di ben 3 o 4 requisiti aggiuntivi (dottorato di ricerca, direzione di collane editoriali, premi ottenuti, insegnamento di Storia del cristianesimo in istituzioni straniere) alcuni candidati non sono stati riconosciuti degni di ottenere nemmeno l’idoneità alla II fascia come per esempio Tanzarella per il quale, come in molti casi, non solo è stata omessa un’analisi dettagliata delle pubblicazioni presentate, ma la commissione ha definito a diffusione locale libri apparsi in una collana ben nota non solo in Italia, dove è regolarmente e capillarmente distribuita, ma nota anche all’estero e dotata di comitato scientifico e i cui volumi sono sottoposti a double-blind peer review;
lungo sarebbe l’elenco di coloro che sono stati esclusi ricorrendo ad ogni genere di motivazioni anche da parte dell’esperta Vismara esterna nei pareri pro veritate. Una fra tutte è la presunta non corrispondenza tra le pubblicazioni, il curriculum del candidato e il settore concorsuale 11/A4. Si veda in proposito l’inverosimile caso di Claudio Zamagni docente di Storia del cristianesimo all’università di Ginevra con 3 mediane su 3, abbondanza di titoli aggiuntivi e una quantità di pubblicazioni di riconosciuto valore scientifico che la consulente esterna Vismara però bolla come pubblicazioni che “presentano peraltro un carattere eminentemente filologico-letterario e, pur nell’apprezzamento per il lavoro svolto, non possono essere considerate pertinenti al settore concorsuale in oggetto”. Altro caso significativo è quello di Zambon ricercatore di M/STO-07 con 2 mediane su 3 e studioso delle relazioni tra neoplatonismo e cristianesimo per il quale la consulente ha in serbo un giudizio inaccettabile per qualsiasi storico del cristianesimo antico: “Le ricerche del candidato, pur decisamente apprezzabili, non corrispondono (se non in piccola parte) né per argomenti né per metodi al settore concorsuale in oggetto”. Settore concorsuale però, è il caso di ricordarlo, nel quale da 10 anni Zambon è ricercatore. Si consideri infine il caso di Ramelli con una produzione scientifica vastissima tra cui 31 libri, centinaia di articoli e la presenza di tutti i criteri aggiuntivi previsti dalla commissione per la quale si scrive questo giudizio finale: “La candidata Ilaria Ramelli presenta una
produzione scientifica di proporzioni assolutamente imponenti; a livello internazionale le sue ricerche le hanno consentito di imporsi all’attenzione, con una notevolissima serie di attività (visiting professor eccetera). Bisogna però riconoscere che a volte la vastità della produzione va a discapito del rigore e dell’originalità. Si ritiene dunque che Ilaria Ramelli non possa conseguire l’abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di Professore universitario di I fascia per il settore concorsuale 11/A4 – Scienze del libro e del documento e scienze storico-religiose”. Nessuna valutazione specifica dei titoli presentati e piena contraddizione del giudizio con i criteri seguiti dalla commissione in altri casi;
i criteri aggiuntivi stabiliti dalla commissione appaiono addirittura aver preso il sopravvento nei giudizi finali sulle mediane facendoli diventare di fatto decisivi lasciando campo libero all’arbitrio da parte dei commissari che contraddittoriamente li applicano in alcuni casi e non li usano in altri;
tali criteri aggiuntivi sono stati in alcuni casi ritenuti indispensabili per ottenere l’abilitazione e in caso di mancanza degli stessi l’abilitazione non è
stata concessa, in altri casi la commissione ha palesemente sbagliato non conteggiandoli a taluni candidati e quindi non abilitandoli, in altri casi la
commissione ha concesso l’abilitazione anche in palese assenza del possesso di questi elementi aggiuntivi (II fascia: Curzel, Moro Cristina, Sabba) o della loro mancata dichiarazione (II fascia: Caldelli, Paiano);
il criterio della presunta mancata internazionalizzazione è stato usato per negare l’abilitazione a molti candidati meritevoli, mentre per altri che sono stati abilitati le relazioni dei commissari tacciono totalmente o ritengono internazionalizzazione la generica partecipazione ad alcuni convegni tenuti all’estero o ritengono l’assenza di internazionalizzazione irrilevante ai fini dell’abilitazione concessa (II fascia Gorian, Moro Cristina, Sciarra);
indicativo di quanto siano contraddittori i giudizi della commissione è quanto espresso nei confronti del candito Magionami (II fascia) che presenta a giudizio solo 11 testi sui 12 previsti, avendo un curriculum totale di solo 15 pubblicazioni e raggiungendo solo una mediana su 3, ma risultando comunque abilitato; dello stesso tenore è quanto scrivono sulla candidata Marchetti (II fascia) le cui pubblicazioni vengono descritte dalla stessa commissione come discontinue in un ventennio e non sempre pertinenti al settore concorsuale di appartenenza fino all’osservazione di avere dichiarato come monografia una pubblicazione in cui l’apporto della candidata era ridotto “a poche pagine (11-27)”, osservazioni queste che le valgono comunque l’abilitazione; simile situazione è quella della candidata Pennacchio la cui produzione scientifica viene definita dalla commissione rarefatta, discontinua e poco varia, che presenta solo 11 pubblicazioni sulle 12 previste e che raggiungendo solo una mediana su 3 ottiene comunque l’abilitazione; non pochi candidati hanno poi gonfiato l’elenco delle pubblicazioni con recensioni o schede e la commissione
sembra averne tenuto conto come elementi particolarmente qualificanti il curriculum come nel caso di Rainini nel quale le 41 pubblicazioni, tolte le recensioni, si riducono ad appena 25; degna di rilievo è l’abilitazione ottenuta (II fascia) dalla candidata Sciarra con una mediana su 3, appena 15 pubblicazioni in totale tra le quali anche recensioni e schede di catalogo e un articolo a due mani, nessuna internazionalizzazione, ma decisivo appare il titolo di essere cultrice della materia presso l’università di Cassino, dipartimento di Filologia e storia, con il professore ordinario Marilena Maniaci dal 1° ottobre 2010, la quale Maniaci risulta membro della stessa commissione di abilitazione che la valuta con lusinghieri giudizi;
a fronte di abilitazioni ottenute con poche pubblicazioni e con curriculum ridotti corrispondono esclusioni non motivate nei giudizi come quelle di
studiosi di provata esperienza e con curriculum solidi e di riconosciuta competenza e lunga attività didattica anche in istituzioni straniere come
Carfora, Malpensa, Mandreoli, Parente, Ramelli, Shurgaia, Tanzarella, Zamagni Claudio, Zambon e altri ancora cui l’abilitazione è stata negata, o giovani studiosi di valore come Canella o Palmieri non certo inferiori ai tanti abilitati con curriculum poveri e forzati;
la commissione il giorno 7 marzo 2013 (verbale n. 1) nella riunione preliminare di insediamento verbalizza che “La Commissione all’unanimità delibera di utilizzare la classificazione di merito delle pubblicazioni di cui all’allegato D del DM 76/2012 come riferimento di ordine generale, non ritenendo opportuno né necessario, ai fini dell’attribuzione dei giudizi individuali e collegiali, esplicitare la classificazione relativa alle singole pubblicazioni scientifiche presentate da ciascun candidato”;
il giorno 30 maggio 2013 la commissione (verbale n. 6) polemizza sulla indicazione pervenuta dal Ministero (nota direttoriale n. 12477 del 27 maggio 2013) che indicava alle commissioni come occorresse “una valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche presentate da ciascun candidato”, indicazione che la commissione rifiuta dal momento che afferma di ritenere che essa sia “concettualmente estranea agli obiettivi dell’abilitazione nazionale”;
incredibilmente solo nella riunione del 13 novembre 2013 (verbale n. 10), durata dalle ore 10,30 alle ore 15,30, a lavori quasi conclusi la commissione prende atto di quanto vanamente il Ministero aveva comunicato il 27 maggio 2013 e ribadito nella nota del 9 luglio 2013 circa l’obbligo di inserire nei giudizi collegiali la sintetica descrizione del contributo individuale del candidato alle attività di ricerca svolte e la valutazione analitica di titoli e pubblicazioni scientifiche. La commissione, quindi, preso atto di quanto il Ministero chiedeva riformula i 111 giudizi di abilitazione a professore di I fascia, pur mantenendo in essere contemporaneamente i giudizi a suo tempo formulati, e compie questo lavoro di analisi dei titoli scientifici di ciascun candidato in appena 5 ore pari a 2 minuti e 42 secondi a giudizio;
nonostante questi interventi correttivi i giudizi dei singoli commissari si segnalano per estrema concisione (2 o 3 righe per complessivi 200-300 caratteri, spazi compresi) e genericità, per ripetitività di modelli-tipo (un’interessante prova si può rinvenire nei giudizi del commissario-poeta Troncarelli dove si evince un unico calco dal quale derivano centinaia di giudizi in cui muta soltanto qualche aggettivo) e per la totale assenza di motivazioni e soprattutto per l’assenza di valutazioni sulle singole pubblicazioni, mentre i giudizi finali appaiono rabberciati, ispirati ad alcuni modelli-tipo e complessivamente non motivati e non supportati da un’analisi puntale delle pubblicazioni presentate dai candidati; infatti negli stessi giudizi le singole pubblicazioni presentate sono solo sporadicamente citate, quasi sempre in modo solamente e banalmente ripetitivo dei semplici titoli, mentre sulla quasi totalità delle pubblicazioni la commissione non scrive nulla e quindi non si esprime lasciando intendere che delle pubblicazioni la commissione ha letto al massimo titolo e luogo di pubblicazione ignorando quindi il reale contenuto degli scritti presentati dai candidati. Gli stessi altri titoli previsti nei criteri aggiuntivi sono spesso dimenticati nei giudizi finali, tanto dimenticati che candidati che li possiedono non li vedono né citati né riconosciuti dalla commissione;
gli stessi pareri pro veritate preparati dalla professoressa Paola Vismara dell’università di Milano sono dei testi brevissimi con una media di 10 righe per poco meno di 700-800 caratteri, spazi compresi. Considerando che tutti i pareri comprendono la forma finale rituale “Si ritiene che il candidato sia degno” oppure “Si ritiene che il candidato non possa conseguire” il parere pro veritate è costituito concretamente da circa 500 caratteri spazi compresi (ma anche da 284 caratteri, spazi compresi). Con una quantità di caratteri tanto esigua l’autrice dei pareri non analizza certo la produzione scientifica dei candidati né descrive dettagliatamente di quali elementi aggiuntivi previsti dalla commissione i candidati siano in possesso, ma si limita a valutazioni molto generiche e assertive senza in alcun modo fornire elementi concreti e prove che possano motivare il giudizio successivamente espresso;
la commissione nei giudizi bolla talune collane editoriali e case editrici definendole a diffusione locale mostrando di ignorare il panorama editoriale e scientifico di SSD M-STO/07, arrogandosi il compito di stabilire classifiche tra case editrici, ignorando che talune case editrici definite locali hanno invece regolare distribuzione sul territorio nazionale, recensioni sulle principali riviste specialistiche, presenza nelle biblioteche anche straniere. Fatto questo che sarebbe stato facilmente evitabile se i commissari avessero avuto conoscenza del settore di cristianistica;
appare evidente quanto siano non credibili i tempi utilizzati dalla commissione per analizzare i curricula o stendere i giudizi su 111 candidati di I fascia e su 323 candidati di II fascia. Infatti il giorno 8 aprile 2013 la commissione (verbale n. 3), oltre a vari altri adempimenti, “procede ad un’attenta valutazione dei curricula dei candidati” di I fascia in un tempo compreso al massimo nelle 3 ore che dura la seduta (dalle ore 10,30 alle ore 13,30). Anche volendo attribuire tutto il tempo disponibile (nel verbale la commissione procede anche per ogni candidato “alla verifica degli indicatori calcolati dal CINECA”) per 111 candidati di I fascia l’attenta valutazione dei curricula e la verifica degli indicatori è avvenuta in 180 minuti cioè circa un minuto e mezzo a candidato, dato, questo, inverosimile;
il giorno 29 aprile 2013 la commissione (verbale n. 4) dalle ore 10,30 alle ore 13,30 procede “alla lettura e al confronto dei giudizi individuali redatti per i candidati all’abilitazione a professore universitario di I fascia (…) e procede alla stesura dei giudizi collegiali” esamina anche 18 pareri pro veritate. Tutto questo è compiuto in 180 minuti, cioè per ogni giudizio collegiale la commissione dichiara di avere impiegato un minuto e mezzo, poiché nel verbale successivo i giudizi vengono caricati sulla piattaforma senza che si dia notizia di altro tempo dedicato alla stesura dei giudizi collegiali;
il giorno 30 maggio 2013 la commissione (verbale n. 6) dalle ore 10 alle ore 13,30, oltre ad altri adempimenti, “procede quindi ad un esame preliminare dei curricula dei candidati, con l’intento di qualificane la congruenza degli interessi scientifici in relazione ai settori disciplinari compresi nel settore concorsuale 11/A4 e di individuare i candidati per i quali risulta opportuna l’acquisizione di un parere pro-veritate (…) passa poi all’individuazione dei candidati che si collocano chiaramente al di sotto della soglia minima dei criteri e dei parametri definiti dalla commissione e che risultano all’unanimità non valutabili positivamente ai fini del giudizio di abilitazione”, e la commissione compie tutto questo lavoro sui curricula di 323 candidati in 210 minuti pari a 39 secondi a candidato;
il giorno 3 ottobre 2013 la commissione (verbale n. 8) dalle ore 10,30 alle ore 15,45 “procede quindi alla lettura e al confronto dei giudizi individuali redatti per l’abilitazione a professore universitario di II fascia. Dopo ampia e approfondita disamina, la commissione constata la sostanziale convergenza delle valutazioni individuali”. Il giorno 17 ottobre la commissione (verbale n. 9) dalle ore 10,30 alle ore 14 “procede alla lettura e al confronto dei restanti giudizi individuali redatti per i candidati all’abilitazione a professore universitario di II fascia e prosegue alla stesura dei giudizi collegiali”. Il 25 novembre la commissione (verbale n. 11) dalle ore 10,30 alle 15,30 dopo aver proceduto “ad un’ultima verifica formale delle valutazioni collegiali formulate per i candidati all’abilitazione a professore universitario di I fascia (…) prosegue quindi alla verifica delle valutazioni individuali e collegiali formulate per i candidati all’abilitazione di professore universitario di II fascia”; considerato che in questi 3 verbali si attesta che la commissione ha fatto una verifica formale dei 111 giudizi di professore di I fascia e che per ognuno dei 323 candidati di II fascia sono stati letti 5 giudizi individuali, uno per ogni commissario, in più è stato scritto un giudizio collegiale per ogni candidato, si è trattato quindi di leggere 111 giudizi collegiali, discutere in modo “ampio e approfondito”, come dichiara la commissione, 1615 giudizi individuali e scrivere 323 giudizi collettivi utilizzando complessivamente poco meno di 14 ore pari a circa 27 secondi per ogni giudizio da leggere o da scrivere,
si chiede di sapere se il Ministro in indirizzo intenda intervenire con urgenza per verificare quanto evidenziato e procedere all’annullamento dei risultati del settore concorsuale 11/A4 per le ragioni sopra addotte;
se intenda aprire un’inchiesta sul censurabile comportamento dei commissari riguardo ai verbali e a loro contenuto, al rifiuto da parte dei commissari di leggere e giudicare le pubblicazioni, alla stesura di giudizi non motivati e arbitrari e a verbali che non possono corrispondere nei tempi dichiarati alla realtà che viene descritta;
se intenda tutelare lo stesso Ministero dalle dichiarazioni dei commissari rispetto ai tempi di compilazione dei giudizi e se nella loro formulazione e nell’andamento dei lavori della commissione non si evidenzino fatti suscettibili di rilevanza anche penale;
se intenda verificare le incongruenze nei giudizi espressi dalla commissione che ha abilitato candidati privi di mediane o privi di titoli aggiuntivi, anche in relazione alla presunta internazionalizzazione, e ha negato l’abilitazione a candidati in possesso di detti titoli;
quali iniziative intenda assumere nei confronti di una commissione che abilita alcuni candidati di SSD M-STO/07 senza sottoporli a parere pro veritate, che nega l’abilitazione ad altri sempre senza sottoporli a parere e che infine decide per altri candidati di ricorrere al parere pro veritate;
se ritenga che un parere pro veritate di 250 caratteri, spazi compresi, risponda ai criteri previsti dal Ministero (nota direttoriale 12477 del 27 maggio 2013) che indicava alle commissioni come occorresse “una valutazione analitica dei titoli e delle pubblicazioni scientifiche presentate da ciascun candidato” e da quanto ribadito dal Ministero nella nota del 9 luglio 2013 circa l’obbligo di inserire nei giudizi collegiali la sintetica descrizione del contributo individuale del candidato alle attività di ricerca svolte e la valutazione analitica di titoli e pubblicazioni scientifiche;
se intenda verificare l’adeguata conoscenza della lingua italiana da parte del commissario spagnolo Francisco Diez De Velasco per accertare se egli fosse in grado di leggere testi scientifici in lingua italiana e relativi a discipline del tutto estranee alla sua attività accademica dal momento che mostra di non essere in grado di formulare giudizi in lingua italiana;
se ritenga che docenti di Paleografia o Biblioteconomia detengano la competenza per giudicare la produzione scientifica di storici del cristianesimo e quali iniziative intenda assumere in modo urgente perché improvvidi accorpamenti di discipline vengano cancellati;
se abbia osservazioni da sollevare quanto alla circostanza che la commissione, accogliendo senza alcun commento il parere pro veritate di poche generiche righe del consulente esterno nei giudizi individuali e ricopiandolo nel giudizio finale, ha di fatto sancito che una parte dei candidati sia stata abilitata o non abilitata da un giudice monocratico in luogo di una commissione formata da 5 membri.
2. La Storia economica, l’Anvur e la terza legge fondamentale della stupidità umana [1]
La fine della Storia economica in Italia è nota. La disciplina viene eliminata dagli ordinamenti didattici finanche nei corsi di laurea in Economia, gli storici dell’economia grazie agli esiti della VQR appaiono un peso nei Dipartimenti e nelle Università e, per conseguenza, le chiamate dei prossimi abilitati, oltre che per le ragioni generali che le renderanno scarse in ogni settore, nella Storia economica si conteranno sulle dita di una e forse due mani. Insomma, siamo all’ultima spiaggia, ma, tra incredulità e rassegnazione, nessuno ne parla.
![altan baratro]()
Non so cosa Luigi Einaudi, Amintore Fanfani, Corrado Barbagallo, Gino Luzzatto, Luigi Dal Pane, Federigo Melis, Gino Barbieri, Carlo M. Cipolla, Mario Romani, Aldo De Maddalena, Ruggiero Romano, Domenico Demarco, Luigi De Rosa, Giorgio Mori… avrebbero pensato della valutazione e del futuro del loro settore di studio e di ricerca affidati – si sa da chi (l’allora Ministro Gelmini), ma non con quali criteri e perché – a un nucleo minoritario di economisti storici, segnalatisi, già prima di entrare in azione, per un quantomeno infelice «lasciamo che gli ordinari vecchi vadano in pensione, facciamo mobbing su quelli giovani ma mediocri (p. es. tagliamoli fuori dalle commissioni di concorso e facciamone degli zombies)»[2] http://www.roars.it/online/mobbing-colleghi-da-zombizzare-e-giustizia-sommaria-le-abilitazioni-secondo-un-esperto-dellanvur/.
Certo, non avrebbero assistito in silenzio alla fine della Storia economica, una disciplina che in Italia ha contribuito alla formazione di generazioni e generazioni di laureati in economia, in storia, in scienze politiche, ma anche in lettere, lingue ecc. Una disciplina in bilico tra due culture, per dirla con Cipolla[3], quella storica, che la rende «fondamentalmente umanistica», e quella economica, che la espone ai contraccolpi di una economia che è andata sempre più «arroccando[si]» «su posizioni non umane». Di qui, ancora nella limpida lettura di Cipolla, le due soluzioni contrapposte degli storici «di tipo continentale-europeo» e degli storici «di tipo modellistico americano»: «i primi allentan[o] i legami con l’Economica, i secondi allentan[o] i legami con la Storia». Anche se nel caso della Storia economica italiana sarebbe più giusto dire che i primi cercano di coniugare Storia ed Economia, privilegiando le fonti e la ricerca d’archivio e rifuggendo da improbabili modelli teorici e da immaginifiche, per quanto suggestive, serie quantitative, i secondi no.
Ebbene, con il grande gioco della valutazione, l’Italia, culla della storia e della storiografia, si appresta ad abbandonare il campo della storia economica di tipo continentale-europeo, trasformando in «zombies» gli storici italiani che lo popolano e indicando alle giovani e meno giovani leve una sola via per sopravvivere, quella dell’economia storica e della cliometria; una via che, spingendo inevitabilmente verso la contemporaneità, fa anche piazza pulita della prestigiosa tradizione italiana di studi di storia economica medievale e moderna.
Per di più, per chi nutra sane e legittime aspirazioni di carriera, si tratta di una via che si prospetta impervia, perché gli economisti, ai quali ineluttabilmente, con la scomparsa di un autonomo settore disciplinare di Storia economica, sarà devoluto il compito di giudicare gli storici dell’economia, non pare abbiano in particolare considerazione i lavori degli economisti storici italiani. L’alternativa, per continuare a dedicarsi alla Storia economica e per essere valutati con maggiore obiettività, sarebbe di approdare ai settori di medievale, moderna e contemporanea, ma anch’essa appare al momento malagevole ai fini concorsuali: scorrendo i primi risultati delle Commissioni per le abilitazioni, la specializzazione degli storici dell’economia costituisce (giustamente, visto che la Storia economica ha uno statuto disciplinare proprio e diverso) un handicap per l’abilitazione nei settori della storia generale.
Una prospettiva da zombi, dunque. E il tutto, come spesso accade nel nostro Paese, nel solco di una tardiva e infedele imitazione di quel che appare già archiviato nel mondo anglosassone, nel quale l’economia storica, dopo la stagione degli ardori e degli eccessi – circoscritti comunque al piano scientifico –, convive proficuamente con la Storia economica, che ha peraltro contribuito a rafforzare sul piano del metodo.
La Società degli Storici dell’Economia (SISE) ha scelto la strada della mediazione e del dialogo con i “nostri” esperti nell’ANVUR, che non ha funzionato. D’altra parte, viste le premesse e lo spirito di crociata che anima la pattuglia degli economisti storici nella guerra contro «la maggioranza dei cialtroni e mediocri», la strada del dialogo non poteva funzionare. E qui basta scorrere la VQR del settore, nella quale, alle incongruenze del “metodo Anvur” lamentate da altri settori storici e no, si è sommata la generalizzata penalizzazione di una solida tradizione storiografica e dei suoi consolidati strumenti di diffusione (riviste e case editrici).
Emblematico al riguardo il fatto che gli economisti storici insediatisi all’Anvur abbiano imitato gli economisti nella classificazione delle riviste e sottoscritto un “originale” sbarramento in virtù del quale, nei fatti, per aspirare alla fascia A una rivista deve essere pubblicata in lingua inglese e magari all’estero (gli stessi parametri, peraltro, hanno portato a escludere dalla classe A per la Storia economica le riviste italiane classificate in classe A in altre aree storiche, riviste che non di rado accolgono contributi degli storici dell’economia), con buona pace della nostra lingua e della nostra cultura[4]. Eppure la Storia economica è collocata e appartiene da tempo immemorabile all’area delle Scienze Economiche e Statistiche, per esempio nel CUN, consesso nel quale però, forse perché – a differenza dell’ANVUR – democraticamente eletto, è stato di norma riconosciuto a pieno il suo specifico statuto disciplinare e scientifico.
Di certo, nella prolungata crisi che attanaglia oggi non solo il nostro Paese, i padri fondatori della Storia economica in Italia non sarebbero rimasti a guardare: avrebbero autorevolmente spiegato che la Storia economica, non a caso collocata al I anno nei vecchi ordinamenti quadriennali delle Facoltà di Economia, è una disciplina formativa e che lo studio e la conoscenza della Storia economica (e non dell’economia storica che di una certa economia tende a condividere dogmi e modelli «non umani») potrebbero aiutare politici ed economisti a evitare qualche errore.
Il Paese ha problemi importanti, connessi al suo declino economico e culturale. Ritengo che il silenzio che accompagna la fine annunciata di un settore di studio, di ricerca e di insegnamento di antica e radicata tradizione come quello storico-economico sia un aspetto del declino dell’Università, della Ricerca e della Cultura in Italia, anche per le modalità con cui si sta consumando, complici, da un lato, la strumentalizzazione del sistema di valutazione – discusso e discutibile, ma non rifiutato dagli storici dell’economia come da qualsiasi altro ricercatore –, dall’altro, la rassegnazione e la prudenza degli storici dell’economia di fronte a un potere più raffinato ma non diverso da quello baronale di un tempo, che si sostiene di voler sradicare.
Confido negli storici dell’economia accademicamente giovani e in quei pochi di loro “veramente giovani”, che costituiscono nel settore una specie rara anch’essa prossima all’estinzione. Come storico dell’economia non più giovane, che condivide con la generazione accademica alla quale appartiene la responsabilità (e i limiti) dello stato dell’arte della Storia economica in Italia, posso solo dire che non mi sento per nulla uno zombi (né presento sintomi di trasformazione). Mi sento piuttosto come uno dei musicisti di quell’orchestrina che, dovendo assistere impotente al naufragio, continuò a suonare mentre il Titanic affondava.
Qualcuno interverrà a scongiurare l’inabissamento «per stupidità» della Storia economica?
Luigi De Matteo
(Ordinario di Storia economica Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”)
[1] Alla terza legge fondamentale della stupidità umana enunciata da Carlo M. Cipolla (Allegro ma non troppo, Bologna 1988) – «Una persona stupida è un persona che causa un danno a un’altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé od addirittura subendo una perdita» – sembra doversi imputare il «comportamento irragionevole» di quel gruppo di persone che, con responsabilità a livello politico e scientifico, hanno creato le condizioni per la scomparsa della Storia economica in Italia, procurando un danno generale senza trarne vantaggio, se non forse quello effimero, anch’esso ascrivibile alla stupidità umana, derivante dalla supponenza e dal connesso piacere di poter premiare quanti aderiscono al proprio orientamento metodologico e punire quanti se ne discostano.
[2] Il collega avrebbe dovuto dimettersi o essere sostituito seduta stante, non solo per l’incommentabile episodio in sé, ma perché da quell’episodio sono risultate compromesse sia la sua autorevolezza nell’ambito dell’organismo in cui era stato nominato per rappresentare la Storia economica sia la fiducia nella sua obiettività da parte di quanti era stato chiamato a valutare.
[3] Tra due culture. Introduzione alla storia economica, Bologna 1988.
[4] «Nessuna delle riviste italiane raggiunge parametri bibliometrici sufficientemente alti per essere incluse [nella classe A]», si legge nella Relazione finale del Gruppo di lavoro dell’Area 13 (Scienze economiche e statistiche) con specifico riferimento alle riviste di Storia economica; una constatazione che, non avendo indotto lo stesso gruppo a interrogarsi sulla congruenza dei parametri bibliometrici adottati, si traduce in un pollice verso nei confronti delle riviste italiane di Storia economica, degli storici dell’economia che ne guidano i comitati scientifici e della totalità degli storici dell’economia che vi hanno pubblicato e vi pubblicano, in buona sostanza della Storia economica tout court. Il che significa, è bene precisare, abbattere di fatto la Storia economica in Italia, prima ancora di darle la possibilità di migliorarsi e di crescere – specie sul piano della diffusione internazionale –, necessità che qualsiasi storico dell’economia italiano serio avverte e condivide.
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1. Dove va la sociologia italiana? (8.1.2014)
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Maria Luisa Bianco, Paolo Giovannini , Alberto Marradi, Franco Rositi, Loredana Sciolla, Giovanni Battista Sgritta, intervengono sugli esiti della prima tornata ASN per il settore di sociologia generale, giuridica e politica. Segue il documento Abilitazioni 2013 e Sociologia. Il documento è attualmente oggetto di dibattito sul blog Per la Sociologia
Questo documento nasce in reazione ai risultati resi pubblici in questi giorni dei lavori della Commissione di Sociologia generale, giuridica e politica, relativi all’ASN (Abilitazione Scientifica Nazionale). Anche se largamente noti alla comunità scientifica, ne richiamiamo gli aspetti principali:
1. Fortissime (e inspiegabili) differenze di valutazione tra Sociologia generale (19,6 di abilitati nella prima fascia, 16,7% nella seconda) e quelle effettuate – a tutt’oggi – dalle altre Commissioni (media generale prima fascia: 43,9; mediana: 41,6; seconda fascia: 43,8; mediana: 41,5);
2. Per circa un terzo, gli abilitati di prima fascia provengono da altri settori concorsuali; dei 29 abilitati, 25 sono concentrati nelle regioni del Nord: Centro e Sud insieme contano in tutto 4 abilitati; per quasi un terzo, gli abilitati appartengono a sedi della stessa città (Milano);
3. Per la seconda fascia, dove non sono ovviamente indicati né la sede né il settore, si possono solo segnalare le tendenze in atto: circa 60 su 71 abilitati (le domande presentate sono 424) provengono da università del Nord; di questi circa 15 (un quarto) da Milano, una decina da Trento. Guardando ai campi di interesse (in mancanza dei SSD), i candidati con poche eccezioni presentano lavori in buona misura congruenti con le specifiche del settore abilitante;
4. I candidati sono stati valutati quasi esclusivamente sul piano scientifico. È mancata pressoché totalmente la valutazione delle attività didattiche svolte e – come sarebbe stato logico almeno per i candidati alla prima fascia – la capacità e l’esperienza di lavoro istituzionale e gestionale;
5. Giudizi stereotipi e frettolosi, incongruenze, arbitri valutativi e veri e propri errori materiali sono largamente presenti nella formulazione dei giudizi.
La nostra reazione non ha come motivo principale l’esplicitare stupore e disaccordo sui risultati generali e su molti particolari che emergono da quella valutazione: spetterà ai candidati che si sentono ingiustamente penalizzati mobilitarsi o meno nelle sedi e con i mezzi che riterranno più opportuni. Ciò che spinge gli estensori del documento a intervenire pubblicamente è la sensazione che questo episodio sia l’ultimo, e però assai grave, segnale di un processo ormai di lungo corso che registra il declino quantitativo della presenza, e soprattutto la trasformazione qualitativa del ruolo e della natura delle discipline sociologiche. Fino ad oggi, questo processo era in buona misura imputabile a meccanismi esterni alla nostra comunità scientifica: il prevalere di retoriche disciplinari appiattite sullo spirito e persino sui gusti dei tempi; un’egemonia sempre più manifesta delle culture scientifiche dominanti, che purtroppo non ha incontrato resistenze ma ha anzi quasi sempre visto corrisponderle un “soddisfatto asservimento”; una diffusa pratica di omologazione concettuale, teorica e metodologica rispetto alle scienze hard, nel tentativo di presentare un’immagine pubblica di sé e del proprio lavoro in linea con uno statuto disciplinare storicamente consolidato.
Oggi, invece, questa vicenda chiama in causa attori e comparse interni alla nostra stessa disciplina. Chi vorrà, potrà approfondire e documentare meglio valutazioni e più o meno esplicite prese di posizione della Commissione: il cui comportamento – sia detto tra parentesi – è stato più omogeneo a compiti di selezione concorsuale (peraltro male assolti) che a compiti di valutazione abilitativa (cioè ai compiti per i quali avevano un mandato pubblico). Da parte nostra, vorremmo soprattutto rendere chiare le conseguenze che deriveranno dalle scelte della Commissione.
Primo. L’aver effettuato una selezione così drastica – finora, quella di gran lunga più drastica di tutte le altre discipline – e per di più nel settore portante della sociologia italiana, comporta una gravissima delegittimazione di tutta la nostra comunità scientifica. Sappiamo quanto ci è costato difendere spazi e dignità alla nostra disciplina nelle sedi istituzionali come nei molti luoghi pubblici e privati nei quali ci siamo trovati ad operare. Con quale forza potremo sostenere il confronto con le altre discipline dopo questo generalizzato giudizio di immaturità scientifica e di basso livello qualitativo della nostra (teoricamente migliore) classe docente e ricercatrice? Gli abilitati (assai più numerosi) degli altri settori, forti dei loro risultati, premeranno con successo riducendo ulteriormente la già scarsa presenza della sociologia nelle sedi universitarie. Già questo solo dato mette in luce tutta l’irresponsabilità e la miopia della Commissione.
Secondo. Nessuno vuole stabilire rigidi principi di equità geografica nella distribuzione delle (scarse) risorse di cui dispone e disporrà la nostra disciplina. Ma una così forte e quasi assoluta concentrazione delle abilitazioni nelle università del Nord (con Milano in testa) non può non sollevare una serie di domande, tra le quali quella se si sia in presenza di un tentativo (consapevole o meno) di imporre a tutta la sociologia italiana un modello di prevalente ispirazione “scientista” e (acriticamente) “anglosassone”, che nel nostro paese è fortemente concentrato negli atenei del Nord.
Qualunque sia la ragione, siamo di fronte a decisioni prese, ancora una volta, senza guardare alle conseguenze istituzionali delle proprie azioni. Per richiamare le maggiori: nella prima fascia i tantissimi abilitati del Nord avranno difficoltà a essere chiamati in sedi diverse da quelle a cui appartengono, e molte sedi del Centro e del Sud non potranno disporre di nessun ordinario, con l’oggettiva impossibilità di tenere in vita iniziative didattiche e di ricerca di un qualche peso. Nella seconda fascia, i moltissimi ricercatori (del Centro, del Sud, ma anche del Nord) umiliati dal giudizio per l’abilitazione, ragionevolmente si sottrarranno ai compiti didattici cui per il loro contratto non sono obbligati, facendo venir meno i requisiti minimi necessari a tenere in vita un grande numero di corsi di studio.
Terzo. Ci avviciniamo al punto fondamentale. I risultati della selezione mostrano con grande evidenza che la Commissione ha ispirato le sue scelte, e in modo radicale, fondamentalmente a una concezione del modo di fare lavoro scientifico in campo sociologico: una one best way che rende inutile e anzi dannosa la sola presenza di modi differenti e alternativi di lavorare. Così, alla logica clientelare e particolaristica delle vecchie componenti di ispirazione ideologico-politico-confessionale – di cui non si parlerà mai abbastanza male – si viene sostituendo una diversa logica di appartenenza, che si manifesta come una nuova componente – questa volta paludata di academic regalia – oggettivamente presuntuosa e inevitabilmente arrogante, che dietro la “formula politica” del merito fa strage di chi, anche in modo eccellente, fa ricerca scientifica seguendo approcci diversi: peraltro largamente prevalenti in campo internazionale e che anche in Italia si distinguono per aver prodotto conoscenze e idee di spessore, entrate stabilmente nel dibattito scientifico come in quello pubblico. Si tratta a parer nostro di una forma grave e unilaterale di selezione contraria allo spirito e ai valori della scienza.
Quarto, e ultimo. Con qualche eccezione, la Commissione ha condotto i suoi lavori – come si può facilmente rilevare da una rapida lettura dei verbali – con grande leggerezza e superficialità, quando non sciatteria. Si è esibito rigore, ma non verso se stessi. Giudizi standardizzati (e non individuali); pressoché totale assenza di una valutazione analitica dei titoli (come prescritto dal bando); erronee attribuzioni ai candidati di lavori e di competenze non proprie; scarso rispetto dei criteri stabiliti dal bando o persino dalla stessa Commissione; valutazioni e giudizi che riecheggiano pigramente gli indicatori della VQR, pensati peraltro per uno scopo assai diverso e comunque oggi oggetto di ripensamento; una interpretazione burocratica e banalizzante della c.d. internazionalizzazione, fatta coincidere con la pubblicazione in lingua inglese e incredibilmente negata a candidati in posizioni di rilievo in progetti internazionali e/o nazionali su bandi competitivi e con lunghe frequentazioni e solide relazioni con l’estero; candidati valutati come irrimediabili mediocri, che invece su indicatori importanti (ad esempio, il numero di articoli pubblicati su riviste di fascia A) presentano valori notevolmente superiori a quello mediano di riferimento, o che, in settori affini, hanno ricevuto giudizi altamente lusinghieri; uso di un italiano spesso incomprensibile, o approssimativo e trascurato, e così via. Tutti segnali di uno scarsissimo rispetto verso il lavoro e la persona dei candidati. Siamo, purtroppo, molto lontani dalle best practices della valutazione, che dovrebbe avere come primo e più vincolante principio quello di rispettare e, di più, di piegarsi a capire approcci e modalità di lavoro scientifico, anche e soprattutto quando sono diversi da quelli che si praticano e che si ritengono giusti.
Cosa fare, sarà in buona misura responsabilità e compito di tutti noi. Nell’immediato futuro, si dovranno rivedere meccanismi e regole del sistema di valutazione, perché molte cose non hanno funzionato. Ma il vero cambiamento, weberianamente, deve avvenire in noi: adottando e praticando un’etica della valutazione che salvaguardi ciò che in questa vicenda non si è salvaguardato: il pluralismo delle idee, la fecondità delle differenze, la ricchezza del confronto scientifico.
Questo documento ha tra i suoi primi firmatari (in ordine alfabetico):
Maria Luisa Bianco, Paolo Giovannini, Alberto Marradi, Franco Rositi, Loredana Sciolla, Giovanni Battista Sgritta
Chi vi si riconosce può inviare la sua adesione ai seguenti indirizzi:
giovannini@unifi.it
alkmar@libero.it (Marradi)